GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)

GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)

I - II - III

A. Ferrazzi, Giacomo Leopardi, 1820, olio su tela, Recanati Casa Leopardi


BIOGRAFIA

Leopardi nasce a Recanati (Marche, ma allora Stato della Chiesa) nel 1798, primogenito di 9 fratelli, 5 dei quali sopravvissuti. La sua famiglia è di origine nobile, anche se titolata di recente: essa traeva sostentamento da un precario reddito agrario e dal gioco di destrezza rappresentato dalla richiesta e dall'assegnazione di dote. Il patrimonio comunque era stato dissestato dalle manie collezionistiche e dalla cattiva amministrazione del padre Monaldo (un conte di idee legittimiste e sanfediste). La madre, Adelaide Antici, sembrava vivere con l'unico scopo di restaurare la passata ricchezza. Nella primavera del 1798, quando Napoleone passò per la Marca anconetana e direttamente da Recanati, Monaldo, che era il nobile più in vista del luogo, si rifiutò di vederlo.

La puerizia di Giacomo fu "mozartiana": estro, grazia, destrezza, capacità di memoria e di assimilazione prodigiose. Tuttavia, nel 1810, i genitori improvvisamente decisero, per ragioni rimaste ignote, ch'egli non avrebbe goduto i privilegi del maggiorascato e che invece si doveva favorire la sua carriera ecclesiastica: e così fu tonsurato.

Già a 10 anni, poiché non lo soddisfacevano i due precettori cui l'aveva affidato la famiglia, inizia a studiare da solo nella ricchissima (anche se antiquata) biblioteca paterna (12.000 volumi), che era stata messa insieme comperando all'asta i fondi sequestrati dai francesi a conventi, congregazioni, istituti religiosi. Si applica soprattutto alla filologia greca e latina, impara l'ebraico e le lingue moderne. Con 7 anni (1812-17) di studio "matto e disperatissimo" si rovina la salute in modo irreparabile e diventa un ragazzo prodigio.

In questo periodo compone circa 240 opere: traduzioni, saggi eruditi e filologici, tragedie, inni, commenti, discorsi, ecc. Tutte di scarso valore contenutistico, ma utili per comprendere il retroterra culturale del giovane Leopardi. Egli infatti non aveva studiato solo gli autori antichi, ma anche i testi degli illuministi e materialisti francesi e inglesi del Settecento: Locke, Helvetius, Voltaire, Montesquieu, d'Holbach, Rousseau. Le idee di questi Illuministi vengono combinate con una posizione teorico-politica piuttosto conservatrice, frutto dell'ambiente arretrato in cui il giovane Leopardi viveva. Ad es. egli si compiace della sconfitta di Murat ad opera degli austriaci nel 1815 (Murat era stato messo da Napoleone sul trono di Napoli), esalta l'assolutismo illuminato (cioè attende dal "principe" ciò che ormai i patrioti aspettavano dal popolo), considera l'unificazione nazionale un'utopia (vedi ad es. Orazione agli italiani del 1815), non mette in discussione i valori delle classi privilegiate... Non dimentichiamo ch'egli trascorse tutta la sua vita durante il periodo più oscuro della ventata restauratrice seguita al Congresso di Vienna del 1815. Nel Discorso di un italiano sulla poesia romantica (1817) assume una posizione antiromantica e antispiritualista.

Fra i 17 e i 18 anni matura un improvviso mutamento di gusto letterario: passa dalla astratta erudizione e dalla retorica alla poesia e alla letteratura. Questo mutamento probabilmente dipese dal fatto che la pessima condizione fisica l'aveva portato a una forte crisi esistenziale, ovvero a una riflessione più personale sulla propria vita. Inizia a leggere le opere di Alfieri, Monti, Parini, Foscolo, Goethe, Byron... per sentirsi più vicino alla sensibilità e alle problematiche del Romanticismo. Del quale però se condividerà certi atteggiamenti esistenziali, come l'angoscia, l'oblio, la malinconia, nonché la polemica contro la mitologia greca e l'imitazione pedissequa della tradizione classica, non accetterà mai l'esaltazione eroica, la passionalità, il sentimentalismo, il nesso letteratura/politica, ecc. Nel 1817 inizia a raccogliere note letterarie, filosofiche, personali, nello Zibaldone che, continuato sino al 1832, verrà pubblicato postumo nel 1898.

Si sente particolarmente valorizzato quando un grande letterato come Pietro Giordani apprezza la sua traduzione di una parte dell'Eneide. Anzi, l'amicizia col Giordani, di idee democratico-illuministiche, lo porterà a modificare sensibilmente le sue opinioni politiche conservatrici. Tanto che le canzoni civili All'Italia e A Dante (1818) gli attirano le simpatie degli ambienti carbonari. Ad es. nella canzone Monumento a Dante, egli rimprovera alla Francia le confische dei nostri beni artistici e la perdita delle divisioni italiane durante la campagna di Russia.

Avrebbe voluto nel '19 recarsi a Roma per contattare ambienti culturali più stimolanti di quello di Recanati, ma non avendo ottenuto nella capitale alcun lavoro e non essendo la sua famiglia disposta a stipendiarlo, è costretto a rinunciare. Il desiderio di uscire da Recanati, come da una prigione, è un motivo centrale della sua vita: esprime in una forma concreta quella sua ansia romantica di una realtà diversa da quella in cui con la "ragione illuministica" s'era chiuso. Egli infatti dell'Illuminismo (almeno fino all'incontro col Giordani) non aveva apprezzato le idee politiche democratiche ma solo quelle idee filosofiche orientate verso il materialismo meccanicistico e sensistico.

Eppure la produzione migliore del Leopardi avviene proprio nel periodo di Recanati (in cui passerà 25 dei suoi 39 anni di vita): L'infinito, La sera del dì di festa, Alla Luna, Ultimo canto di Saffo, Ad Angelo Mai... Il motivo sta nel fatto che il Leopardi riesce a coniugare una perfezione stilistica pressoché assoluta con una profonda liricità e con una acuta percezione della vanità delle cose. Frustrato sul piano dei sentimenti e delle relazioni amorose, privo di attività lavorativa, poco attratto dalla vita sociale del suo paese, Leopardi matura idee sempre più pessimiste, decisamente avverse a ogni forma di illusione o di consolazione. Lo testimonia anche il contenuto delle sue Operette morali, composte nel 1824 (pubblicate a Milano nel '27, mentre la censura borbonica sequestrerà una seconda edizione stampata a Napoli nel '36). Il tema dominante delle Operette (scritte in forma dialogica) è l'analisi dei profondi limiti della ragione umana nella lotta contro la natura. Lo stato d'animo con cui vennero concepite -a detta dello stesso Leopardi- era quello ironico/satirico/ribellistico. Esse s'imporranno negli anni Venti del nostro secolo come modello supremo di ogni prosa moderna.

Quando finalmente ottiene di potersi recare a Roma, la sua delusione è totale: Roma gli appare come una grande Recanati, vuota e superficiale. Tuttavia gli si aprono alcune prospettive. Riceve da un editore di Milano l'incarico di curare un'edizione delle opere di Cicerone e un commento al Petrarca. L'assegno mensile gli permette di fare alcuni viaggi a Milano, Bologna, Firenze e Pisa ove incontra alcuni degli intellettuali più in vista dell'epoca: dal Monti al Manzoni. Finché, incapace di un proficuo lavoro a causa delle sue precarie condizioni di salute, abbandona l'impiego e ritorna a Recanati, dove in 16 mesi di cupa disperazione (1828-30) compone liriche famosissime come Passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Esce dalla disperazione accettando la generosa offerta che alcuni intellettuali di Firenze gli fanno per poterlo avere nella loro città.

Nel 1831, in occasione dei moti carbonari, il paese di Recanati lo elegge, all'unanimità, deputato all'Assemblea Nazionale che doveva convocarsi a Bologna, ma la città viene rioccupata dagli austriaci, per cui il Leopardi, che era a Firenze, deve rifiutare l'incarico.

Sempre alla ricerca di un clima adatto al suo fisico malato (asma, idropisia polmonare, neurastenia...), muore a Napoli nel 1837. Le ultime opere sono ironiche e satiriche, contro l'ottimismo del secolo e la sua fede positivista nel progresso, contro gli austriaci che a Napoli avevano soffocato i moti liberali degli anni '20, ma anche contro i liberali che s'illudevano di poter realizzare facilmente l'unificazione nazionale, e contro i pontifici che erano del tutto avversi a tale unificazione. La critica del Leopardi continua ad essere anche contro l'atteggiamento ostile ch'egli ravvisava nella natura e nel destino nei confronti degli uomini (vedi La Ginestra, nella quale esalta i valori della compassione e della solidarietà umana).

A. Schopenhauer lo consacrò come pensatore nei Supplementi al quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione e nel 1858 gli dedicò un percorso di letture. F. Nietzsche considerava Leopardi come il massimo prosatore del secolo, anche se sul piano filosofico scorgeva in lui un rappresentante del "cattivo nichilismo". Da notare che le Università di Bonn e di Berlino offrirono a Leopardi la cattedra di filologia, che egli rifiutò adducendo motivi di salute.

Nel Palazzo Leopardi di Recanati è possibile visitare la Biblioteca, insieme coi manoscritti giovanili del poeta (si conservano gli originali dell'Inno a Nettuno e della Canzone ad Angelo Mai). In un edificio moderno attiguo vi è la sede del Centro Nazionale di Studi Leopardiani che, costituito nel 1937, raccoglie 6.000 volumi.

IDEOLOGIA E POETICA

Per tutta la sua vita egli rimase fedele alle teorie ateo-materialistiche dei filosofi illuministi, con particolare preferenza verso le tendenze meccanicistiche e fatalistiche.

In un primo momento contrappone la natura alla società (sul modello di Rousseau), poiché riteneva che la scienza, portando gli uomini alla dura verità delle cose, distruggesse le illusioni che, anche se destinate a non realizzarsi, sono pur sempre fonte di vita e di movimento. In questo senso il mondo classico, con la sua ingenuità, gli appariva superiore a quello moderno, troppo cinico e spietato per essere vissuto con innocenza.

In seguito però Leopardi critica la stessa natura, che gli appare "matrigna", perché con la sua legge della perenne trasformazione delle cose, non può dare un senso alla vita degli uomini. La natura cioè ha leggi cieche e meccaniche che sovrastano completamente le capacità umane di conoscerle e dominarle.

La natura è "matrigna" anche per un'altra ragione: essa ha instillato nel cuore dell'uomo un desiderio di felicità che è destinato a rimanere inappagato (di qui il sentimento della "noia" quale percezione della nullità delle cose). Le illusioni quindi non servono a niente.

Se dunque anche il Leopardi, come il Foscolo, considera illusori valori come libertà, amore, patria, gloria..., rifiuta categoricamente di costruirci sopra, a differenza del Foscolo, una giustificazione della vita. La filosofia del Leopardi è coscienza dolorosa della tragica condizione umana.

Tuttavia Leopardi esclude come soluzione finale quella del suicidio o dell'oblìo: l'uomo -a suo giudizio- deve combattere questo assurdo destino se vuole sentirsi "umano". Il dolore va vinto con la lotta interiore, con la dignità di sé. Alla concezione pessimista della filosofia bisogna opporre quella propositiva della poesia. Nella filosofia del Leopardi non vi è solo una logica implacabile dell'illusorietà della vita, ma anche un rifiuto istintivo di questa conclusione drammatica della ragione: cioè vi è un'ansia romantica di infinito-assoluto-eterno.

Da notare che Leopardi non ha particolare interesse per le contraddizioni sociali o politiche: l'unica che lo preoccupa e lo angoscia è quella uomo/natura. Lo scarso impegno socio-politico è dipeso in gran parte dalle forti sofferenze personali, le quali non possono essere staccate dalla sua produzione letteraria. La grandezza del Leopardi tuttavia sta nell'aver cercato di dare alle proprie sofferenze un significato di ordine generale, universalmente valido.

Leopardi fra ribellismo e rassegnazione

Paradossalmente c'è più ribellismo nell'ultimo Leopardi, che mai aveva partecipato attivamente alle vicende della politica risorgimentale, di quanto ve ne sia nell'ultimo Foscolo, che pur sin da giovanissimo si era lasciato coinvolgere nell'avventura napoleonica in Italia e nella resistenza anti-austriaca.

Questa differenza di atteggiamento forse può essere spiegata nel modo seguente: 1) una grande delusione politica può anche portare un individuo ad assumere posizioni regressive (è il caso del Foscolo); 2) uno scarso coinvolgimento con la realtà politica traumatizza di meno un individuo dalle delusioni ch'essa può ingenerare (è il caso del Leopardi, oppresso più che altro dalle sue sofferenze psicofisiche e dalle scarse relazioni sociali).

Questo può forse significare che nella posizione regressiva dell'ultimo Foscolo c'è sempre più realismo che in quella ribellistica dell'ultimo Leopardi (ad es. il Foscolo è stato grande anche come critico letterario, mentre il Leopardi dei Paralipomeni è assai poco significativo).

Il paradosso insomma sta in questo, che è molto più illuso il Leopardi, che pur ha sempre negato all'illusione un qualunque valore pedagogico, del Foscolo, che invece vedeva nell'illusione una giustificazione di vita. Sostenere -come fa il Leopardi- che la vita non ha senso, che la lotta politica è fatica sprecata, che la natura è "matrigna" (avendo essa destinato l'uomo all'infelicità eterna e autoconsapevole), e poi pretendere che l'uomo (da solo o associato) continui a combattere contro l'avverso destino, rivendicando una propria irriducibile dignità -significa, in sostanza, non avere il senso della realtà, cioè chiedere l'impossibile.

In definitiva, ciò che il Leopardi non ha assolutamente capito (l'unica eccezione è costituita, almeno in parte, dall'Infinito), è che la contraddizione è un momento essenziale di un processo dialettico che porta all'assoluto. Il limite cioè, o la debolezza o il contrasto, non esclude la perfezione, il cammino verso la perfezione, ma anzi ne è il presupposto.

Per il Leopardi la trasformazione perenne della materia era fonte d'angoscia proprio perché egli non riusciva a vederla dal punto di vista della totalità (cioè dell'obiettivo verso cui è indirizzata). In virtù di tale trasformazione, che è fonte di liberazione, in quanto esiste un orientamento verso uno scopo, gli uomini possono ridimensionare il peso di quelle contraddizioni che la ostacolano.

Leopardi esprimeva il difetto di molti intellettuali privi di realismo, preoccupati solo di anticipare in loro stessi, astrattamente, il sentimento appagato del benessere, la percezione della assoluta felicità, la pienezza dell'esistenza. Tracce di realismo, nella sua filosofia, sono presenti laddove viene suggerito di abbandonare risolutamente le illusioni sulla propria esistenza. Senonché egli ripropone, come alternativa, la logica "buddista" della rassegnazione, quella per cui non solo le illusioni vanno rifiutate ma anche i desideri, le istanze di liberazione. Cosa che, a ben guardare, è quanto di più disumano possa esistere: la logica infatti vuole che se gli uomini fossero già "liberati", le istanze sparirebbero da sole, senza alcun forzato processo intellettualistico di autonegazione.

L'INFINITO

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Canto composto a Recanati nel settembre 1829, nei "sedici mesi di orribile notte", poco prima del Sabato del villaggio.

Qui il poeta afferma chiaramente che il senso della vita sta nella morte, poiché non avendo la vita alcun senso positivo, i sentimenti/desideri/speranze umani sono sempre fonte di illusioni, dalle quali l'uomo deve liberarsi se non vuole diventare ancora più infelice.

La felicità che si ottiene dopo il superamento di un pericolo/dramma/tragedia/dolore è ben poca cosa a confronto con il nonsenso generale della vita; per cui l'uomo cosciente di questo nonsenso assoluto non dovrebbe spaventarsi di fronte ai pericoli/drammi ecc. della vita, ma anzi, dovrebbe attenderli con rassegnazione, come se si trattasse di una liberazione definitiva dal peso della vita.

IL SABATO DEL VILLAGGIO

Scritto in un solo giorno a Recanati il 29 settembre 1829.

Appartiene al gruppo dei "Grandi idilli", cui però il Leopardi diede il nome di Canti (A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia). Sono le cosiddette "liriche del dolore universale" del secondo periodo del Leopardi. Esse entreranno col Risorgimento nella cultura italiana ed europea.

La "donzelletta" ha un valore simbolico per il poeta perché rappresenta il desiderio dei piaceri/soddisfazioni che il futuro può dare. La "vecchierella" invece rappresenta la fine di questi desideri, cioè il loro rimpianto. Il poeta presume di rappresentare il superamento e del desiderio e del rimpianto. Egli cioè è la consapevolezza della vanità assoluta delle cose, per cui il desiderio è da subito considerato come illusione (una sorta di ingenuità giovanile che si paga sempre cara). Ma se il desiderio è negatività, il suo rimpianto non ha senso.

Leopardi non vuole togliere alla gioventù le illusioni (poiché queste fanno parte degli istinti della natura umana); le vuole però togliere agli adulti, invitandoli a guardare le cose con maggior realismo. Ma il realismo che il Leopardi propone non è altro che una forma di rassegnazione: l'unica lotta ch'egli propone è quella contro le illusioni, e non anche quella per realizzare un obiettivo positivo. A suo giudizio il piacere/soddisfazione/benessere avrebbe senso se fosse perfetto/assoluto/eterno: non potendo l'uomo ottenerlo in questi termini, nell'orizzonte storico, è giusto -secondo il Leopardi- che gli si neghi anche il diritto di esistere.

A SILVIA

Canto composto a Pisa nell'aprile 1828.

Si può qui ricordare che i "Grandi idilli", dopo sei anni di silenzio poetico pressoché totale (in quanto il Leopardi s'era dedicato alle Operette morali), rappresentano per così dire il "recupero nostalgico del passato", cioè di quei ricordi della giovinezza perduta. Viene "quasi" riscoperto il valore delle illusioni.

Alcuni biografi del poeta sostengono che Silvia sia Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima nel 1818 di tubercolosi. Tuttavia, nel canto la ragazza simboleggia più che altro la speranza, il mito della giovinezza (con le sue illusioni) "ridente e fuggitiva".

Ciò che il Leopardi mette continuamente in evidenza, rifiutandolo radicalmente, è il nonsenso di un desiderio umano di felicità destinato a rimanere inappagato: come se la natura avesse voluto beffarsi degli uomini. La natura -dice il Leopardi- "non rende quel che promette".

Come Silvia è morta prima di varcare il limite della giovinezza, così la speranza del poeta è caduta prima di realizzarsi. Il 1819 segnò infatti l'inizio del suo travaglio filosofico pessimistico.

IL PASSERO SOLITARIO

Scritto intorno al 1829, pubblicato nella raccolta Canti del 1835.

Il poeta cerca di immedesimarsi con la natura (il passero solitario) ma è consapevole di non poterlo fare, poiché conosce la diversità esistente fra natura umana e natura animale. Sono gli stessi uomini (soprattutto la gioventù) che lo rendono consapevole della diversità.

Per cui il suo sconforto è grande: non può avere la felicità incosciente/istintiva della natura, ma neppure quella cosciente/riflessiva dell'umanità. Perché? Perché la solitudine lo ha estraniato dai rapporti sociali, e in questa estraneazione egli si è convinto che la felicità degli uomini sia del tutto illusoria, pura finzione. L'unica felicità reale -dice il Leopardi- è quella assoluta; gli uomini si accontentano di una felicità relativa/momentanea, ma così non fanno che illudersi, diventando ancora più infelici.

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

Lirica composta nel 1836 a Torre del Greco, un anno prima della morte. Motivo ispiratore: il fiore della ginestra sulle pendici del Vesuvio.

La natura è drammaticamente vista come "matrigna", cioè come elemento la cui negatività è troppo forte per la volontà umana, per cui ogni progresso è vano, illusorio.

Il nemico principale dell'uomo non è - secondo Leopardi - l'uomo stesso, ma appunto la natura, la cui negatività, ancorché inspiegabile, è molto reale, assolutamente superiore a qualunque umana resistenza (il Vesuvio qui ne è simbolo).

Paradossalmente, proprio mentre il poeta continua a sostenere, come sempre ha fatto, il proprio materialismo meccanicistico e ateistico, manifesta nei confronti della natura una concezione di tipo misticheggiante, seppure in maniera negativa, in quanto la natura è "male assoluto". Chi non accetta questa concezione radicalmente pessimistica del significato della natura, viene considerato patetico, illusorio, meschino, infantile.

Essendo stata scritta nel 1836, la lirica non poteva avere di mira il progresso tecnico-scientifico della seconda metà dell'Ottocento; anzi, se avesse avuto di mira soltanto quello propagandato dai circoli reazionari della Restaurazione, che sostenevano retoricamente il Neoclassicismo, proprio per non dover affrontare i problemi sociali del paese (di cui i moti del 1820-21 e 1830-31 si erano fatti carico), probabilmente la lirica (e l'intera filosofia leopardiana che la supporta) non avrebbe avuto quel carattere regressivo che invece manifesta.

A quel tempo la cultura dominante era ancora quella barocca dell'oscurantismo clerico-ispanico, che esibiva un ottimismo forzato, di maniera, pensando di dover durare in eterno e che non poteva non essere vista come anti-razionalista. Nel migliore dei casi era quella pallidamente riformista dei vari cattolici moderati come Rosmini, Gioberti e, se vogliamo, dello stesso Manzoni, che coi suoi riferimenti alla "divina provvidenza" che tutto regge e governa, non dava certo molte speranze di riscatto sociale ai ceti marginali.

Il fatto è purtroppo che Leopardi criticava anche gli ambienti liberali del "Conciliatore", gli ambienti della Carboneria, i moti risorgimentali. Lui diceva di preferire la classicità greco-romana, perché allora non si aveva la pretesa di negare alla natura la sua superiorità sugli uomini, e diceva di preferire il materialismo meccanicistico degli illuministi francesi, ma di questo non amava la fiducia nel progresso sociale. Il materialismo gli stava bene solo nella misura in cui l'essere umano veniva visto come semplice rotellina di un ingranaggio universale, che non si sarebbe minimamente inceppato se quella avesse smesso di funzionare.

Leopardi aveva una concezione così particolare dell'esistenza che il suicidio, se egli non fosse morto a 39 anni, sarebbe stato una inevitabile conseguenza.

Nella lirica egli vorrebbe che non ci fosse alcuna ostentazione di forza o di bellezza, ma solo umiltà, riconoscimento di debolezza. Non ama la propaganda politica di chi vuole opporsi al sistema tardo-feudale ancora in auge in molte zone d'Italia; non perché quel sistema fosse migliore di altri (ché anzi egli lo detesta in quanto troppo clericale), ma proprio perché è illusorio sperare in un vero progresso dell'umanità.

Leopardi è reazionario proprio in quanto attribuisce la sofferenza non al sistema socio-economico, non alla politica dei governanti, non agli interessi delle classi egemoni, ma solo ed esclusivamente a quella natura che definisce astrattamente come "matrigna", la quale impedisce a tutti d'essere felici, anche a quelli che s'illudono di esserlo (e che non si rendono conto che un'eruzione vulcanica potrebbe improvvisamente privarli di ogni bene).

Sicché insomma per lui anche nel caso in cui gli uomini riuscissero ad abbattere il potere, inevitabilmente ne creerebbero un altro peggiore, perché appunto ancora più illusorio del precedente.

Gli uomini anzi dovrebbero unirsi per combattere la "malvagità" della natura, non per combattersi tra loro. Questo l'appello ch'egli rivolge ai suoi lettori, appare - ed è facile accorgersene - quanto meno patetico, non meno illusorio di chi invece pensa d'essere assolutamente superiore alla natura. A che pro infatti combatterla quando si è preventivamente certi della propria sconfitta? Chi si accontenterebbe di una semplice soddisfazione interiore? Forse un aristocratico decadente come lui?

Leopardi aveva una visione delle cose non solo anti-storica ma anche anti-naturalistica, del tutto astratta e in ogni caso troppo dipendente dalla sua condizione personale, minata profondamente nel fisico e negli affetti. Vuol fare con questa lirica della politica, ma non sa compiere alcuna analisi storica, non mostra alcuna consapevolezza delle contraddizioni sociali, aspira a un ingenuo e, questo sì, ottimistico interclassismo.

Il canto della Ginestra vuole essere non solo un testamento spirituale ma anche un manifesto politico, incentrato su un'etica stoica invivibile, troppo pessimistica per essere praticata dalla gente comune. La compassione reciproca, come valore supremo della vita, può solo appartenere a un uomo che prima di tutto deve prendere atto che nell'universo è uno sconfitto. Anche il Verga in realtà, parlando del suo Mezzogiorno, sarà spietato, quasi crudele coi suoi "vinti", ma almeno ne darà una spiegazione convincente, tutta interna a un processo storico sfavorevole ai contadini.

Se l'uomo non è un figlio di dio né un prodotto della natura, se non è neppure figlio di se stesso, che cos'è? Se dio non esiste (e su questo è impossibile dar torto al Leopardi), perché la natura avrebbe condannato l'uomo a vivere una condizione d'inferno? perché accusare lei di una colpa che è solo nostra? Neppure il Pascoli, che pur ebbe dagli uomini la fonte di tutte le sue tragedie, molto più grandi di quelle di Leopardi, volle mai pensare che la natura gli fosse nemica; diceva anzi che gli uomini avrebbero potuto essere "umani" solo se si fossero lasciati fare da lei.

E' tristissimo dire - specie se questa lirica viene messa nelle Antologie scolastiche - che la vita umana non ha alcun senso nell'universo e che nei confronti della sorte di ogni persona domina solo una immensa indifferenza.

Che valori si trasmettono ai giovani quando si fa loro capire che per opporsi a questa indifferenza della natura nei nostri confronti, bisogna comportarsi come la ginestra, che rifiuta il suicidio solo perché essa stessa è indifferente alla propria sorte tragica (quella che le può riservare la lava vulcanica)?

Questa è disperazione, non è solo indifferenza, anzi, sul piano politico, è conformismo, opportunismo: con un popolo così pessimista i rapporti di potere resterebbero infinitamente salvaguardati e gli abusi assicurati. Chi spadroneggia continuerebbe a farlo senza problemi e non si capisce davvero perché dovrebbe sentirsi indotto a lottare insieme al debole contro la natura, quando la morte pone fine a ogni cosa.

Sensibilità di Leopardi

Dario Lodi

Nello Zibaldone, Leopardi confessa se stesso con estrema sincerità. In particolare si sofferma sulla propria capacità di “tenuta” dell’esistenza. Altrove, il grande poeta afferma che la denuncia di cedimenti non si deve alle sue condizioni di salute, notoriamente precarie da sempre, ma a profonde riflessioni, allo scavo in se stesso, che lo hanno portato puntualmente a sconsolazioni problematiche e drammatiche.

Pochi hanno centrato come lui il male di vivere. Pochi sono riusciti a rappresentare con tanto effetto la nostalgia per la vita che se ne va, il mondo che scompare (mentre, è chiaro, a scomparire siamo soltanto noi). Ma in Leopardi non c’è disperazione, c’è dolore, c’è delusione, prontamente riscattate da “colpi d’ala” che rendono preziosi questi sentimenti, che li trasformano e li sublimano.

Scetticamente, il poeta raccomanda di non pensare troppo: ne parla come di un antidoto sicuro contro la depressione. Raccomanda anche di non genuflettersi. Implora di agire, di non stare con le mani in mano a compiangersi, ma di distrarsi con l’azione e nell’azione: e pazienza se poi non si fa granché.

Ma non è questa la parte interessante del pensiero leopardiano. Molto più interessanti sono i sottintesi. Grazie ai quali, appare evidente che Leopardi si riferisce ad un mondo ideale che effettivamente esiste. Un mondo nel quale, per lo meno, l’opinione umana conta, anzi è determinante ed è in sintonia con le leggi della Natura. “La Natura è grande, la ragione è piccola”, ripete il poeta all’infinito. Ma nella frase appare implicita la possibilità della ragione di arrivare a capire la Natura: intanto celebriamola, esaltiamola romanticamente senza smancerie.

Senza darlo a vedere, il poeta sostiene una tesi per cui non siamo ancora in grado di apprezzare interamente la Natura perché la nostra ragione è ancora in fasce, si perde in piccole cose (se non la si usa, è peggio, si cade nella religione, nel fanatismo). Allora agire sì, ma con la speranza e quindi certezza di capire cosa si sta facendo. In fondo, ci crede anche il poeta di Recanati, lo sente possibile e legittimo.


Fonti sulla Ginestra

Fonti su Leopardi


Contributo di Andrea de Lisio - Commento all'Infinito - I paradossi leopardiani

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019