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MONTAIGNE: l’uomo e gli altri animali

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Giuseppe Bailone

Stemma dei signori di Montaigne

Il dominio umano sul mondo naturale e su molti animali alimenta l’idea della superiorità umana sugli animali. I filosofi sono generalmente convinti di questa superiorità. Montaigne no. Lui riesce a mettersi nei panni non solo degli altri uomini, anche dei più lontani e diversi, ma anche degli animali e, in qualche modo, di tutti gli esseri viventi e dotati di sensibilità.

Montaigne rinuncia “volentieri a quella sovranità immaginaria che ci è data sopra le altre creature”. Pensa che ci sia “un generale dovere di umanità che ci lega non solo alle bestie che hanno vita e sentimento, ma anche agli alberi e alle piante”.[1]

Montaigne dilata il concetto di umanità fino a comprendere tutti i viventi. Odia la crudeltà, cui non riesce ad abituarsi e che ai suoi tempi ha raggiunto livelli incredibili “per la sfrenatezza delle nostre guerre civili”.

Scrive: “Io odio crudelmente la crudeltà, e per natura e per ragionamento, come il più grave di tutti vizi. Ma fino al punto di mollezza che non posso veder sgozzare un pollo senza dispiacere, e mi dà noia sentir gemere una lepre sotto i denti dei miei cani, benché la caccia sia un piacere violento”.[2]

La crudeltà aggrava in modo insopportabile la presunzione umana, che per altri aspetti potrebbe apparire solo una patetica illusione.

“La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell’universo, all’ultimo piano della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizioni [cioè l’aerea, l’acquatica e la terrestre]; e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. E’ per la vanità di questa immaginazione che egli si uguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace”.[3]

Ci vuole poco per smontare la presunzione umana. Basta una domanda.

“Come può l’uomo conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce questa bestialità che attribuisce loro?

Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?”

Abbiamo difficoltà a capire gli animali, ma, invece di prendere atto di questo limite, abbiamo l’impudenza di crederci superiori a loro.

Noi non comprendiamo le bestie più di quanto loro comprendano noi. Esse potrebbero avere di noi la stessa considerazione che noi abbiamo di loro. Dobbiamo quindi prendere in considerazione l’ipotesi di una sostanziale parità e provare a verificarla.

“Bisogna che osserviamo la parità che c’è fra noi. Noi comprendiamo approssimativamente il loro sentimento, così le bestie il nostro, pressappoco nella stessa misura. Esse ci lusingano, ci minacciano e ci cercano; e noi loro.

Del resto, vediamo in modo evidente, che c’è fra loro una piena e totale comunicazione, e che esse si capiscono fra loro, non solo quelle della stessa specie, ma anche quelle di specie diverse”.[4]

Gli animali non hanno la parola, ma noi comunichiamo non solo con la parola, ma con gli occhi, con le mani, con la testa, con le sopracciglia, con le spalle, col corpo, “con una varietà e molteplicità che rivaleggia con quella della lingua”.

“Del resto quale delle nostre facoltà non troviamo nelle opere degli animali? C’è forse un governo regolato con maggior ordine, distribuito in più incarichi e uffici diversi e tenuto con più fermezza di quello delle api? Questa disposizione di azioni e funzioni così ordinata, possiamo forse immaginarla condotta senza raziocinio e senza previdenza?”

Montaigne si ferma a parlare delle attività delle rondini e dei ragni e vi trova “facoltà di scegliere e di pensare e di concludere”.

“Noi constatiamo ampiamente, nella maggior parte delle loro opere, quanta superiorità abbiano gli animali su di noi, e quanto la nostra arte sia insufficiente a imitarli”.

Montaigne, però, non condivide l’idea che l’uomo sia meno dotato dalla natura degli altri animali e debba con l’arte rimediare a questo svantaggio.

“La natura ha universalmente abbracciato tutte le sue creature; e non ve n’è alcuna che essa non abbia pienamente fornito di tutti i mezzi necessari alla conservazione del suo essere”.

Per Montaigne “non c’è ragione di ritenere che le bestie facciano per inclinazione naturale e forzata le stesse cose che noi facciamo per nostra scelta e per arte. Da effetti simili dobbiamo indurre facoltà simili, e riconoscere di conseguenza che quello stesso raziocinio, quello stesso ordine che noi seguiamo nell’agire è anche quello degli animali. Perché in essi immaginiamo questa costrizione naturale, noi che non proviamo niente di simile? A ciò si aggiunga che è più onorevole essere indotto e obbligato ad agire ordinatamente in conseguenza di una condizione naturale e inevitabile (e ci avvicina di più alla divinità) che non agire ordinatamente in conseguenza di una libertà temeraria e fortuita; ed è più sicuro lasciare alla natura, che a noi, le redini della nostra condotta. La vanità della nostra presunzione fa sì che preferiamo esser debitori delle nostre capacità alle nostre forze più che alla sua generosità; e arricchiamo gli altri animali di beni naturali e li cediamo loro per onorarci e nobilitarci con beni acquisiti; molto ingenuamente, mi sembra, giacché io apprezzerei altrettanto le doti tutte mie e spontanee di quelle che avessi mendicato e cercato di procurarmi imparandole. Non è in nostro potere acquistarci più bella stima di quella di essere favoriti da Dio e dalla natura”.[5]

Noi ci serviamo delle abilità degli animali. Ad esempio, gli abitanti della Tracia, per attraversare sul ghiaccio qualche fiume gelato, si avvalgono della volpe, che accostando l’orecchio vicinissimo al ghiaccio decide se avanzare o ritrarsi. Per Montaigne c’è in quell’azione della volpe una complessa attività mentale, un movimento di pensiero che dalla sensazione dello scorrere dell’acqua più o meno in profondità valuta la consistenza del ghiaccio. Attribuire quella sua abilità “soltanto a una acutezza particolare del senso dell’udito, senza ragionamento e senza conclusione, è una chimera, e non può aver posto nella nostra immaginazione. Lo stesso bisogna pensare di tante specie di astuzie e di accorgimenti con cui le bestie si proteggono dagli agguati che tendiamo loro”.[6]

Montaigne ricorda che Lattanzio attribuisce alla bestie non solo la parola, ma anche il riso. E aggiunge: “La differenza di linguaggio che si vede fra noi secondo la differenza dei paesi, si trova anche fra gli animali della stessa specie. Aristotele cita a questo proposito il diverso canto delle pernici secondo la posizione dei luoghi”.[7]

“Noi non siamo né al di sopra né al di sotto” degli altri animali.

E’ vero che ci serviamo di loro e li dominiamo, ma si tratta di rapporti di potere non diversi da quelli che si praticano tra gli uomini, tra padroni e servi, tra superiori e inferiori. Gli animali, invece, “hanno questo di più generoso, che mai leone si fece servo di un altro leone, né un cavallo di un altro cavallo per mancanza di coraggio”.[8]

Montaigne dedica molte pagine a descrivere comportamenti animali che indicano una loro capacità di discernere ciò che è bene e ciò che è male per loro e rivelano capacità di apprendimento, di ragionamento e di buon senso. Per lui “c’è più differenza fra un uomo e un altro uomo, che fra un animale e un uomo”.[9]

Montaigne pensa che neanche la religione sia del tutto assente dal mondo animale. Scrive: “Possiamo anche dire che gli elefanti hanno qualche cognizione di religione, poiché dopo molte abluzioni e purificazioni li vediamo, levando la proboscide come fosse un braccio, e tenendo gli occhi verso il sol levante, rimanere a lungo in meditazione e contemplazione a certe ore del giorno, di loro proprio impulso, senza istruzione e senza precetto. Ma, per il fatto che non vediamo alcuna manifestazione negli altri animali, non possiamo tuttavia concludere che siano senza religione, e non possiamo intendere in alcun senso quello che ci è nascosto”.[10]

Montaigne prosegue, poi, il confronto fra l’uomo e le bestie in relazione a qualità morali quali la fedeltà, la gratitudine, la capacità di stringere alleanze e confederazioni, la magnanimità, il pentimento, la clemenza, smontando ogni elemento su cui si volesse fondare la superiorità umana. Prende in considerazione la guerra, “la più grande e la più pomposa delle azioni umane”, e si domanda se essa non sia “testimonianza della nostra imperfezione e debolezza; poiché invero sembra che la scienza di distruggerci e ucciderci a vicenda, di rovinare e perdere la nostra stessa specie, non abbia molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la possiedono”.[11] Cita Seneca che afferma che molti animali ci superano in bellezza. E conclude: “Non è per un vero ragionamento, ma per una folle superbia e ostinazione che ci mettiamo al di sopra degli animali e ci isoliamo dalla loro condizione e compagnia … Noi abbiamo, per parte nostra, l’incostanza, l’irresolutezza, l’incertezza, il dolore, la superstizione, la preoccupazione per le cose future, per l’al di là, cioè; l’ambizione, l’avarizia, la gelosia, l’invidia, i desideri sregolati, forsennati e indomabili, la guerra, la menzogna, la slealtà, la calunnia e la curiosità. Certo, abbiamo davvero strapagato quella bella ragione di cui ci gloriamo, e quella capacità di giudicare e di conoscere, se l’abbiamo acquistata al prezzo di questo numero infinito di passioni delle quali siamo continuamente in preda”.[12]

“Sembra, in verità, che la natura, per consolarci del nostro stato miserabile e meschino, ci abbia dato solo la presunzione”.[13]

La presunzione maschera il disagio della civiltà e della cultura.

“Le bestie ci mostrano a sufficienza quante malattie ci procura l’agitazione del nostro spirito.

Ciò che ci narrano di quelli del Brasile, che morivano solo di vecchiaia, e che si attribuisce alla serenità e alla tranquillità della loro aria, io lo attribuisco piuttosto alla tranquillità e alla serenità della loro anima, libera da ogni passione e pensiero e occupazione impegnativa o spiacevole, poiché erano gente che passava la propria vita in una mirabile semplicità e ignoranza, senza istruzione, senza leggi, senza re, senza religione veruna.

E da che cosa deriva che, come si vede per esperienza, i più grossolani e rozzi sono più forti e più desiderabili nelle pratiche amorose, e che l’amore di un mulattiere si rende spesso più gradevole di quello di un galantuomo, se non dal fatto che in quest’ultimo l’agitazione dell’anima turba la sua forza fisica, la fiacca e la stanca?

Come, di solito, essa stanca e turba anche se stessa. Chi la squilibra, chi più spesso la spinge alla follia se non la sua prontezza, il suo acume, la sua agilità e infine la sua stessa forza? Da che cosa nasce la più sottile follia se non dalla più sottile saggezza? Come dalle grandi amicizie nascono grandi inimicizie; dalle saluti vigorose, le malattie mortali; così dalle rare e vive emozioni delle nostre anime, le pazzie più straordinarie e più bizzarre … Chi non sa quanto sia impercettibile la distanza fra la follia e le ardite elevazioni di uno spirito libero e gli effetti di una virtù suprema e straordinaria? ...

Volete un uomo sano, lo volete ben regolato e in posizione salda e sicura? Avvolgetelo di tenebre, di ozio e di torpore. Dobbiamo istupidirci per diventar saggi, e abbacinarci per saperci dirigere”.[14]

Montaigne inserisce queste dettagliate considerazioni sugli animali all’interno dell’Apologia di Raymond Sebond, in cui ridimensiona il potere della scienza ed esalta la difesa che del cristianesimo ha fatto questo spagnolo molto apprezzato da suo padre. In un testo in cui il vero vantaggio per l’uomo sembra essere la possibilità della coscienza dei propri limiti e l’accettazione della rivelazione cristiana, Montaigne non esclude che anche gli animali siano capaci di qualche forma di attività religiosa, ma mette anche, tra le condizioni della vita felice dei brasiliani, l’essere “senza religione veruna”.

Montaigne non teme le contraddizioni.


[1] Montaigne, Saggi, libro II, cap. XI, pp. 562-563.

[2] Ib. p. 554.

[3] Montaigne, Saggi, libro II, cap. XII, p. 584.

[4] Ib. pp. 584-585.

[5] Ib. p. 595.

[6] Ib. p. 596.

[7] Ib. p. 593.

[8] Ib. p. 598.

[9] Ib. p. 604.

[10] Ib. pp. 606-607.

[11] Ib. p. 614.

[12] Ib. pp. 632- 633.

[13] Ib. p. 636.

[14] Ib. pp. 640-642.


Torino 7 novembre 2011

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2011-12 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

Testi di Michel de Montaigne

Testi su Michel de Montaigne


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 22-09-2015