Eugenio Montale
Parte prima
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"L'argomento della mia poesia (...) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia". (E. Montale in "Confessioni di scrittori (Intervista con se stessi)" Coerentemente, la poesia di Eugenio Montale (1896-1981) si muove sempre entro questo ambito, con alti e bassi consolatori, con fughe disperate in avanti, attraverso una breccia, come una fantasia concretizzata, possibile, in qualche modo realizzata (miracolo umano?) e con ripiegamenti dignitosi, mai amari, piuttosto stoici. Lo stoicismo è un dato caratteristico del fare montaliano. Il poeta genovese dichiarava urbi et orbi che non aveva alcuna fede e che il mondo era solo una delusione: c’era una frattura evidente fra realtà esterna e umanità. E’ vero, Montale si concentrava su se stesso, ma non faceva certo del solipsismo: la sua è una testimonianza della propria coscienza umanizzata. Semmai cercava di rendere questa coscienza esplicita: ecco la sua missione. Si tratta di una umanizzazione soprattutto moderna. Montale va a rappresentare l’uomo che è uscito dalle esperienze materiali della rivoluzione industriale e da quelle scientifiche, capaci di rivoluzionare la visione del mondo. Di quale rivoluzione si parla? Si parla soprattutto della rivoluzione interpretativa delle cose, con tanto di sicurezza virtuale (una virtualità del tutto agguerrita) sulla loro manipolazione diretta. Viene a mancare il coperchio religioso che, bene o male, teneva a bada le inquietudini di una umanità meno attrezzata e quindi più fragile. La mancanza non è psicologicamente cosa da poco. Per quanto il problema relativo venga emarginato, e si ritiene superato, esso si ripresenta nell’intimo dell’uomo in quanto l’uomo stesso non è ancora in grado di sostituirlo (non lo è tuttora) in maniera veramente rilevante e convincente. Raggiunto il progresso materiale, ora si tratta di agguantare anche quello esistenziale che persino il Positivismo, nei suoi meandri, predicava. Nel frattempo c’è da colmare consapevolmente un vuoto che la crisi religiosa ha prodotto. Sono personaggi come Montale a fornire, direttamente, o indirettamente (nel secondo caso in modo più incisivo), gli strumenti ideali per l’operazione. Gli strumenti indiretti montaliani sono anche frutto di una sorta di compiacimento intellettuale per la scoperta di una tenuta al dolore causato dalla constatazione della solitudine. L’uomo è ora solo nel mondo. Andare in Chiesa è come sacrificare la propria razionalità per una illusione. E’ come nascondersi a se stessi. Lenisce il mal di vivere dal di fuori. La tenuta al dolore, per il mal di vivere interiore, consente esplorazioni coraggiose sin nella profondità dell’essere umano e permette osservazioni minute delle emozioni e dei sentimenti che rendono questa profondità viva e palpitante oltre ogni immaginazione. C’è poi la questione del controllo che si estende anche all’incontrollabile. Come domare l’ineffabile divino Il cosiddetto ineffabile divino viene domato nel senso che non viene considerato, che non viene considerata possibile la sua esistenza seppure con rammarico. Ma è un rammarico che nasconde al suo interno una certezza di superamento della quale si ha comunque qualche timore: come se gli effetti di quel superamento non potessero divenire una soluzione ideale. Allora, la condizione umana subisce una sorta di sconfessione della sua importanza – manca l’esaltazione divina che la sostiene – e questa sconfessione viene vissuta come un patimento da resistenza e difesa inutile della personalità umana che aspira all’assoluto senza avere le risorse per ottenerlo. Non è che Montale sia sicurissimo di questa mancanza: egli spera, e nel contempo insinua, di essere in errore per eccesso di remore nei confronti di un riconoscimento psicologico, quasi radicato, di superiorità del mondo esterno. Ora che non c’è più la Chiesa a garantire che l’uomo ne fa comunque parte, ecco che avviene uno scoramento difficile da gestire. Chiaramente il poeta genovese sa di poterlo gestire, seppure a prezzo di una propria decadenza sostanziale: la ragione mette le cose sin troppo a posto. L’uomo è inchiodato a svolgere un ruolo secondario nel mondo, e forse non ha neppure quello. La seconda ipotesi, cavalcata ininterrottamente da Montale, è una civetteria di stampo fortemente intellettuale. Cioè, l’intelletto si permette di formulare ipotesi a proprio sfavore per dimostrare a se stesso di essere un intelletto eccellente, degno in definitiva, di occuparsi anche di cose straordinarie. La autoriduzione a nulla ha, come altra faccia, l’autopromozione a tutto. Resisto e soffro perché il mondo non mi ascolta, ovvero perché non riesco ad interessarlo di me pur tentandole tutte, ma prima o poi ci riuscirò: intanto getto i semi. Montale i semi buoni li getta eccome attraverso allusioni di spessore, allusioni che sanno creare suggestioni adeguate alla logica di affrancamento dalle vecchie catene senza ricorrere a nuove catene. Tutto deve avere un carattere riconoscibile, uno spirito, come dire concreto. Per quanto Montale sia pessimista, la sua tensione è invece verso un realismo rappresentabile decorosamente e responsabilmente: basta con le pur attraenti sirene sentimentali perché, così come sono tradizionalmente, risultano imbambolanti. La poesia di Montale fa riflettere più che provocare amarezza o sconforto. Negatività da superare Le depressioni sono da interpretare come difficoltà mentali da affrontare in presenza di una possibile constatazione negativa. Essa è in realtà un ostacolo da superare. Il poeta non lo afferma esplicitamente in quanto il tema richiede una articolazione complessa e il ricorso ad un processo concettuale piuttosto ardito e per nulla agevole: esso mette alla prova la sensibilità e la razionalità e tenta l’avvio di un nuovo schema di pensiero dove nulla deve essere vago. Montale è fra coloro che avviano seriamente il meccanismo vitale moderno che prevede la promozione dell’essere umano ad uomo a tutti gli effetti. La fiducia che tutto ciò avvenga è sommessa per amore della complessità della figura umana. Per chi scrive, davvero convincente è la prima raccolta di poesie di Montale ad opera di Piero Gobetti editore. Ci si riferisce a “Ossi di seppia”: qui la novità montaliana è fresca e vigorosa. Le altre raccolte, che non sono molte (“Le occasioni”, “La bufera e altro”, “Satura” e poco di più, oltre a servizi giornalistici e critiche musicali – lui che avrebbe voluto cantare – e vari altri interventi) sono pezzi di approfondimento dell’ispirazione originaria, non senza qualche compiacimento accademico e retorico e qualche malinconia a volte un po’ ostentata. Il poeta tesaurizza l’impeto giovanile, con approfondimenti e indugi ricamati, e lo fa dall’alto di un riconoscimento della propria elevazione a vate da parte del sistema. E’ un’elevazione sicuramente meritata, anche se va ricordato che è il vigore dialettico a meritare attenzione molto più delle sentenze. Montale vecchio è portato più alle seconda che al primo. D’altra parte, la sua sensibilità giovanile è un vero e proprio unicum, cioè è un fenomeno eccezionale su cui è comprensibile adagiarsi. Da notare, tuttavia, alcune composizioni dedicate ad una delle maggiori passioni della vita del poeta, le donne, spesso angelicate perché probabilmente viste come l’unica autentica “arma” per garantire all’uomo l’immortalità attraverso la procreazione: un miracolo che Montale vive in maniera quasi fanciullesca, così come vive in maniera quasi fanciullesca la sua relazione di turno (da non vedere come carnale), in particolare quella con la sua “Mosca” (così chiamata per lo spessore delle lenti da vista che portava) che mancò molto prima di lui e che dilacerò il suo animo (cosa che il poeta non fa pesare: stupenda la trasmissione pudica del suo dolore). Due sono le poesie che resteranno per sempre scolpite nella storia e che hanno fornito materiale preziosissimo per questo piccolo articolo. Montale aveva poco più di vent’anni ed era autodidatta. Eccole: Meriggiare pallido e assorto Meriggiare pallido e
assorto Nelle crepe del suolo o su
la veccia Osservare tra frondi il
palpitare E andando nel sole che
abbaglia Non chiederci la parola che squadri da ogni lato Non chiederci la parola che
squadri da ogni lato Parte seconda Montale vero e Montale inventato Sui rapporti con la noncredenza, Eugenio Montale (1896-1981) fu sempre esplicito, dichiarando, appunto, di non credere in nessuna religione. La cosa la dava per scontata, potendo egli vantare un umanesimo robusto e circostanziato, provato, cioè, da un orgoglio intellettuale basato su una profonda stima nel pensiero e nella sensazione più profonde dell’uomo. Ben conosciuti il suo scetticismo e il suo cinismo, che non si caratterizzavano, certamente, da un’alzata di spalle nei confronti del problema religioso. La sua era una inquietudine esistenziale di carattere abissale. Più precisamente, Montale era un agnostico, ovvero era indifferente di fronte al trascendentale istituzionalizzato, di cui, infatti, non comprendeva la necessità. Eppure alcuni vogliono che verso la fine della sua vita, pensasse ad una conversione. C’è chi dice che sul letto di morte, il grande poeta si convertì davvero. Fosse autentica la conversione, dovremmo dire che la ragione di Montale aveva perso forza fisica. Ma prove non ce ne sono. Altri, e in particolare la sua amica poetessa Annalisa Cima (splendida donna, di quarantacinque anni più giovane di lui, e sua ultima musa ispiratrice: Montale era molto sensibile al fascino delle belle donne) sostenuta da Cesare Cavalleri (critico cattolico), affermano che, per quanto riguarda la conversione, essa ci fu. A prova di ciò, i due sbandierano le poesie di “Diario postumo” e affermano che fra le stesse ce ne sono alcune palesemente non scettiche. Le poesie, ispirate da Annalisa Cima, poi beneficiaria dei relativi effetti culturali e commerciali del libro, erano in origine sessantasei, erano raggruppate in buste di diversa consistenza che dovevano essere aperte con certo intervallo di tempo una dall’altra: durante tale operazione ne spuntarono altre, sino a diventare ottantaquattro. Il “Diario postumo” fu dunque pubblicato con questo numero di poesie nel 1996, centenario della nascita di Montale, da Mondadori. Critici di notevole valore, Dante Isella e Giovanni Raboni (a sua volta poeta) contestarono l’operazione, insinuando manipolazioni opportunistiche a detrimento dell’arte montaliana e del pensiero di Montale (Maria Corti, altra grande critica letteraria, fu invece a favore del tutto). Ecco due poesie della raccolta fra quelle indicate come prova del ravvedimento religioso da parte del grande poeta: TEMPO DI DISTRUZIONE Se fu
follia a guidare la mano ARMONIA Ordine del mondo quale fu E’ una composizione ben diversa, concettualmente, da quelle del Montale che conosciamo ed apprezziamo tutti. Ricordiamone due delle più note, per par condicio: MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO Meriggiare
pallido e assorto SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO Spesso il male di vivere ho incontrato Queste due poesie evidenziano una disperazione palpabile dell’uomo nei confronti dell’esistenza. Il vivere diventa pesante senza un riferimento superiore. Ma questo riferimento superiore, non può essere una credulità, non può essere una speranza la cui gestione è demandata ad una vaghezza. La spiritualità custodita dalla Chiesa è una riduzione delle possibilità della spiritualità stessa. Ovviamente il rifiuto ecclesiastico apre dei problemi anche drammatici. Non è semplice disfarsi di una istituzione millenaria perché, all’atto pratico, non si sa come sostituirla. La questione, dunque, si allarga: l’uomo ha bisogno di un punto d’appoggio. Per qualche tempo, dopo l’Illuminismo (comunque in parte condizionato dal Deismo), questo punto d’appoggio era stato individuato nella scienza. Poi l’uomo, onestamente, ha ammesso i limiti di questa pur importantissima disciplina. Allora si è ritrovato nudo e solo. Montale esprime magistralmente questa solitudine, non la tratta come un’occasione speculativa dall’alto di un’intelligenza matura. Mature non sono né l’intelligenza né la sensibilità se hanno ancora bisogno di riferimenti esterni, se hanno ancora necessità di rassicurazioni paternalistiche. Il poeta, specialmente nel suo libro “Ossi di seppia”, mostra la sua debolezza sostanziale di uomo, ma mostra anche l’orgoglio di conoscerla questa debolezza e la fierezza di esporsi ad essa, meditando, con senso vittorioso, su come conviverci. Il laico per eccellenza accetta tutto del mondo. Accetta non certo con vocazione di martire, con atteggiamento passivo, ma con intelligenza proiettata verso il futuro. Con la consapevolezza dell’impegno conoscitivo diretto delle cose, di se stesso, dell’universo. La vita, quindi, alla ricerca di un contatto costruttivo con l’esistenza del tutto, non è sprecata. Montale è all’inizio della ricerca: è un precursore affidabile. Come avrebbe potuto tradire se stesso, cercando riparo in una illusione, peraltro datata, inerte, scoperta, ragionevolmente, inaffidabile? Persino la spiritualità era per Montale una sorta di autoinganno. Meglio, infine, per lui un sano nichilismo. Sano perché vissuto e combattuto con una speranza fatta di logica (una logica non arida, intendiamoci). Parte terza Le imprese di Eugenio Montale Il primo Eugenio Montale (1896-1981), quello di “Ossi di seppia”, è sicuramente uno dei maggiori poeti di sempre. Il classicismo di cui la sua poesia è impregnata, risulta perfettamente funzionale ai concetti espressi. Sono, questi concetti, osservazioni profonde su stati d’animo particolari, in parte naturali, in parte sollecitati da una sensibilità notevole, quasi disperata di non trovare alcun approdo affidabile per la sua soddisfazione, per il suo compimento. L’asprezza del verso è una reazione personale alla difficoltà dell’esprimere vita che abbia un senso nel tempo e nelle cose. A Montale giovane pare sfuggire l’occasione di affermare la propria personalità, di lasciare un proprio segno. E’ un segno che il poeta vuole invece lasciare a tutti i costi, spinto in questa direzione proprio dal linguaggio classico prescelto in quanto linguaggio formalmente e sostanzialmente riconosciuto come l’unico in grado di sfidare, con qualche successo, la realtà, il mondo. Montale lo mescola ad una specie di ermetismo (spezzettamento dei concetti, valore della parola in sé) che è poi un simbolismo riveduto e corretto dalla buona accademia italiana. Dopo anni di silenzio – Montale era un convinto antifascista e non poté mettersi troppo in mostra – il poeta genovese si ripresentò alla vigilia della Seconda guerra mondiale con “Le occasioni”, una raccolta dedicata ad una donna ebrea ad un anno circa dalla promulgazione delle leggi razziali italiane e subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Polonia. Questa raccolta appare una sorta di omaggio alla figura umana in genere e a quella femminile in particolare: questa volta sono riflessioni che vorrebbero essere precise e che quindi si allontanano dalla preziosa aleatorietà delle composizioni precedenti. Accogliendo pensieri e sentimenti “ordinari”, Montale va a soffocare la grandiosità della sua fantasia, va ad impedire ad essa di spaziare oltre gli orizzonti terreni. La differenza con le poesie di “Ossi di seppia” è abissale. E lo sarà ancora di più con le due raccolte successive, “La bufera e altro” e “Satura”. Quest’ultima raccolta comprende le poesie di “Xenia” dedicate alla sua Drusilla Tanzi (“Mosca” per via delle spesse lenti che la donna portava: il titolo Xenia si riferisce ai doni che presso i Greci venivano portati dall’ospite). Le poesie in questione furono unite alle composizioni di “Satura” nel 1971 così da formare un volume di una certa consistenza. Ma ovviamente la poesia non ha bisogno di consistenza numerica quanto di qualità singola. Basta una composizione originale e sincera, ben fatta, per dare importanza ad un’intera opera. Che l’ultimo Montale sia riuscito in tutto questo, sorge più di un dubbio. Gli è che il poeta genovese, con l’ottenimento di riconoscimenti prestigiosi, passò ad avvantaggiare la componente formalmente aristocratica della sua opera, sposando decisamente il classicismo e sottoponendo la freschezza dell’espressione ai gioghi estetici della composizione, senza più riuscire ad avere quella immediatezza poetica che l’aveva contraddistinto. Il fenomeno si manifesta ancora di più nel suo “Diario postumo” dedicato ad una giovane poetessa, Annalisa Cima, dove le poesie, molto simili concettualmente fra loro, soffrono di una certa rigidità e si spengono in trovate linguistiche al di sotto delle potenzialità del poeta (secondo alcuni, fra cui i critici Dante Isella e Giovanni Raboni, quest’ultimo poeta a sua volta, ci sarebbero delle manipolazioni esterne nella raccolta). Appaiono poesie di circostanza, tirate fuori a bella posta per onorare un avvenimento, per esaltare un’impressione sanguigna, per avere le attenzioni di una bella donna. Montale un monumento di se stesso? Pare così, l’ultimo Montale: probabilmente una rivalsa, magari inconscia, nei confronti di un tardivo riconoscimento della sua abilità. Forse, va aggiunto, un’intensità come la sua originale era impossibile da mantenere per un comune mortale. |
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