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MONTAIGNE: i selvaggi

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Giuseppe Bailone

MONTAIGNE

“Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”.[1]

E’ questo il pregiudizio che caratterizza l’atteggiamento di molti europei nei confronti delle relazioni di viaggio che arrivano dal continente americano e raccontano di costumi diversi e spesso sconcertanti.

Montaigne, trovatosi fin da piccolo a misurare, in patria, la sua singolare diversità dai coetanei che parlavano una lingua incomprensibile e avevano interessi e immaginario a lui estranei, è vaccinato contro il pregiudizio che vede nella diversità il segno della barbarie. Non solo: Montaigne tende a rovesciare il pensiero dominante sui barbari.

“Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto … Non c’è ragione che l’arte guadagni il punto d’onore sulla nostra grande e potente madre natura. Abbiamo tanto sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre invenzioni, che l’abbiamo soffocata del tutto. Tant’è vero che dovunque riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente vergognare le nostre vane e frivole imprese …

Quei popoli … sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace che non se ne sia avuto nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro … ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per esperienza; né poterono credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e legami umani. E’ un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici; nessuna conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica, nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre a quello ordinario; nessun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso di vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, perdono, non si sono mai udite. Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica da lui immaginata: «Viri a diis recentes». «Hos natura modos primum dedit».[2]

Montaigne dice di aver avuto a lungo presso di sé un uomo che ha vissuto dieci o dodici anni in Brasile. “Un uomo semplice e rozzo, condizione adatta a rendere una testimonianza veritiera; poiché le persone d’ingegno fino osservano, sì, con molta maggior cura, e più cose, ma le commentano; e per far valere la loro interpretazione e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la storia; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincercene, aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano a l’ampliano. Ci vuole un uomo o molto veritiero o tanto semplice da non aver di che costruire false invenzioni e dar loro verosimiglianza, e che non abbia alcun interesse. Così era il mio”.[3]

Sorprendente: il nemico dei pregiudizi cede qui al mito del buon selvaggio e a quello dell’uomo “semplice e rozzo” specchio fedele della realtà. 

Montaigne descrive con evidente simpatia la vita di una comunità brasiliana che pratica il cannibalismo. Scrive: “Non lo fanno, come si può pensare, per nutrirsene, come facevano anticamente gli Sciti; ma per esprimere una suprema vendetta. E che sia così lo prova il fatto che avendo visto i Portoghesi, i quali si erano uniti ai loro nemici, adottare contro loro medesimi, quando li prendevano, un altro genere di morte, cioè di seppellirli fino alla cintura e tirare contro il resto del corpo gran colpi di frecce, e poi impiccarli, pensarono che quei popoli di quest’altro mondo, che avevano diffuso la conoscenza di molti vizi fra i loro vicini, e che erano ben più grandi maestri di loro in ogni sorta di malizie, non usavano questa specie di vendetta senza ragione, e che doveva essere ben più dura della loro, e cominciarono ad abbandonare il loro uso antico per seguire questo. Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.

Crisippo e Zenone, capi della stoica, hanno pensato, è vero, che non ci fosse alcun male a servirsi della nostra carogna secondo i nostri bisogni, e a trarne nutrimento; come i nostri antenati, assediati da Cesare ad Alesia, decisero di resistere agli assedianti che li affamavano mangiando i corpi dei vecchi, delle donne e di altre persone invalide”.[4]

La nostra cultura e la nostra storia offrono, cioè, degli elementi a giustificazione della pratica del cannibalismo di quei brasiliani, mentre “non si trovò mai opinione tanto dissennata da giustificare il tradimento, la slealtà, la tirannia, la crudeltà, che sono le nostre colpe abituali.

Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontiamoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie. La loro guerra è assolutamente nobile e generosa, e ha tutte le giustificazioni e la bellezza che può avere questa malattia dell’umanità; tra loro essa non ha altro fondamento che la sola passione per il valore … Non chiedono ai prigionieri altro riscatto che la confessione di essere vinti; ma non se ne trova nemmeno uno, in tutto un secolo, che non preferisca la morte all’abbandonare, sia nel contegno sia nelle parole, un’ombra soltanto della propria invincibile grandezza d’animo; non se ne vede uno che non preferisca essere ucciso e mangiato, piuttosto che chiedere soltanto di non esserlo. Tengono i prigionieri in piena libertà, perché la vita sia loro più cara; e spesso ricordano loro la minaccia di morte che li sovrasta e le torture che dovranno soffrire, i preparativi che si stanno facendo a questo fine, lo spezzettamento delle loro membra, e il banchetto che si farà a loro spese. Tutto questo si fa al solo scopo di strappare dalla loro bocca qualche parola debole o sottomessa o di far venir la voglia di fuggire, per aver il vantaggio di averli spaventati e di aver fatto violenza alla loro fermezza”. Ma, “quei prigionieri son tanto lontani dall’arrendersi per tutto ciò che vien fatto loro che, anzi, nei due o tre mesi della loro cattività, mantengono un contegno gaio; sollecitano i loro padroni perché si affrettino a metterli alla prova; li sfidano, li ingiuriano, rinfacciano la loro viltà e il numero delle battaglie perdute contro i propri compatrioti. Io posseggo una canzone composta da un prigioniero, in cui si trova questo tratto saliente: che vengano pure arditamente tutti quanti e si radunino per mangiarlo; mangeranno, così, al tempo stesso i loro padri e i loro avi, che hanno servito da nutrimento al suo corpo. «Questi muscoli» dice «questa carne e queste vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la sostanza delle membra dei vostri antenati: assaporateli bene, vi troverete il sapore della vostra stessa carne». Idea questa che non ha niente di barbarico. Quelli che li rappresentano morenti, e che descrivono il momento in cui vengono uccisi, dipingono il prigioniero che sputa in faccia a quelli che lo uccidono e fa loro gli sberleffi. In realtà, fino all’ultimo respiro non cessano di provocarli e sfidarli con le parole e con l’atteggiamento. Ecco degli uomini veramente selvaggi, al nostro confronto; perché bisogna o che essi lo siano davvero completamente, o che lo siamo noi; c’è infatti una distanza enorme fra il loro modo di essere e il nostro”.[5]

Questa distanza Montaigne la misura anche rovesciando il rapporto e riportando il giudizio di alcuni di questi brasiliani sul mondo francese.

“Tre di loro – racconta – furono a Rouen, al tempo in cui c’era il defunto re Carlo IX. Il re parlò loro a lungo; fu loro mostrato il nostro modo di vivere, la nostra magnificenza, l’aspetto di una bella città. Dopo di che qualcuno chiese il loro parere, e volle sapere che cosa avessero trovato di più ammirevole; essi risposero tre cose, di cui non ricordo più la terza, e me ne rammarico; ne ricordo però ancora due. Dissero che prima di tutto trovavano molto strano che tanti grandi uomini, con la barba, forti e armati, che stavano intorno al re (è probabile che parlassero degli svizzeri della sua guardia), si assoggettassero a obbedire a un fanciullo, e che invece non si scegliesse piuttosto qualcuno di loro per comandare; in secondo luogo (essi hanno una maniera di parlare secondo la quale chiamano gli uomini la metà degli altri) che si erano accorti che c’erano fra noi uomini pieni fino alla gola di ogni sorta di agi, e che le loro metà stavano a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà; e trovavano strano che quelle metà bisognose potessero tollerare una tale ingiustizia, e che non prendessero gli altri per la gola o non appiccassero il fuoco alle loro case”.[6]

“Parlai – continua Montaigne – assai a lungo con uno di loro; ma avevo un interprete che mi seguiva tanto male e che si trovava così ostacolato dalla sua ignoranza a capire le mie idee, che non potei trarne alcun piacere. Quando gli domandai che vantaggio traesse dalla superiorità di cui godeva fra i suoi (perché era un capo, e i nostri marinai lo chiamavano re) egli mi disse che era di marciare per primo in guerra; da quanti uomini era seguito, e mi mostrò un tratto di terreno per significare che erano tanti quanti potevano stare in quello spazio, e potevano essere quattro o cinquemila uomini; se, fuori della guerra, tutta la sua autorità era finita, ed egli rispose che gli rimaneva questa, che quando visitava i villaggi che dipendevano da lui, gli si preparavano sentieri attraverso i cespugli dei boschi, per i quali potesse passare comodamente.

Tutto ciò – conclude Montaigne – non va poi tanto male: però, purtroppo, non portano calzoni!”[7]

Con i calzoni che mancano ai brasiliani si chiude il discorso di Montaigne sui selvaggi, a conferma del peso dell’abitudine nel giudizio umano.

Altrove, parlando di quello che chiama ”imperio della consuetudine” Montaigne scrive: “Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione …

E le idee comuni che vediamo aver credito intorno a noi e che ci sono infuse nell’anima dal seme dei nostri padri, sembra che siano quelle generali e naturali.

Per cui accade che quello che è fuori dai cardini della consuetudine, lo si giudica fuori dai cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente per lo più”.[8]


[1] Michel de Montaigne, Saggi, libro I, cap. XXXI, p. 272 dell’edizione Adelphi 2005.

[2] Ib. pp. 272-274. La prima citazione è tratta dall’epistola 90 di Seneca e significa: “Uomini usciti or ora dalle mani degli dei”; la seconda è tratta dalle Georgiche di Virgilio (II, 20)  e significa: “Queste sono le prime leggi che ha dato la natura”.

[3]Ib. p. 271.

[4]Ib. pp. 277-278.

[5]Ib. p. 278-282.

[6] Ib. p. 284.

[7] Ib. pp. 284-285.

[8] Ib. libro I, cap. XXIII, p. 150.


Torino 31 ottobre 2011

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2011-12 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

Testi di Michel de Montaigne

Testi su Michel de Montaigne


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 22-09-2015