GIACOMO LEOPARDI

LEOPARDI: IL PENSIERO, LA POETICA, LA POESIA

I - II - III

Giacomo Leopardi


IL PENSIERO

1. Il tema centrale della sua meditazione: la ragione della vita, la sua giustificazione, la natura della felicità. Cioè: cos'è la vita, a che serve, dove tende, cos'è la felicità, perché essa manca, o è inferiore a quella voluta?

La sua filosofia non fu mai vero e proprio "sistema", ma un corpo di riflessioni sulla condizione dell'uomo: perciò piuttosto che filosofo Leopardi è stato in passato definito "moralista".

Recentemente, invece, la filosofia leopardiana è stata molto rivalutata, per esempio da Emanuele Severino.

2. Leopardi rifiuta (lettera a De Sinner, 1832) il collegamento tra pessimismo e infelicità personale. Ma questa fu "stimolo conoscitivo", cioè gli rivelò quanto possa la Natura nel determinare la felicità dell'uomo.

3. Il pessimismo leopardiano va inserito nella problematica storico-culturale del suo tempo e in parte con esso spiegata: crisi ideologica dell'illuminismo, atmosfera chiusa e retriva della Restaurazione, accentuazione di questi caratteri a Recanati, soffocamento di ogni slancio vitale e ogni aspirazione alla grandezza, impossibilità di una vita indipendente, libera e creativa (come faceva sperare la società più dinamica, borghese, nata dalle riforme napoleoniche e dalla fiammata rivoluzionaria).

4. Punto di partenza simile al Foscolo: perdita della fede (infelicità personale, influenza del Giordani, identificazione Chiesa / Restaurazione ), accettazione del sensismo (felicità = pienezza e ricchezza di sensazioni), passaggio al materialismo (tutto è materia, non c'è lo spirito, non c'è Dio, "una forza misteriosa governa il mondo e l'uomo").

5. Primo stadio del pessimismo: Leopardi ritiene di essere uno dei pochi infelici in un mondo in cui c'è la felicità, ma fuori da Recanati: cfr. Lettera al Giordani, del 1817.

Secondo stadio del pessimismo: pessimismo "storico". Leopardi, influenzato da Rousseau, ritiene che l'uomo sia stato un tempo felice, perché vicino alla Natura, madre amorosa, e sia vissuto "naturalmente", cioè di sogni, fantasie, illusioni, forti sentimenti, grandi ideali. Gli antichi, perciò, i classici, vicini alla natura, negli antichi tempi, furono "felici" perché ignari dei limiti della condizione umana.

L'uomo moderno, invece, civile e dominato dalla ragione e dal calcolo utilitaristico, ha strappato i veli delle illusioni, ha conosciuto il vero, e ha tolto all'uomo la felicità derivata dall'ignoranza e dalle illusioni antiche. L'infelicità, quindi, è un prodotto della storia.

6. Crisi e sdoppiamento del concetto di Natura. Intorno al '24 matura una riflessione: qual è la natura della felicità? Ricercare un piacere (connesso alle sensazioni) che tende irrimediabilmente all'infinito, che non si appaga mai in una quiete durevole; ma il mondo in cui l'uomo è posto non consente questo definito e "assoluto" appagamento. Dunque: l'uomo ha bisogno della felicità, ma è condannato a non averla mai veramente.

L'infinito che l'uomo cerca, per soddisfare pienamente la sua sete di piacere, è dunque una dimensione che non c'è, è il Nulla: non è lo Spirito hegeliano, il Dio dei credenti, l'Assoluto degli spiritualisti. E', semplicemente, il Vuoto, il Niente: è a questo Nulla che si arriva quando si va oltre i limiti dell'esistenza (cfr. L'Infinito).

Ma chi ha fatto l'uomo così? Chi gli ha messo nell'animo quel desiderio? La Natura. Allora essa non è stata mai madre amorosa, ma sempre perfida matrigna, che ha condannato l'uomo e ogni altra creatura dell'Universo (è il pessimismo cosiddetto cosmico) alla infelicità perpetua. Anche gli antichi infatti (Saffo, Bruto) furono infelici e possono accusare la Natura di questo misfatto. Eppure la Natura resta pur sempre la vita che palpita nelle cose, la bellezza dei campi e del cielo, l'istinto d'amore che riscalda il cuore. Dunque: duplicità del concetto di Natura.

7. Però se l'esistenza è un mistero assurdo, se l'uomo è votato al dolore e alla disperazione, tuttavia non per questo l'uomo deve dimenticare la sua "grandezza", che non consiste, umanisticamente, illuministicamente, storicisticamente, nella capacità di governare la storia, di raggiungere traguardi di benessere e di felicità collettiva sempre più alti, ma consiste nell'accettarsi per quello che si è: piccoli, deboli, fragili, ma pur dotati della coscienza di essere, dotati di una mente che può concepire l'infinito, di un cuore capace delle più grandi avventure sentimentali, di una fantasia che fa sognare sempre, comunque, una vita più bella. Dunque: contrasto tra le conclusioni della ragioni e le insopprimibili esigenze del cuore. Contrasto fortemente romantico.

8. E la poesia ha una funzione determinante in questa resistenza disperata ma mai cessata contro la forza implacabile della Natura.

9. Nel 1830 Leopardi è a Firenze, presso liberali e cattolici. Li frequenta, discute, polemizza con loro: essi credono nel progresso umano, credono che con la politica, la tecnica, l'economia l'uomo possa raggiungere livelli di vita più alti e perciò una felicità più appagante. Leopardi ironizza e replica che non si può dare la felicità alle masse se non la si dà ai singoli: quella è una felicità astratta e perciò inesistente. Non l'economia, non la politica ecc., ma solo la poesia può procurare all'uomo qualche fonte di diletto, attraverso il recupero della condizione infantile, felice perché ignorante del vero.

10. Quindi l'uomo non deve vilmente compensare con false speranze la sua miseria reale, ma affrontare a testa alta il suo destino, su cui incombe la forza cieca e ostile e perfida della Natura. Ma affrontarla significa riconoscere che solo l'amore, la fraternità (vedi Plotino e Porfirio), la solidarietà possono dare all'uomo i mezzi per contrastare l'assalto quotidiano portatogli dalla implacabile Natura.

LA POETICA

1. Il primo documento della poetica leopardiana che si può definire organico e coerente è il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, scritto come replica alle Osservazioni sul Giaurro del Byron, di Ludovico di Breme, uno dei collaboratori del Conciliatore, tra i più vicini al romanticismo tedesco.

2. Per Leopardi il Romanticismo è quello che egli ha potuto conoscere attraverso il Di Breme, almeno nel 1818, attraverso Il Conciliatore e il Berchet.

Ora, da un lato Berchet gli offriva la Leonora (tradotta dal Bürger, cioè un esempio del macabro, dell'orrido, dell'inverosimile nordico e fiabesco) come modello di poesia romantica; dall'altro lato Il Conciliatore affermava che scopo della letteratura e della poesia è far cosa utile a chi la legge, che la poesia deve ispirarsi alla storia, alla realtà, ai tempi moderni, deve scaldare il cuore della nazione; il Di Breme, addirittura, affermava la superiorità dell'età moderna su quella antica perché "la moderna poesia altiera (=superba) se ne va nei campi della rigenerata filosofia (=lo spiritualismo tedesco)". E lui, il Di Breme, indica poi tra i contenuti della nuova poesia: la religione, l'amore, la donna ("ben altrimenti poetica per noi, che nol fu per quei vegetanti bifolchi"), e poi "le usanze, i culti, i climi, i terreni dei nuovi mondi scoperti" e poi "la fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell'industria ecc."

3. Il Leopardi, invece, educato al concetto vichiano di poesia come fantasia, ingenuità, immaginazione, fanciullezza pre-razionale dello spirito, rifiuta subito, nettamente, il romanticismo del Di Breme, del Conciliatore e di Berchet (vale a dire il romanticismo quale in Italia era penetrato e rivissuto), e lo condanna perché esso da un lato sottomette la poesia al vero e all'utile, dall'altro costruisce situazioni drammatiche, patetiche e commoventi servendosi di mezzi esagerati e non spontanei e verosimili (es.: l'orrido della Leonora); situazioni (con tutto quel corredo di streghe e spettri e folletti e gnomi) comunque estranee al nostro gusto di latini, di italiani, nella cui tradizione letteraria e anche popolare c'è un'altra mitologia.

Non tanto distante da Leopardi, anche Manzoni negava che il romanticismo fosse "quel guazzabuglio di streghe e di spettri…".

4. Nel 1818, quindi: la poesia degli antichi (= naturalezza, ingenuità, ignoranza del vero, sterminata fantasia, antropomorfizzazione della natura) è quella perfetta; la poesia dei moderni, quella "romantica", invece, gli ripugna.

Poco dopo (già nel 1819 inizia il mutamento), maturando il suo pensiero (Rousseau e Madame de Staël), egli accetta la distinzione degli Schlegel tra poesia d'immaginazione (gli antichi) e poesia di sentimento (i moderni) [ che per lui diventa corrispondente a quella tra natura (= buona, grande, fonte di felicità) e ragione (= cattiva, piccola, meschina, fonte di verità e quindi di infelicità)].

Si legge, nello Zibaldone, a proposito della "poesia sentimentale": "la sensibilità era negli antichi in potenza, ma non in atto come in noi... lo sviluppo del sentimento e della malinconia venuto soprattutto dal progresso della filosofia)

6. Leopardi riconosce, perciò, che il suo tempo, che i tempi moderni non possono recuperare [Leopardi pare denunciare qui il progressivo e fatale inaridimento spirituale di una società borghese e cittadina.] l'ingenuità degli antichi e che "unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo è la poesia sentimentale (cioè quella dei moderni, la quale non si nutre di favole, immaginazioni e sogni, e fanciullesche e ingenue fantasie, ma di idee, di filosofiche riflessioni, della cognizione (= sentimento) del vero, della condizione drammatica dell'uomo esiliato dall'Assoluto, cui peraltro sempre tende; poesia non fondata sulla felice ignoranza, ma sulla dolorosa consapevolezza del reale). [Per questo si possono leggere, nello Zibaldone, le pagine dei "Tre modi di vedere le cose", ma si debbono anche esaminare le Canzoni civili e le Canzoni del suicidio, ovvero Bruto minore e L'ultimo canto di Saffo].

Circa la necessità della poesia sentimentale, cfr., invece, lo Zibaldone: (1820) "La poesia malinconica e sentimentale un respiro dell'anima. L'oppressione del cuore... non lascia luogo a questo respiro."

7. "Il suo problema, scrive Sapegno, sarà dunque d'ora innanzi, non più di respingere le esigenze della poetica romantica (d'altronde insopprimibili, perché Leopardi vive i suoi tempi moderni e non gli antichi), bensì di accomodarle al suo sentire. Ciò avviene in due modi:

a) adoperando uno stile e un linguaggio che offrano sensazioni vaghe, indefinite, incerte, indistinte: qualità tutte, queste, del mondo poetico degli antichi (secondo Leopardi).

b) escludendo dalla poesia elementi realistici, narrativi, di utilità sociale, di insegnamento politico ecc., e nutrendola invece di elementi autobiografici, lirici, affettivi, memoriali, fondati sull'immediatezza del sentimento.

8. Di qui la poetica della rimembranza e dell'infinito.

Dell'"infinito" perché appunto l'infinito, cioè quello che non ha confini, l'indeterminato, il vago, lo smisurato, il remoto ecc., sono caratteri della poesia; della "rimembranza" perché questi caratteri non si possono avere dal presente (che è sempre "vero", non falsificabile, prosaico, circoscritto) e si possono trovare solo nel ricordo e, in particolare, nella rimembranza della fanciullezza e del fanciullesco fantasticare o temere o gioire ecc.

PERCIO' LA POESIA E' TANTO PIU' AUTENTICA QUANTO MENO IMITA (riproduce cioè il reale) E QUANTO PIU' CANTA (cioè effonde liberamente l'ispirazione del cuore). Perciò le sue poesie Leopardi le chiamerà CANTI.

9. Però, attenzione: anche quando il poeta, tramite il ricordo, recupera la condizione felice dell'adolescenza ("che pensieri soavi, che speranze, che cori..."), non per questo egli può dimenticare il presente, il suo e l'universale dolore; non per questo l'angosciosa "verità" della condizione umana è accantonata; anzi, ritorna e si scontra (ecco il valore drammatico dell'idillio leopardiano) con quel dolce passato, che si è concluso proprio "all'apparir del vero".

Perciò la poesia leopardiana più grande nasce da una miracolosa combinazione di dolce e smemorato fantasticare e di asciutto e severo dolore, una alternanza di felicità momentanea, rubata all'angoscia presente con il ricordo, e di disperata consapevolezza del niente, riscaldata però dalla fiamma remota di speranze e di illusioni non spente mai del tutto.

SVILUPPO DELLA POESIA LEOPARDIANA

1. Un primo tempo della poesia leopardiana è quello che si apre nel 1816 (il poeta ha appena diciotto anni). Due titoli sono già significativi, perché anticipano temi futuri: Le rimembranze e L'appressamento della morte.

I veri e propri CANTI, però, cominciano nel 1818, con due canzoni, cosiddette "civili": All'Italia e Sopra il monumento di Dante.

Le due canzoni sono animate da una evidente volontà di sognare, e di realizzare, almeno attraverso i versi, grandi imprese, nutrite di nobili ideali (= azioni genericamente eroiche, il riscatto della patria). C'è il desiderio di uscire dalla propria solitudine e di slanciarsi verso la speranza di grandi azioni. Leopardi è qui un giovane che dentro forme letterarie classiche (la canzone tradizionale, il linguaggio fortemente letterario) cala una tensione eroica schiettamente preromantica ("l'armi, qua l'armi. Nessun pugna per te? Io solo combatterò, procomberò sol io. Dammi, o ciel, che sia foco agli italici petti il sangue mio.")

Nella canzone All'Italia è poi già evidente il tema della superiorità morale degli antichi, i quali appaiono al giovane poeta generose creature pronte a morire per la patria (è rievocato il sacrificio delle Termopili), al contrario dei moderni, indifferenti al cospetto della decadenza italiana.

2. Altri canti di questo periodo (1819-20), però, già sono privi dello slancio gagliardo delle canzoni civili.

Nella canzone ad Angelo Mai (un cardinale dotto che aveva riscoperto certe opere di Cicerone), ad esempio, Leopardi già canta la propria infelice storia personale, segnata dal progressivo tramonto delle illusioni adolescenziali; e nella sua storia personale vede simboleggiata la storia stessa dell'umanità, decaduta da un eroico passato nel meschino e arido presente.

3. Un'importanza particolarissima hanno, però, in questo primo tempo, le CANZONI DEL SUICIDIO (1821-22).

In esse Leopardi canta le tristi vicende di due famose figure della classicità greca e romana, Saffo e Bruto. Infelici figure di personaggi che furono sconfitti dal destino, delusa la prima nel suo sogno d'amore, il secondo nel suo ideale politico di libertà.

Saffo e Bruto, come è evidente, sono altrettante proiezioni delle delusioni leopardiane, sono creature il cui dolore antico egli sente fraterno. Ma essi sono anche qualcosa di più: con la disperazione che spinge Saffo e Bruto al suicidio tramonta anche, nel Leopardi, il mito della classicità come epoca in cui gli uomini furono naturalmente felici, perché più vicini alla condizione naturale. Anzi! La Natura ha fatto nutrire a Bruto illusioni e ideali tanto alti quanto irrealizzabili, e a Saffo ha dato, con perfida malizia, un corpo sgraziato che accoglieva un animo sensibile e assetato d'amore, dal quale, appunto, la sua bruttezza l'avrebbe sempre tenuta lontano.

Le due canzoni, insieme all'altra (Alla primavera o delle favole antiche), sono davvero l'addio al mito della felicità antica. Anche il mondo antico ha sperimentato, in forme diverse dai moderni - tutti raggelati dalla freddezza della ragione - la sua parte di irrimediabile dolore, al quale nessuna creatura dell'universo può sottrarsi.

3. Dal punto di vista stilistico, tutti questi "canti" tentano di fondere, come s'è detto, forme classicheggianti con sensibilità moderna e romantica. Sebbene, come si sa, l'adesione del Leopardi al romanticismo non sia esplicita e dichiarata, per le ragioni note.

4. Nel biennio 1819-1821 fiorisce anche, però, un piccolo gruppo di liriche brevi, I piccoli idilli, che sono veramente la prima originalissima voce della poesia leopardiana.

In essi Leopardi si allontana decisamente dalla suggestione degli esempi classici, dalla mitologia, dalle forme retoriche e metriche consuete, dai miti della sua cultura. In essi Leopardi si pone esclusivamente all'ascolto del suo cuore, delle voci più intime della sua coscienza infelice; si pone con ansia e con stupore di fronte allo spettacolo della natura vera, quella di Recanati, quella familiare, non quella libresca dei suoi amati autori greci e latini. E' una nuova lirica, nella quale, come egli dice di Petrarca, è il cuore che parla, non è il poeta che parla del cuore: quindi un tentativo, riuscito, di assoluta immediatezza e sincerità espressive, un vero silenzioso accorato colloquio con se stesso.

Si apre, in questo modo, tutta una stagione della lirica moderna, in parte precorsa dal Foscolo, nella quale è l'"io" del poeta il vero centro dell'emozione lirica. Tra questi "piccoli idilli" spiccano L'infinito e La sera del dì di festa.

Questi due componimenti già preludono ai motivi più alti del tempo successivo: i temi dell'infinito e della ricordanza.

5. Un secondo tempo della poesia leopardiana si fa iniziare dopo gli anni delle Operette Morali, scritte quasi tutte tra il 1824 - 25, con qualche aggiunta nel '27 e nel '32.

La "rinascita" della poesia leopardiana, dopo gli anni delle prose meditative e filosofiche, si annuncia, durante il consolante soggiorno pisano, con Il Risorgimento: la dolcezza della vita a Pisa fa "risorgere" nel poeta il bisogno di riscaldare il cuore alle illusioni di un tempo, di tornare a sognare la sua perduta e sempre invocata e mai raggiunta felicità, pur nella piena consapevolezza del disinganno fatale.

E' il tempo degli immortali capolavori: A Silvia, Le ricordanze, Il Canto notturno, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio.

E' anche il tempo della più originale poetica leopardiana: quella della rimembranza e dell'infinito.

Tornano i ricordi, con il loro alone di magia, tornano i volti e le voci e le ansie di un tempo, racchiuse entro i contorni sfumati e "indefiniti" della memoria. Torna il passato rievocato e cantato e pianto alla luce del doloroso presente ormai senza più speranza. Eppure è dolce rievocarlo, è dolce rievocare perfino il dolore che fu.

Questi canti si segnalano per la funzione del paesaggio, che diventa l'interlocutore muto eppur eloquente del poeta; per la presenza della più quotidiana realtà (galline, cacciatori, artigiani... ) tutta però risolta nella dimensione del simbolo, perché ogni creatura cantata porta con sé, apparendo sulla scena, un significato del destino universale; infine questi "GRANDI IDILLI" rompono decisamente con la tradizione metrica, abbandonano la canzone con schema prefissato e si distendono dentro la forma della canzone libera, originale creazione leopardiana anch'essa, nata per adeguare più perfettamente il ritmo sentimentale al ritmo poetico. Per esempio, senza schema precostiuito si alternano i settenari nei momenti di raccoglimento pensoso e gli endecasillabi negli slanci del canto.

6. Un terzo tempo della poesia di Leopardi è quello legato alle esperienze fiorentine, all'amore tempestoso per Fanny Targioni Tozzetti, alla polemica con i liberali cattolici toscani.

Leopardi non ha ancora esaurito la sua vitalità intellettuale e poetica. Il poeta, di fronte alla sconvolgente esperienza dell'amore, e stimolato dal dibattito intellettuale intorno all'idea di progresso, ritrova le sue energie e mentre ribadisce le sue convinzioni sulla condizione umana, mentre irride a quelle che gli sembrano stolte e vili (non magnanime e generose) illusioni di felicità e di benessere; mentre denuncia questo, egli pure dichiara con forza la dignità dell'uomo che ha il coraggio di aprire gli occhi di fronte al vero, che sa accogliere nel suo cuore aspirazioni nobili all'amore e alla fratellanza universali.

Ecco A se stesso, con l'addio alla dolcezza dei ricordi e dei rimpianti, con la nuda e fredda dichiarazione di un pessimismo totale; ma ecco Il pensiero dominante, con l'altissima lode, quasi un inno, al sentimento dell'amore, forza universale che può e deve spingere gli uomini ad una nuova fraternità; ecco La Ginestra o il fiore del deserto, che fa dell'umile pianta il simbolo di una eroica speranza: nel deserto della vita umana c'è ancora posto per una poesia che sappia annunciare un messaggio di fratellanza; c'è ancora la speranza che gli uomini, riconoscendosi deboli, poveri, oppressi e perseguitati da una invincibile e malefica NATURA, sappiano stringersi in un abbraccio di solidarietà, per contrapporre, eroicamente, alla prepotenza cieca della Natura e del Fato, la resistenza alta e nobile dell'amore.

Quel Leopardi che a Napoli languiva per mille malattie trovava ancora, nei versi, la forza di credere che un'umanità nuova potesse nascere: non più felice, perché questo gli appariva impossibile, ma più consapevole del proprio destino e perciò più coraggiosa e generosa, meno cieca e meno vile. Capace di affrontare a testa alta la vera nemica, la NATURA e di soccombere davanti ad essa con dignità.

7. Francesco De Sanctis, a ragione, ebbe a scrivere che se Leopardi, morto nel 1837, fosse vissuto fino al '48, certo i combattenti delle giornate napoletane di quell'anno, "se lo sarebbero trovato al fianco, sulle barricate". De Sanctis aveva intuito quanta forza d'animo e quanta energia morale si sprigionasse ancora da quel poeta che sembrava parlare solo di Nulla e di Morte.

LEOPARDI METAFISICO

fonte: A. Marchese, Humanitas, 1, 1992

1. Leopardi si definisce - non esplicitamente - filosofo metafisico, nello Zibaldone (4138-9), e aggiunge che a costui (cioè al filosofo metafisico) si addice la solitudine contrapponendolo al filosofo di società. Su questo fondamento, il destino di solitudine ("La mia vita... è stata sempre, perpetuamente solitaria..."), egli respinge le sollecitazioni di Viesseux a collaborare all'Antologia.

Dal gruppo toscano lo divide l'ateismo; ma allora, perché si definisce "metafisico"? E' una provocazione. Ed è anche il segno di un nuovo approccio al problema metafisico, dopo il tramonto delle Weltanschauungen illuminista e classicista.

2. Già nel 1820 (Zib., 102-3), nel celebre passo "Ci sono tre modi di vedere le cose..." ) emerge la tesi dell'absence e della solitudine eroica ("Quelli che sentono e vedono dappertutto il vuoto e il nulla...").

3. Leopardi è poeta metafisico perché ha il senso della radicale insufficienza e limitatezza non solo della condizione umana ma di ogni realtà esistente, se rapportata a un'istanza di totalità che l'uomo avverte come bisogno, o se si vuole come problema ma non come risposta. Dopo Leopardi solo Montale si pone un'analoga visuale.

E' altamente significativo il passo (Pensieri, LXVIII) in cui la noia è definita sentimento il più sublime perché conferisce all'uomo la disposizione ad accusare le cose, tutte e sempre, di insufficienza e nullità.

4. Diversamente da Foscolo, che sovrappone alla matrice materialista una serie di "valori", Leopardi demistifica invece ogni sovrastruttura ideologica; il suo materialismo è rigoroso, ma, diversamente dal d'Holbach, è connotato pessimisticamente e non può appagarsi nemmeno con l'utopia. Resta solo l'eroica testimonianza di una negatività assoluta.

5. Per lui infatti l'illusione è solo il recupero memoriale della tensione vitalistica propria della giovinezza. L'illusione è solo parco della fantasia.

6. Hegel aveva identificato lo spirito romantico con il senso della inadeguatezza radicale dell'uomo verso il mondo. Perciò il senso profondo della poesia leopardiana - che è pienamente consonante con la spiritualità romantica - lo si coglie solo collocandolo nel più ampio orizzonte europeo.

7. Merita quindi di essere esplorato il SENTIMENTO DELL'INADEGUATEZZA, che si manifesta già nel raggio domestico e che è errato attribuire a cause politico-storiche, riduttivamente. La radice è etica e psicologica, ed è la percezione netta e sofferta di uno scompenso fra le aspirazioni dell'io e i limiti ineluttabili della realtà (Marchese trova questo sentimento già nei "piccoli idilli").

8. Qual è l'origine?

La contraddittorietà assurda consiste nella frustrazione esistenziale di quei "palpiti" nei quali l'animo raccoglie l'estrema tensione verso un'alterità al quotidiano banale e all'arido vero.

9. Dopo i "grandi idilli" Leopardi non può più tornare ai cari inganni, eppure la tensione eroica continua nell'affermazione, sorprendentemente platonica, di un proprio mito interiore, negato dalla realtà.

In A se stesso crolla il platonismo amoroso e l'io si impone in antitesi radicale affermando, con eroico titanismo, il disprezzo universale.

10. A questa dimensione metafisica della poesia leopardiana si collega il SENTIMENTO DELLA LABILITA', che pervade l'esperienza idillica. Nella Sera del di' di festa troveremo appunto il senso struggente della labilità vertiginosa della vita.

E' dunque il canto tristissimo del sovrano silenzio che incombe sull'umana ventura, e riveste ogni cosa.

Il tema torna nel Passero solitario e poi in A Silvia e nelle Ricordanze.

11. Quasi da contraltare al sentimento della labilità si accampa il senso dell'INFINITO, che è chiamato estasi (Zib., 1430), cioè esaltante esperienza del perdersi della coscienza nell'indefinito: un'estasi terrena. E' un'esigenza spirituale comune al nascente romanticismo, la necessità di ancorare la dispersione fenomenica ad un valore metafisico intrinseco alla coscienza.

Il senso dell'infinito va oltre l'idillio canonico e spazia da La vita solitaria a La sera del di' ecc. Nel Canto notturno, poi, la coscienza dell'inganno rafforza la tensione metafisica verso un'alterità sottratta alla comprensione dell'uomo ("…che vuol dir questa/solitudine immensa, e io, che sono?").

Quasi sopraffatta dall'infinito la creatura si riconosce nella sua radicale impotenza.

La totalità resta però un'esigenza, ma senza una risposta: "veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,/.../e sono immense, in guisa/che un punto a petto lor son terra e mare/.../...al pensier mio/che sembri allora, o prole dell'uomo?" (La ginestra)

12. Qualcuno ha visto in questa totalità estranea l'epifania del nulla che distrugge l'investigazione del mistero. Non è così. Il Leopardi non cancella mai la "nobil natura" che trascende ogni condizionamento materiale nella sua sfida prometeica al destino.

Anzi proprio la ginestra che consola il deserto è la testimonianza dello slancio metafisico leopardiano.

Per Foscolo la natura ancora consolava (un fiore, un albero), per Leopardi la natura annichilisce e l'unico conforto è la riaffermazione della precaria trascendenza etico-intellettuale e l'invito alla fraternità.

13. La componente eroica, però, non è esclusiva dell'ultimo Leopardi. Il suo TITANISMO affiora già con Bruto, con Saffo. Se nei grandi idilli il titanismo è meno esibito, non è meno definitiva la "titanica" accettazione dello "stato mortale".

Nell'ultimo Leopardi si riaccende il fremito contestativo: "Di questa età superba/ ... /che l'util chiede/e inutile la vita la vita/quindi più sempre divenir non vede; /maggior mi sento." (Il pensiero dominante)

14. Però, sempre in questa ultima stagione, Alla sua donna diventa voce della tensione utopico-metafisica del poeta che si costruisce una realtà diversa, surreale, parco beatificante della fantasia

L'amore, la sua fenomenologia, tornano, modernissimamente, in Amore e Morte: la negazione del reale si sublima nella ricerca e nell'accettazione del nulla.

L'amore è primavera e vita, la morte assenza e buio. Nerina accoglie il duplice ritmo dell'apparire e sparire, presenza e assenza, quasi eros e thanatos.

Su questa linea il momento più problematico, vicino al Novecento, è il senso di totale estraneazione dell'io alla vita e al mondo: finita la giovinezza la vita è "abbandonata, oscura" e l'uomo "vede/che a sé l'umana sede,/esso a lei veramente è fatto estraneo."

15. E' uno dei vertici della modernità di Leopardi. L'homo viator è incapace di cogliere il senso della sua presenza nel mondo. Siamo a Camillo Sbarbaro.

Ecco allora il Coro dei morti, vertice del Leopardi metafisico.

Il tema della radicale insufficienza ontologica viene visto in negativo, a partire dall'ottica della morte.

La morte, dopo la rottura antispiritualista, impedisce ogni recupero memoriale dell'esistenza; la vita resta misteriosa al morto, un enigma inquietante. Questo mette a nudo la totale derelizione dell'umana ventura, che nemmeno nella morte può trovare senso.

Si conclude così l'itinerario difficile, al traguardo opposto di quello manzoniano di Ermengarda: "però ch'esser beato/nega ai mortali e nega ai morti il fato."


Leopardi e il destino: cercando il mio vero partner

di Divo Barsotti

Leopardi, Alla sua donna

In Leopardi il dolore

non nasce solo dalla fine

delle illusioni.

Il dolore ha una radice

religiosa: l'uomo

cerca disperatamente

un suo partner che non può

che essere fuori dal mondo mutevole.

“S'avessi io l'ale”

Leopardi si rivela con una semplicità e candore ammirabile nell'epistolario (lett. 824, 931). Nelle sue lettere, specialmente al padre, si spoglia di ogni veste letteraria e lascia parlare il suo cuore con un linguaggio di pura umiltà. Sono le lettere che più direttamente ci dicono la sua esperienza di pena. Quale è stato il rapporto tra il suo dolore e la visione che egli ebbe della infelicità universale? La sua poesia altissima è insieme testimonianza della sua pena e visione della universale infelicità: dalla poesia è così possibile riconoscere l'intimo rapporto tra l'esperienza e il pensiero. I Canti rimangono espressione di questa profonda unità. Nell'epistolario il poeta ci apre candidamente il suo cuore, nelle Operette morali, se non crea un vero sistema filosofico, ci vuol dare sicuramente il suo pensiero.

E' indubbio che le Operette morali sono l'espressione più elaborata del pensiero del poeta. Come iniziano con un testo religioso, così avrebbero dovuto avere il loro compimento con un testo che ha tutta la solennità di un testo ispirato. Queste due operette possono rivelarci il nucleo centrale del pensiero leopardiano riguardo al tema fondamentale del dolore. All'inizio è la Storia del genere umano, alla fine Il canto del gallo silvestre. Sembra che il pensiero del poeta sia ondeggiante, tuttavia vi è una coerenza profonda in questo suo ondeggiamento medesimo. Vi è una fedeltà nel dubbio, ma anche una fedeltà nel proclama re quella che è la sua verità.

E la verità fondamentale rimane, nel Leopardi, il dolore: “Arcano è tutto fuor che il nostro dolor” egli afferma nell'Ultimo canto di Saffo. Perché il dolore invece della gioia? Il poeta ne dà la colpa all'età vile nella quale si è trovato a vivere. È in opposizione al costume del tempo che egli dunque è infelice. Non si dà per lui ora altra scelta: “O codardi o infelici” (cfr. Per le nozze di Paolina). Nella sua prima giovinezza animata da “eroici furori” aveva preteso di risvegliare da solo un popolo schiavo; lo aveva esaltato la volontà dell'impresa, la visione di una gloria che avrebbe potuto conseguire, ma non ci volle molto perché egli stesso si risvegliasse dal suo sogno di gloria. Cadeva la prima illusione: doveva vivere in un mondo meschino, e vi sarebbe rimasto e sentito sempre un estraneo: sarebbe stato suo destino la solitudine.

Del resto, anche se avesse conseguito la gloria, cos'era la gloria? Della potenza, della grandezza di Roma che rimaneva? Solo il canto di un carrettiere rompeva ora il silenzio della notte. Tutto, tutto sarebbe affondato nel nulla: così l'eroismo, oltre che impossibile, era inutile. Cercò allora il poeta rifugio nella natura. Crede che del male non fosse causa il grigiore dell'età, ma il progresso, la civiltà stessa che distaccava l'uomo dalla natura. L'integrazione dell'uomo con la natura era stato l'ideale della Grecia più antica: in quella età remota, l'uomo viveva una comunione col tutto, viveva in compagnia degli dei. Poteva l'uomo rinnovare questa alleanza? Leopardi sentì viva la nostalgia della Grecia, ma, a differenza del suo grande fratello, Hoelderlin, egli sentì irrevocabile il passato. Visse allora la natura ed era amica dell'uomo, ma il ricordo di questa età remota faceva ora più grande l'infelicità dell'uomo che si sentiva straniero.

Cadevano una dopo l'altra tutte le illusioni che potevano far bella e desiderabile la vita, e il poeta si sentiva sempre più solo. Rimaneva una illusione e, come aveva scritto nella Storia del genere umano, questa illusione lo accompagnerà per tutta la vita, sorgente di ineffabili vagheggiamenti e di desolati risvegli: l'amore. Tutta la poesia del Leopardi canta l'amore. È vero che gli è sempre negato, ma in lui continuamente risorge. Neppure si è accorta di lui la cugina, la prima che lo fece palpitare di amore. Poi, la sua deformità fisica gli fece comprendere che, sì, egli poteva amare, ma non sarebbe stato mai amato. Così nell'Ultimo canto di Saffo, ma più vivo e personale è lo schianto ne La sera del dì di festa: “Non io, non già ch'io speri, / al pensier ti ricorro. Intanto io chieggio / quanto a viver mi resta, e qui per terra / mi getto e grido e fremo”.

A distanza di anni, nella dolcezza del ricordo riaffiorano le immagini di Silvia, di Nerina, fanciulle segretamente amate. La loro morte segna per lui la fine della giovinezza e, con questa, la fine della speranza. Non rimane al poeta che la morte. Eppure no, l'amore sembra immortale. Risorge la vita. Nell'opera del poeta solitario, unico è l'inno che canta l'amore. È l'amore che trionfa di ogni pena, l'amore che solleva a felicità “nuova” il poeta. Da tanta esaltazione, è proprio l'amore che, respinto e schernito, precipita il poeta nella più cupa e nera disperazione.

Anche questa illusione l'abbandona. Quasi epigrafe sepolcrale nella sua brevità, conclude la parabola la poesia A se stesso. Il dolore non nasce solo dalla fine delle illusioni, più fonda è la sua radice. Non è frutto e conseguenza di qualcosa, dal momento che è all'origine di tutto: la vita stessa è dolore. Invano cerca il poeta un altro contenuto, una ragione alla vita. Dalla infelicità sua egli passa al riconoscimento di una infelicità universale, al dolore del mondo, al dolore di ogni essere creato. Ogni uomo tende a divenire la coscienza del mondo.

Leopardi diviene il poeta del dolore universale. L'alta poesia delle Operette morali più direttamente si libera da ogni riferimento alla sua persona, tranne nell'ultima, che fu composta dopo vari anni; vuole essere una lucida e fredda accusa alla presunzione umana, alla viltà dell'uomo che rifiuta di vedere; ed è visione grandiosa e apocalittica della comune infelicità. Questa rimane per il poeta la verità unica e suprema. Se non vogliamo soltanto scorrere i suoi scritti, ma cercar di capire quale sia la posizione del poeta rispetto al suo tempo e che cosa può dirci oggi, se più profondamente vogliamo determinare il valore oggettivo del suo pensiero e come egli è potuto giungere a questa visione, s'impone che ci arrestiamo senza richiamare anche solo indirettamente i testi, - che sono innumerevoli, e appartengono ai Canti, alle Operette morali, allo Zibaldone. Il poeta ha voluto prima di tutto conciliare il suo pensiero col cristianesimo.

A differenza di Hoelderlin, egli ben presto si è reso conto della crisi profonda della Grecia. Se Leopardi è discepolo dei greci, egli tuttavia è stato soprattutto segnato dalla crisi che la grecità conobbe nell'età dei sofisti. Egli non poteva credere agli dei dell'Olimpo; ogni sua integrazione con la natura gli era impossibile: egli sentiva di non essere soltanto un elemento della natura. Poteva sentire, sì, ed era questo uno dei motivi più forti della sua angoscia, che la natura aveva ogni potere sull'uomo. Sentiva che il tempo e la vastità sconfinata dell'universo, annullavano l'uomo, eppure l'uomo trascendeva, nel suo spirito, la natura. Il pensiero dei tragici greci gli aveva insegnato che l'uomo, nonostante la sua grandezza, non può nulla contro il fato e la natura, è senza difese contro un potere cieco che lo distrugge. Il cristianesimo nulla aveva cambiato, ma aveva aiutato l'uomo a superare l'angoscia col rinnovare le illusioni delle antiche età.

Finché l'uomo ha creduto, non ha conosciuto l'angoscia: il cristianesimo ha saputo dare all'umanità, con una nuova fede, una nuova giovinezza. Ma la fede cristiana non aveva maggiore fondamento, secondo il poeta, delle favole antiche. Come gli antichi avevano creduto che scendevano fra i mortali gli dei dell'Olimpo (Alla primavera...), così ora. Al mito pagano si sostituiva il mito cristiano. La pena era, nella morte degli dei, il vuoto della creazione, il non-senso di tutto, il riconoscimento che “unico obietto” dell'esistenza era la morte. Il poeta vive la tragicità di una vita che gli appare vuota ed assurda. Più del dolore diveniva insopportabile la noia.

Anche il dolore poteva essere un diversivo, ma dalla noia nulla poteva liberarlo. Ai vertici di ogni sua poesia, perché espressione suprema dell'umana infelicità, il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia, chiedeva inutilmente un perché della vita, delle cose, del mondo. L'amore sembrava dare un fine alla vita, dal momento che per l'amore a questa infelice scena del mondo sorride all'uomo in vista di paradiso” (La vita solitaria). E' certo significativo che il poeta, quando canta l'amore, usi inevitabilmente un linguaggio religioso, e inno divenga la sua poesia.

Addirittura forse non si ritrova nella letteratura italiana un linguaggio così alto, così ispirato, così religioso come il canto Alla sua donna e Il pensiero dominante. E, certo, l'amore era la suprema illusione, e forse avrebbe potuto accompagnare l'uomo fino alla morte, ma l'uomo cercava disperatamente un suo partner senza trovarlo. Il partner dell'uomo non poteva essere che fuori di un mondo mutevole, di un mondo nel quale l'uomo si sentiva prigioniero: “Forse s'avess'io l'ale... ”. Il dolore del poeta aveva un fondamento metafisico. L'uomo è straniero nel mondo: desideri immensi lo agitano, lo ispirano pensieri sublimi, ma tutto nella vita è disinganno. La vita non offriva nulla di quanto aveva promesso e l'uomo aveva potuto sperare.

Si può pensare che se avesse conosciuto l'amore, il poeta avrebbe vinto la pena? Di fatto egli stesso aveva detto che questa illusione può accompagnare l'uomo fino alla morte, ma rimaneva illusione. Nonostante tutto, egli chiedeva e voleva di più dalla vita, pretendeva che la vita avesse un senso, una ragione. Non credeva al progresso, non credeva che l'uomo avrebbe potuto vincere mai la natura nella sua bruta necessità, nel suo potere di distruzione. Nonostante che invocasse la morte, perché intollerabile gli era la vita, non poteva accettare che la morte fosse “l'unico obietto” della vita. Il desiderio di morire non era in lui che rifiuto della vita, perché la vita era peggiore della morte.

Chi avrebbe potuto dare un senso alla vita? Se nulla, nessuno vi è al di là della natura-e la natura è dio- allora l'uomo diviene incomprensibile. Come la natura può aver prodotto lo spirito? L'uomo di fatto si sente, ed è, della natura più grande. Come la natura, che è necessità senza ragione, avrebbe potuto dare una ragione alla vita? Unico, in un mondo cieco e muto, l'uomo soltanto conosce: può avere una ragione a quanto egli fa, non può dare un senso a se stesso. Ma se la natura non è dio, allora una divinità malvagia, intesa soltanto al male, “a comune danno impera”. L'uomo diviene rivolta disperata e impotente. Potrebbe lo sforzo dell'uomo, inteso a debellare questo potere occulto, avere successo? Nella Ginestra il poeta si fa banditore ed apostolo di questo proposito.

L'unione degli uomini postulata da lui ha qualche accento cristiano, il fine di questa unione sembra invece satanico. In questo proposito il poeta è l'uomo di un tempo che aveva già conosciuto la ribellione prometeica. Tuttavia Leopardi non è così ingenuo da credere che anche la coalizione di tutti possa cangiare la sorte degli uomini. Al fondo di tutto vi è in lui una immensa pietà per gli uomini condannati irrimediabilmente al dolore, alla infelicità. Nel Canto del gallo silvestre il poeta contempla l'immancabile fine dell'universo e dice che prima che sia svelata la ragione del tutto, l'universo medesimo si dissolverà, ritornerà nel nulla. Rimane, e rimarrà sempre, il mistero. L'uomo sarà solo sino alla fine.

Alle sue domande nessuno risponderà. Al contrario di integrarsi come parte di un tutto in una natura amica, il poeta si sentirà sempre più un estraneo e la natura indifferente e ostile. Sempre più si allontanerà dagli uomini, frivoli e vuoti. Arido diverrà il suo cuore; il suo linguaggio, amaro. Dirà a se stesso: “Non val cosa nessuna / moti tuoi”. Egli ha conosciuto qualcosa di più terribile del dolore. Vi è nell'esperienza del poeta la testimonianza di quanto paventava Nietzsche per gli uomini quando si accorgeranno che Dio per loro è morto.

Senza Dio l'uomo vive già l'infelicità del dannato, una infelicità senza lenimento. Certo, non è stato pacifico nel poeta il rifiuto della fede cristiana, potrà persino affermare al padre di non essere stato mai irreligioso, e sempre risorgente sarà in lui il dubbio della vita futura; tuttavia l'incapacità di affidarsi alla fede è veramente all'origine della sua infelicità. Si ha quasi l'impressione che la sua bestemmia volesse provocare Dio a uscire dal silenzio. Dio e nessun altro poteva infatti essere il vero partner dell'uomo. Leopardi anticipa il pensiero di alcuni celebri filosofi contemporanei; il suo pensiero che nasce da un'esperienza profonda di pena è ben altrimenti vivo.

Il poeta meglio assai di quei filosofi ci insegna l'origine religiosa del dolore. La donna gli avrebbe forse dato una momentanea ebbrezza, ma non avrebbe saputo rispondere alla domanda più fonda del suo spirito, e nello spirito era la sorgente della sua infelicità. Il cammino del pastore nella notte fu il cammino del poeta. L'uomo fatto per Iddio in Dio solo può trovare riposo. La tragica esperienza del poeta è una riprova della verità delle parole di Agostino. Come in Dio è la beatitudine dell'uomo così nell'assenza di Dio è la sua infelicità.

Supplemento a "Il Sabato" n. 21

Andrea de Lisio a.delisio@aliseo.it direttore@altromolise.it


Scheda su Leopardi - Commento all'Infinito - I paradossi leopardiani

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Aggiornamento: 10-02-2019