LUIGI PIRANDELLO, IL CHIODO

LUIGI PIRANDELLO, IL CHIODO

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LUIGI PIRANDELLO

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Scritta da Pirandello nel 1936, poco prima della improvvisa morte per polmonite, la novella Il chiodo ha la trama ridotta al minimo, con pochissimi avvenimenti e tutta l'attenzione si concentra sull'interiorità dei personaggi. La novella prende spunto da un fatto di cronaca: l'omicidio compiuto da un ragazzo di Harlem, un quartiere di New York prevalentemente abitato da afroamericani. Non viene detto però che lui fosse nero, né che lo fossero gli altri protagonisti, anzi la vittima ha i capelli rossi.

Questa non ha l'apparenza di una novella come le altre ma del canto d'un cigno stanco di vivere; sembra infatti una sorta di testamento spirituale e non solo della propria concezione di vita ma anche della propria poetica, poiché qui il lirismo si pone ad alti livelli. L'autore vuol fare i conti con se stesso, lasciando anzitutto perdere le riflessioni sull'umorismo, quelle che, in forma letteraria e drammaturgica, lo avevano portato al successo mondiale.

In questa novella allucinata non c'è nulla che faccia ridere o sorridere, non c'è ironia, ma solo amarezza, sconcerto, cui però si cerca in qualche modo di porre resistenza, come sempre è stato nello stile dell'autore. Con la differenza che qui non si reagisce mettendo le cose sul ridicolo, esaltando i paradossi e le assurdità. Qui si vanno a cercare le motivazioni dell'esistere nell'umanità, nella propria interiorità etica, che qui resta, come altrove nella sua produzione, ambigua, contraddittoria.

La novella commuove, fa riflettere, lancia una freccia contro l'insensatezza della vita, ma poi quella torna indietro e va a colpire dei nervi scoperti, quelli della coscienza, che vibrano... E' questo il Pirandello migliore, quello più tormentato, non adatto al grande pubblico.

* * *

Nell'esordio il ragazzo, che sino alla fine resterà senza nome, come volesse nascondersi, sta già confessando l'inspiegabile delitto. Aveva semplicemente raccolto per strada un grosso chiodo arrugginito. Sembrava un gesto come altri, non voleva farci nulla. Pura curiosità. Ma, ripensando poi a quello ch'era accaduto, il ragazzo, "fissato negli occhi vitrei il terrore della cosa incomprensibile e inesplicabile", s'era convinto che in quel gesto non ci fosse stata "casualità" ma "causalità". L'aveva raccolto "apposta", proprio perché, subito dopo, svoltando la strada, aveva incontrato due ragazzine che si malmenavano, di cui una sarebbe stata la sua vittima. Come se lui fosse stato una sorta di giustiziere mandato dal destino. Burattini nelle mani del fato: ecco cosa in quel momento pensava Pirandello nei panni di quel ragazzo di Harlem.

Quella di quattordici anni stava picchiando quella di otto, e lui, per dividerle, aveva ficcato nella testa della più piccola il chiodo arrugginito raccolto poco prima, uccidendola sul colpo. Aveva compiuto una cosa orrenda proprio nel momento in cui voleva fare del bene. Il destino aveva capovolto inspiegabilmente le sue intenzioni.

Pirandello qui cerca di ridurre al minimo le possibili obiezioni che il lettore può fare a questa concezione fatalistica degli avvenimenti. Non spiega la dinamica precisa dei fatti, né si sofferma sulle motivazioni dell'agire. Prende le cose alla maniera fenomenologica, così come sono, e si preoccupa soltanto di trasfigurarle psicologicamente, in maniera da renderle irriconoscibili, come solo un grande artista può fare. Non ci dice neppure che in un quartiere violento come quello, l'omicidio non era poi così infrequente. Anzi, vuol farci credere che se anche quello era un quartiere malfamato, l'omicidio (pur preterintenzionale) era stato, per quel ragazzo, una cosa particolarmente angosciosa e sconvolgente.

Pirandello non vuole cercare giustificazioni o attenuanti nel sociale. Il ragazzo non sa neppure spiegarsi perché ha ucciso la più piccola e non la più grande, che pur stava dalla parte del torto. Non conosceva nessuna delle due. Era intervenuto da paciere e aveva finito per fare il boia e per giunta di una innocente. Ecco perché una cosa così assurda l'attribuisce a un destino maledetto, che voleva morti la piccola fisicamente, e lui spiritualmente, nella sua inconsolabile disperazione.

Di fronte al destino le ragioni degli uomini, sia quelle che lo condannano, senza mezzi termini, sia quelle che si sforzano di trovare delle scusanti, gli appaiono inutili, limitative, tutte vere e tutte false. L'unica cosa che davvero lo tormenta e che "si tien nascosta nel più profondo del suo cuore", è la "disperata pietà" per quella bambina, Betty, l'unica ad avere un'identità riconoscibile, sul cui corpo nessuno però era venuto a piangere. Lui non vuol mostrare i propri sentimenti, meno che mai a chi non potrebbe capirlo, ritenendolo un segno di debolezza, perché così, evidentemente, gli avevano insegnato, specie in quel quartiere, dove la sopravvivenza darwiniana era la prima regola.

Chi rappresentava Betty per Pirandello? Se dicessimo l'oggetto di un torto immeritato, rischieremmo di dire una banalità. Uno non arriva a scrivere una novella su un chiodo, alla fine della sua vita, dopo averne già scritte quindici volumi, se quel chiodo non rappresenta qualcosa di fortemente evocativo. Betty doveva avergli ricordato qualcosa di più e di più tragico, tanto da farlo assomigliare ai grandi tragici greci, Eschilo, Sofocle, Euripide. Quella bambina era una sorta di Ifigenia, sacrificata sull'altare del successo, di cui però, una volta raggiunto, s'era avvertita l'assoluta vanità, la totale inutilità.

Il ragazzo prende consapevolezza di sé dopo essersi reso conto che i valori in cui aveva creduto (quelli borghesi dell'autoaffermazione) non valevano niente. Betty è tutto ciò che Pirandello aveva sacrificato per poter diventare qualcuno e di cui ora si pentiva.

Nella novella i sensi di colpa, i rimorsi vengono sublimati nel misticismo, in maniera confusa, surreale. Lui rivede Betty nel sogno, in quella villa di campagna ove andava a passare le vacanze estive. Ma non era un ragazzo povero di Harlem? Evidentemente no, oppure aveva fatto fortuna. Pirandello descrive un sogno, alla maniera freudiana, ove strani elementi, collocati in uno sfondo rurale, si sovrappongono, in un intrico che solo l'autore può decifrare e forse nemmeno lui.

Betty è in questo grande giardino, vuol giocare con lui, ma ne ha anche paura. Gli presenta la cuginetta, "grassa e brutta", che lui non può soffrire, e lei ne approfitta per scappare. Ma anche lui fugge, da se stesso, perché in quella casa sarà Betty a prendere il suo posto. Chi è dunque Betty per Pirandello? Una figlia erede? Una figlia di sangue o di arte? Che rapporti aveva con questa figlia? Sta forse egli pensando a Lietta, che nel 1921 aveva sposato un cileno, trasferendosi nel paese di lui? Quella Lietta che aveva tentato il suicidio nel 1915, nei cui confronti Pirandello veniva accusato dalla moglie Antonietta, già internata in manicomio, di avere rapporti incestuosi? O forse Pirandello stava pensando al suo tormentato rapporto d'amore con l'attrice Marta Abba, scoppiato nel 1925, quando lui aveva 58 anni e lei 25? Non portava forse anche lei i capelli rossi? Non fu forse a causa di questa relazione che i rapporti coi figli si fecero molto tesi?

Noi sappiamo solo che Lietta fu ripudiata per le esose pretese dotali del genero cileno. In una lettera indirizzata a Marta ebbe modo di dire parole pesantissime sui figli: "Io non ho avuto altro da loro che amarezze senza fine, e ancora non mi lasciano in pace".

Nel sogno di questa novella il ragazzo dà la vita per Betty e non potrà più rivederla. Ma il finale è diverso: "Non l'hanno incriminato. Dichiarato libero, il ragazzo non ha dato segno di nulla", né di epilessia, né di malvagità, come dicevano gli esperti. "E' sicuro che lui morrà di pena per Betty [proprio perché non potrà mai più vederla]. Ma forse non morrà. Passeranno gli anni. E forse da grande penserà qualche volta a Betty".

Insomma, caro lettore, cosa vuoi sapere di me? Ti dico tutto e il contrario di tutto proprio per impedirti di trovare il bandolo della matassa, e quand'anche tu riuscissi a trovarlo, tienlo per te, perché ognuno ha la sua storia e gli altri non possono capirla.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019