Le contraddizioni del “Socialismo reale” in Unione Sovietica (pdf-zip)

di Cristina Carpinelli

Ricercatrice del Cespi (Centro Studi Problemi Internazionali) di Milano

 

L’interpretazione dell’ineguaglianza

Per anni, aveva affermato T. Zaslavskaja, era stato propagandato l’avvento nel socialismo sviluppato dell’abbondanza dei beni materiali e culturali, e della realizzazione del principio “da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro”. Tuttavia, non erano stati garantiti a tutti i gruppi di popolazione i mezzi necessari (livelli di reddito e d’istruzione adeguati; professioni qualificate, pari accesso a beni e servizi materiali e culturali, ecc.) per raggiungere quegli obiettivi. Alcuni gruppi avevano reagito alla propria “incapacità” con la passività, l’assenteismo sul posto di lavoro, l’alcoolismo, la criminalità e, talvolta, con il distacco dagli stessi fini e valori del socialismo. Altri, ancora, avevano sviluppato la c.d. “seconda economia” (nel 1985, secondo i dati delle “Izvestija”, erano coinvolti circa 20 milioni di persone), che era un modo per procacciarsi beni e servizi altrimenti introvabili sul mercato ufficiale.

Un luogo comune che va immediatamente sfatato è che, in Unione Sovietica, tutti i gruppi di popolazione possedevano i mezzi per acquistare beni di consumo e servizi che la produzione statale non era in grado di offrire, o che assicurava a livelli quali-quantitativi assai scadenti. Se ciò fosse stato vero, sarebbe stato sufficiente intensificare la produzione della sfera c.d. “improduttiva” dei beni di consumo, modificare la normativa relativa alla produttività del lavoro e risolvere le carenze croniche della rete commerciale distributiva. Ma il fenomeno in questione, che colpiva per le sue straordinarie dimensioni, non poteva essere considerato solo dal punto di vista della carenza di beni e servizi. Questo approccio partiva, infatti, dal presupposto di un raggiunto benessere medio di vita della popolazione totale tale per cui non esistendo più, in Urss, sostanziali ineguaglianze tra i vari gruppi sociali, sarebbe bastata una politica economica volta a dare priorità ad alcuni settori produttivi piuttosto che ad altri. Il fenomeno era evidentemente più complesso. Intanto, le opportunità di vita di gran parte dei cittadini erano insufficienti rispetto alle nuove aspettative sociali (per altro sostenute ed incentivate dal sistema sovietico). Avere un certo tipo di alloggio, un certo livello di vita culturale ed anche alcuni generi di beni durevoli non era ritenuto un comportamento antisocialista. Ma per una parte consistente della popolazione questi obiettivi erano ancora irraggiungibili. Molte donne, che vivevano in campagna, lavoravano per arrotondare il salario del coniuge, operaio di un sovchoz; molti pensionati lavoravano per sopperire alla bassa pensione, molti altri, ancora, svolgevano il doppio, triplo lavoro per guadagnare di più ed acquistare beni e servizi altrimenti inaccessibili (es: i giovani operai non qualificati dell’industria statale).

Dietro la facciata della politica ugualitaria nel campo delle retribuzioni (uravnilovka), vi erano innumerevoli indicatori a sostegno dell’aumento delle differenze di reddito reale e delle diversità del tenore di vita, le cui cause erano diverse e che affondavano in parte le loro radici nella persistente divisione sociale del lavoro, nella politica clientelare e corrotta della distribuzione dei “privilegi”, nell’autoperpetuazione della classe intellettuale e di potere, nelle differenze culturali e territoriali (fra città e campagna), nell’accesso disuguale agli istituti d’istruzione, e così via (con ciò non si vuole comunque negare che dalla fine degli anni ‘50 fino ai primi anni ’70 la politica dei salari fu caratterizzata da ripetuti aumenti dei livelli minimi, da una riduzione del rapporto tra paghe massime e minime, e da un livello sostanzialmente stabile delle retribuzioni dei lavoratori che percepivano i compensi più elevati). Il sociologo Il’inskij aveva denunciato la posizione di privilegio di quei giovani, i cui genitori avevano incarichi di prestigio: “É anche chiaro che la possibilità che alcuni giovani hanno di ottenere fondi addizionali e vantaggi sociali, sfruttando la carriera dei loro genitori, solleva sentimenti di protesta sociale e deteriora l’atmosfera morale e psicologica fra la gioventù e la società nel suo complesso”1. A. Vološin, un lettore della rivista “Kommunist”, aveva inviato nel 1987 alla redazione una lettera molto significativa riguardo al persistere di alcune forme d’ingiustizia sociale. Egli scriveva: “La vita ha dimostrato che pagare in maniera differenziata sulla base del contenuto e della natura del lavoro, è possibile solo quando siano garantite a tutti uguali possibilità nell’accesso all’istruzione e alla professione. Questa logica richiede di creare dapprima le condizioni oggettive e, solo dopo, passare alla distribuzione basata sul principio della remunerazione proporzionata al risultato del lavoro. Oggi noi possiamo dire che la base fondamentale di ciò è stata gettata, sebbene, osserviamo che ancora in diverse regioni del paese e in diversi insediamenti sia di tipo urbano che rurale, le opportunità di sviluppo materiale e spirituale delle persone non sono uguali. Il lavoro da fare in questa direzione è ancora molto”2.

Sulla divisione sociale del lavoro, molti erano stati i contributi degli scienziati sociali negli anni della perestrojka. Il punto di partenza di questi contributi, che avevano più o meno lo stesso approccio interpretativo, consisteva nella notazione che nella struttura sociale della società sovietica, accanto alle differenze riconducibili alle diverse forme di proprietà socialista, acquistavano importanza essenziale le differenze socio-occupazionali fondate sulle peculiarità della divisione socio-economica del lavoro. La “qualità” del lavoro diventava la radice fondamentale della differenziazione sociale. Essa era concepita come un fattore che variava lungo un “continuum” manuale/mentale con differenti gradazioni, anche a seconda della complessità del lavoro e della misura in cui esso richiedeva capacità d’iniziativa di tipo manageriale o l’esecuzione di compiti prefissati. I contributi individuali allo sviluppo economico e culturale della società sovietica erano diversi, ed erano sempre meno condizionati dal rapporto delle persone rispetto alle forme canoniche di proprietà.

Il meccanismo sovietico dell’economia non permetteva ancora una suddivisione ugualitaria o una rotazione delle varie mansioni tra i lavoratori. Era necessario fissare per gli individui - e spesso per lunghi periodi di tempo - specifiche mansioni lavorative di diversa importanza per la società. Ecco, dunque, che la divisione del lavoro tra funzioni intellettuali e manuali, complesse e ordinarie, direzionali e subalterne, si traduceva nella suddivisione della società in differenti gruppi economico-sociali, che conservavano incarichi e responsabilità pressoché inalterati durante tutto l’arco della propria vita lavorativa, e che contribuiva in modo diseguale alla crescita economica e culturale della società. L’arretratezza del meccanismo della produzione comportava un numero limitato di posizioni di lavoro tali da richiedere l’utilizzo di elevate capacità intellettuali e manuali.

Le ineguaglianze retributive non derivavano principalmente dai diversi livelli dell’impegno individuale nel lavoro, dell’impegno ideologico, e neppure dei talenti naturali dei singoli. Non erano, cioè, semplicemente lo specchio dei differenti meriti. Esse erano il portato di una struttura sociale, le cui caratteristiche principali erano determinate in larga misura dalla struttura dei processi produttivi. La società riproduceva l’ineguaglianza sociale ed economica del capitalismo, in quanto la necessità pressante di una crescita economica ininterrotta richiedeva il permanere di una divisione sociale del lavoro. Questo era uno degli aspetti dell’immaturità del socialismo sviluppato di tipo sovietico degli anni ’70 e ’80. La differenza, in confronto con il sistema capitalistico, era che le ineguaglianze (almeno quelle di carattere economico) erano stabilite mediante decisioni prese a livello politico. Qualunque fosse stata la valutazione dal punto di vista della società dei diversi contributi portati dai vari gruppi socio-occupazionali, la struttura effettiva del ventaglio dei redditi era frutto delle decisioni delle autorità politiche e statali. Come avveniva, ad opera delle autorità, la traduzione (in termini di redditi differenziati) dei relativi “contributi” allo sviluppo economico dati, per esempio, dagli agricoltori delle aziende collettive, dai quadri dell’industria o dai lavoratori delle imprese di beni d’investimento o beni di consumo? Non era forse vero che la valutazione di tali ”contributi” rispecchiava le priorità economiche stabilite da quegli stessi enti che fissavano i livelli di reddito? E in base a quali criteri i capi di tali enti, nella loro veste di specialisti del “management sociale” misuravano il proprio contributo (e quindi i propri livelli di reddito)? Le polarità fondamentali, nell’ambito della struttura sociale, tra quanti controllavano e consumavano il “surplus” economico prodotto dalla società e quanti lo generavano rimanevano celate.

Per Jakovlev il socialismo sviluppato di tipo sovietico non aveva soppresso la divisione tra lavoro “astratto” e lavoro “concreto”. Era stato, però, introdotto nella coscienza e nella pratica il seguente postulato: “l’assenza della proprietà privata e persino semplicemente il piano statale fanno si’ che ogni lavoro sia direttamente sociale e indispensabile”. Ma questo dogma aveva legittimato il lavoro utile e dannoso, il lavoro impeccabile e abborracciato, il lavoro necessario e superfluo. É evidente che dietro a quel dogma operava in realtà l’incapacità del sistema politico ed economico di costruire un regime del lavoro ottimale, dovuta al degrado materiale e morale della posizione che aveva assunto il lavoro nelle particolari condizioni sovietiche di arretratezza tecnologico-scientifica. Nel contempo, il lavoro era stato diviso in lavoro produttivo nella sfera materiale e in lavoro improduttivo nelle altre sfere. Di qui il principio residuale applicato agli investimenti nelle infrastrutture sociali, la tecnocrazia, la sottovalutazione del fattore umano. Di qui, inoltre, l’umiliazione dello status sociale del sapere e dell’autentica professionalità.

Nel suo saggio “Zanjatost’: deficit ili izbytok?”, il sociologo Vladimir Kostakov aveva sostenuto che l’assenza di un regime ottimale del lavoro dipendeva sostanzialmente da una situazione di arretratezza economica e tecnico-scientifica del paese e di scarso sviluppo delle sue forze produttive. Tale situazione aveva condotto alla creazione artificiale di posti di lavoro, che erano evidentemente superflui. Ecco perché il principio fondamentale del socialismo “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo il suo lavoro”, non trovava applicazione: “Molti lavoratori in eccedenza sono impiegati nell’economia, a causa dell’operazione irregolare delle imprese. Per operazione irregolare s’intende che molte imprese industriali ed edili devono mantenere una riserva di manodopera da utilizzare allo scopo di raggiungere pienamente gli obiettivi prefissati dal piano, una riserva che non sarebbe necessaria se la produzione ed il sistema del supporto tecnico e materiale fossero ben organizzati. I lavoratori superflui esistono anche nel settore dell’agricoltura per la presenza del lavoro stagionale. Devono essere create le condizioni per una combinazione razionale del lavoro agricolo e di altri tipi di lavoro. Mantenere nell’economia un esercito di lavoratori superflui significa avere una bassa qualità della produzione. Il numero crescente di lavoratori in eccedenza nell’economia è sostanzialmente il motivo della bassa produttività del lavoro”3.

Kostakov sosteneva, inoltre, che era sempre stato divulgato il principio del “pieno impiego” nel socialismo: nella società socialista il mezzo fondamentale di sostentamento dell’individuo era il lavoro. Dunque, era necessario garantire a tutti un’occupazione. Ma un conto, precisava l’autore, era sostenere il “pieno impiego”, altro era, invece, praticare l’impiego “diffuso” (od “esteso”). Kostakov concludeva che la politica del posto di lavoro “a tutti i costi” era ideologicamente difesa con il principio del “pieno impiego” nel socialismo. Tuttavia, tale politica nascondeva, in realtà, l’impossibilità d’impiegare in modo razionale ed efficace la forza lavoro e, di conseguenza, la necessità di mantenere ancora un numero elevato di posti di lavoro a bassi livelli di capacità intellettuale e manuale.

Quanto è stato sinora detto testimonia della disuguaglianza economica e sociale in Urss, che non era tuttavia soltanto il portato dell’economia sommersa o del ladrocinio di burocrati e funzionari corrotti, ma era anche il prodotto dello stesso meccanismo imperfetto del sistema economico sovietico e dell’organizzazione politica e sociale della società. L’economia ombra non procurava a una fetta di popolazione solo beni e servizi irreperibili sul mercato ufficiale ma forniva, seppure in modo illegale, i mezzi necessari per sostenere un certo tenore di vita, misurato beninteso non solo in termini di benessere materiale, ma anche in termini di qualità della vita, di cui già godevano alcuni gruppi privilegiati di popolazione senza dover ricorrere al mercato nero. Lo sviluppo notevole dell’economia sommersa aveva, a sua volta, innescato ulteriori processi di forte discriminazione economica e sociale. Chi accedeva al mercato nero poteva guadagnare così bene da procurarsi beni e servizi “privati” a prezzi esorbitanti. Si era creata una sorta di “concorrenza” tra beni e servizi pubblici e beni e servizi disponibili sul mercato nero, con un divario di prezzo tale per cui gli strati più poveri della popolazione (la maggior parte dei cittadini sovietici) si dovevano accontentare di quel poco e di bassa qualità che offriva la produzione statale, e quelli che si erano arricchiti con il mercato nero potevano accedere all’acquisto di beni e servizi privati. I ceti tradizionalmente ricchi e privilegiati della popolazione potevano reperire gli stessi beni e servizi in speciali magazzini e agenzie statali (il cui accesso era limitato ad alcune categorie di lavoratori: ministeriali, giornalisti, politici). Potremmo paradossalmente dire che come esisteva una “prima” ed una “seconda” economia, così pure esisteva una “prima” disuguaglianza economica e sociale (connessa alla “prima” economia) ed una “seconda” disuguaglianza (connessa alla “seconda” economia), con la nota che quest’ultima era già l’effetto della “prima” disuguaglianza.

Per gli economisti Rakitskij e Šochin, uno dei compiti del socialismo sviluppato doveva essere quello del graduale avvicinamento dei redditi reali delle classi, degli strati e dei gruppi sociali. Ciò avrebbe consentito la “materializzazione” della giustizia sociale. Per ottenere un’equa distribuzione della ricchezza nel socialismo era però necessario soddisfare almeno tre condizioni: 1) la distribuzione doveva essere compiuta solo tra famiglie che lavoravano; 2) l’accostamento dei livelli dei redditi reali delle famiglie che appartenevano ai diversi gruppi, strati e classi sociali doveva essere costante; 3) ad ogni famiglia doveva essere garantita la crescita ininterrotta del reddito reale per la regolare partecipazione dei suoi membri, idonei al lavoro, alla produzione sociale. Un altro compito che si poneva alla società socialista sviluppata era quello dello sviluppo materiale e spirituale dell’uomo tramite il “lavoro”. Il lavoro non doveva essere solo la fonte principale di sostentamento dell’individuo, ma anche un forte stimolo per la sua crescita culturale e sociale. Per la concretizza±ione di questo obiettivo era necessaria la giusta corrispondenza dei “mezzi” e dei “fini”, vale a dire il poter disporre di mezzi (leciti) da usare per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, che richiedeva, a sua volta, la creazione di condizioni di pari opportunità nell’ambito del lavoro per tutti i gruppi socio-occupazionali. Ciò avrebbe consentito l’attuazione della piena giustizia sociale: “Il principio della giustizia sociale, nel campo del lavoro, non è altro che la misura storico-concreta della corrispondenza dei mezzi con i fini”4.

Gli economisti Rakitskij e Šochin individuavano, infine, l’origine dell’ineguaglianza, nel socialismo di tipo sovietico, attraverso l’analisi di due tipologie di contraddizioni basilari specifiche della società socialista (cioè non ereditate, ma sorte con essa). La prima tipologia comprendeva tutte quelle contraddizioni che si addensavano nel problema del diseguale andamento dello sviluppo della produzione economica e sociale da un lato, e del soddisfacimento della domanda popolare di consumo dall’altro (era il tema permanente della mancanza di armonia tra razionalità in se’ delle forze produttive, crescita dei bisogni materiali e spirituali, contenuti del lavoro, distribuzione del reddito, ecc.). La seconda tipologia raccoglieva le contraddizioni che venivano definite “temporanee” e riassumibili nel dislivello esistente tra le gigantesche potenzialità del sistema socialista sovietico e il livello del loro reale utilizzo. Pur negando il carattere strutturale della contraddizione (cioè il suo implicare i rapporti di produzione e le leggi intrinseche del sistema), l’applicazione di questo schema all’interpretazione della disuguaglianza in Urss e, in particolare, il tentativo di trovare delle cause non “congiunturali” ai meccanismi profondi e lontani della disuguaglianza economica e sociale, aprivano una fase di più esplicita autoanalisi critica, fuori dalla solita ossessione apologetica di far sempre quadrare i conti tra realtà e canoni.

Ma certamente colui che aveva spinto le sue analisi delle contraddizioni oltre ogni limite “pensabile” (nemmeno Z.A. Stepanjan, il pioniere della questione delle contraddizioni nel socialismo, si era mai spinto così oltre nella sua analisi) era Butenko, il quale riteneva che il socialismo, nonostante la sua rivoluzione dei rapporti di produzione e di potere, non fosse affatto “immune” dal rischio storico di una crisi sistemica. All’origine dell’ineguaglianza economica e sociale vi era la contraddizione fondamentale del socialismo sovietico, che era data dallo sviluppo progressivo delle forze produttive ed il sistema reale dei rapporti di produzione (la particolare correlazione delle varie forme di proprietà socialista; il meccanismo del sistema economico concreto incluse tutte le sue forme di ripartizione, di scambio e di consumo; i metodi della pianificazione, della gestione e dell’incentivazione al lavoro, etc.). Lo sviluppo delle forze produttive richiedeva un radicale miglioramento del sistema dei rapporti di produzione e dell’insieme dei rapporti sociali. La necessità di perfezionare l’organizzazione politica della società ed il suo sistema economico partiva dal carattere dinamico dei bisogni e degli interessi della popolazione, dall’aumento del livello d’istruzione, cultura e coscienza politica di quest’ultima, ed anche dal cambiamento della situazione nazionale ed estera. I rapporti di produzione costituivano ormai un “freno” all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. La produzione economica sociale non era in grado di soddisfare i bisogni, e ciò determinava la collisione tra l’interesse individuale e quello sociale. La crescita lenta della produzione, della scienza e della tecnologia era la causa prima del permanere, nella società sovietica, di forme di lavoro “primitive”, che accentuavano la contraddizione tra i livelli d’istruzione raggiunti e le nuove possibilità ed aspirazioni dei lavoratori, e certe forme “arcaiche” di lavoro.

Inoltre, l’origine della discrepanza tra forze produttive e rapporti di produzione andava pure ricercata nella comprensione “volgare” dell’interazione, o dialettica, delle forze produttive e dei rapporti di produzione, secondo cui le forze produttive si sarebbero automaticamente evolute con il graduale perfezionamento dei rapporti di produzione. I filosofi e gli economisti si erano convinti che, nel passaggio dal capitalismo al comunismo, i rapporti di produzione avrebbero dovuto subire cambiamenti qualitativi progressivi: la proprietà capitalistica privata si sarebbe trasformata in proprietà dello Stato e la piccola proprietà privata dei contadini in proprietà collettiva. Con il consolidarsi del socialismo, e quindi del raggiungimento di un livello di sviluppo sufficientemente elevato delle forze produttive, sarebbe avvenuta la fusione delle due forme di proprietà socialista in una sola: la proprietà comunista. Questo approccio schematico e meccanicistico si era rivelato nel tempo sbagliato. Esso considerava la statalizzazione e la cooperazione dei mezzi di produzione forme sufficienti a creare nuovi rapporti di produzione tali da trovarsi già ad un livello di sviluppo superiore rispetto a quello delle forze produttive. Tali filosofi ed economisti si sarebbero poi richiamati alla nota tesi di Marx, secondo cui “i rapporti di produzione non possono oltrepassare di molto il livello di sviluppo delle forze produttive”.

La base teorica errata di questa interpretazione stava nell’avere confuso la socializzazione reale dei mezzi di produzione con la sua socializzazione giuridica formale, anche se quest’ultima (con la statalizzazione e la collettivizzazione) aveva, in effetti, liquidato la proprietà capitalistica privata e la piccola proprietà contadina, creando, nel contempo, le premesse per la nascita di nuovi rapporti di produzione. Questi nuovi rapporti sono stati a loro volta condizionati dal carattere e dal livello reale di sviluppo delle forze produttive, dallo stato della produzione e dai mezzi del lavoro esistenti. Una sola possibilità si offriva all’Urss con un livello di sviluppo delle sue forze produttive effettivamente basso e dove ancora predominava il lavoro manuale: imboccare la via dello “sviluppo estensivo”, che implicava la creazione di tutto un complesso di rapporti di produzione reali, di un meccanismo di gestione e di pianificazione adeguati a quell’unica possibilità. Alla fine, ne è risultato un sistema economico segnato da una spesa eccessiva e basato su indicatori di crescita quantitativi e rozzi. In queste condizioni, “il lavoro vivo è rimasto subordinato al lavoro morto, si sono conservate le forme di divisione sociale del lavoro e la differenza tra lavoro intellettuale e manuale, le funzioni dell’organizzazione e del controllo della produzione sono rimaste nelle mani dei gestori diretti della ricchezza (ministri, direttori d’impresa, ecc.) e, dunque, l’appropriazione reale dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori deve ancora realizzarsi” 5.

 

Le riforme

Da quando Gorbačëv era diventato Segretario Generale del Comitato Centrale del Pcus, i sistemi legale, economico e politico del paese erano stati esposti a dura critica e ad analisi profonda per individuare opportune soluzioni di riforma. I principali problemi, con i quali il Segretario si era dovuto confrontare, erano l’obsolescenza tecnica e scientifica nell’industria, la bassa produttività del lavoro, la qualità scadente della produzione nella manifattura e agricoltura, la burocrazia inefficiente e corrotta dell’amministrazione dello Stato, dell’impresa e dell’apparato di partito.

Preso atto della gravità di questi problemi, il Soviet Supremo emanava quasi subito dei provvedimenti con i quali venivano introdotte nuove condizioni di management in favore di un allentamento della presa burocratica sull’economia e sulla società sovietica in generale, mentre la pubblica amministrazione era sottoposta ad un grado più elevato di democratizzazione e di regolamentazione giuridica, prevedendo l’estensione e il perfezionamento del sistema sul controllo dell’azione amministrativa dei funzionari pubblici. Una legge6 determinava gli atti amministrativi ritenuti illeciti (che danneggiavano o che contrastavano con i diritti dei cittadini) e che erano suscettibili di denuncia penale e/o civile. Con la riforma delle procedure amministrative per la difesa e la garanzia dei diritti civili e soggettivi veniva superato il sistema informale di difesa epistolare del cittadino, che gli permetteva di denunciare alla stampa eventuali soprusi od ingiustizie. Un’altra serie di riforme comprendeva la revisione di alcuni principi legislativi e delle procedure legali: riforma costituzionale, ruolo della legge in Urss e della Procura, riassetto dei tribunali che doveva, innanzitutto, assicurare la legalità dell’azione amministrativa e/o penale.

Il senso di tutti questi provvedimenti stava nel bisogno del partito di rimuovere gli intralci peggiori dell’economia sovietica ormai stagnante, di sottoporre la res publica ad un controllo più incisivo e nel desiderio di dare maggiore credibilità allo Stato. In questo clima, era stata anche riesumata la teoria fondamentale della democrazia partecipatoria, che ispirava tutta la dottrina costituzionale ufficiale, per indebolire le resistenze di amministratori e funzionari e dare, di conseguenza, maggiore impulso alle riforme. Questa teoria veniva espressa attraverso l’incoraggiamento delle elezioni “contestate” nel partito, nei soviet e nei posti direttivi, e tramite la discussione aperta e franca sulle disfunzioni e i difetti del sistema. Il criticismo costruttivo era sostenuto e favorito dalla leadership del partito, per sensibilizzare e trovare consenso tra la popolazione sul tema delle riforme, senza tuttavia mettere in discussione i principi marxisti leninisti cui s’ispiravano le stesse riforme. Le riforme di Gorbačëv andarono ben oltre. Con l’intento di fornire nuovi impulsi alla crescita, egli cacciò, nei suoi primi dodici mesi di mandato, 46 dirigenti regionali su 156; il 50% dei ministri del governo e dei presidenti di organismi statali e il 30% dei segretari di partito furono rimossi. Circa duecentomila funzionari furono licenziati. In confronto con il numero totale dei burocrati di partito e statali (19 milioni), questa era una cifra insignificante, eppure provocò un’aspra resistenza da parte dei settori privilegiati della burocrazia.

La prima fase della campagna di riforma, com’è noto, si era focalizzata sulla glasnost’ (trasparenza), e mirava ad evidenziare il gap esistente fra i miti del sistema e i suoi reali difetti. In questa fase della campagna, i mass-media avevano giocato un ruolo preponderante nella guida del dibattito. La seconda fase della campagna si era invece concentrata sulla perestrojka, cioè sull’implementazione e realizzazione delle riforme. Il nuovo approccio ai problemi aveva, tuttavia, radici lontane. La dirigenza del partito, già dalla metà degli anni sessanta, si era posta il problema di una politica della trasparenza, che facesse emergere i limiti più macroscopici del sistema. Di quel periodo era stata la discussione accesa attorno all’uso delle elezioni “contestate” come mezzo fondamentale per scalzare la burocrazia. Erano stati, inoltre, fatti dei tentativi per migliorare lo stato dell’industria con l’introduzione del “contratto” e la riduzione dei particolarismi burocratici del piano. Il riconoscimento della necessità di una riforma di vasta portata e i tipi di provvedimenti suggeriti non erano, dunque, affatto nuovi. Nuovo era, invece, il realismo con cui si cercava di affrontare il problema nodale del “fattore umano” e dell’esistenza delle contraddizioni degli interessi nella società sovietica.

Una delle più importanti riforme politiche, della fine degli anni ottanta, era stata quella che aveva puntato sulla separazione tra lo Stato e le organizzazioni sociali. Alla XIX Conferenza del partito comunista (luglio 1988), veniva deciso di ridurre il ruolo del partito nell’amministrazione dello Stato, e di aumentare quello dei soviet. In quell’assise era stata posta molta enfasi sulla partecipazione popolare alle decisioni politiche, con lo scopo di controbilanciare lo “strapotere” del partito. Il perno su cui ruotavano principalmente le riforme politiche riguardava il processo di democratizzazione e di partecipazione popolare alle decisioni fondamentali del paese, in conformità con il dettato costituzionale sancito dall’art. 48: “I cittadini dell’Urss hanno diritto di partecipare all’amministrazione degli affari statali e sociali, alla discussione e all’approvazione delle leggi e delle discussioni d’importanza nazionale e locale. Questo diritto è assicurato dalla possibilità di eleggere e di essere eletti ai Soviet dei deputati popolari e ad altri organi elettivi dello Stato, di partecipare alle discussioni e alle votazioni di tutto il popolo, al controllo popolare, al lavoro degli organi statali, delle organizzazioni sociali e degli organi di iniziativa sociale, alle assemblee dei collettivi di lavoro e nei luoghi di residenza”.

Accanto alle riforme politiche erano state avviate anche riforme economiche. Queste riguardavano l’introduzione dell’autofinanziamento e dell’autogestione nelle imprese e di un sistema articolato d’incentivazione materiale e morale per aumentare la produttività del lavoro. In più, veniva introdotta la possibilità di un certo margine di attività privata, che si esplicava con il lavoro individuale (autonomo)7 o per piccoli gruppi (lavoro d’appalto) sottoposti, comunque, entrambi a precise condizioni e vincoli. Ampio spazio veniva dato alla costituzione di piccole cooperative o di collettivi agricoli a conduzione familiare8. Altre riforme includevano il diritto delle imprese di trattare direttamente con l’estero. A tale scopo, veniva incoraggiata la costituzione d’imprese miste con le compagnie occidentali, a patto però che il 51% delle azioni fosse riservato ai partner sovietici. Altro punto centrale della riforma economica era la trasformazione della gestione dell’impresa, vale a dire il passaggio da un sistema di gestione “amministrativo” ad uno “economico”. Questa trasformazione si proponeva di ridurre l’eccessiva regolamentazione amministrativa, dando maggiore spazio alle imprese, alle associazioni e ai collettivi di lavoro, e di rimuovere la pratica diffusa dei cittadini di arricchirsi tramite redditi illegali o da non lavoro.

Gorbačëv, e altri leader di partito, avevano posto l’accento sul carattere “rivoluzionario” delle riforme. Cambiavano alla radice le strutture politiche, economiche e sociali. Aveva luogo una ridistribuzione del potere e delle libertà, dei diritti e dei doveri fra le classi, i gruppi e gli strati sociali della popolazione. Due erano le questioni che la grande portata teorica e pratica delle riforme sollecitava: 1) quali indirizzi perseguivano le riforme, e in nome di quali gruppi d’interesse venivano realizzate? 2) quali erano le potenziali vie di sviluppo che le riforme aprivano nella società?

A proposito della prima domanda, la sociologa Zaslavskaja aveva subito chiarito che le riforme non dovevano essere interpretate come un’occasione per far emergere lo scontro sociale latente. Esse non avrebbero dovuto fomentare la lotta “antagonistica” degli operai e dei contadini contro i lavoratori dell’apparato di partito, dell’amministrazione statale o del commercio e dei servizi alla popolazione. Le riforme si dovevano distinguere come una rivoluzione radicale democratica promossa dalle forze “sane” della società civile (i dirigenti politici ed economici d’impresa dalle tendenze progressiste, gli operai d’avanguardia e i contadini intraprendenti, l’intellighenzia socio-umanistica) e avversata dalle forze “reazionarie” (i lavoratori corrotti dell’apparato di partito e dell’amministrazione statale, una parte dell’intellighenzia socio-umanistica, i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi e, infine, i rappresentanti della criminalità organizzata)9.

Per quanto riguardava la seconda domanda, la sociologa aveva individuato due possibili vie di sviluppo: 1) quella radicale democratica; 2) quella liberale conservatrice. Sottolineava, da subito, l’insidiosità della via liberale conservatrice, poiché se la liberalizzazione presupponeva un processo di apertura e di abbattimento delle rigidità del sistema, per contro questa soluzione non avrebbe favorito (anzi, avrebbe ostacolato) la ridistribuzione del potere e delle libertà, dei diritti e dei doveri dei cittadini, e si sarebbe principalmente connotata per la conservazione o l’introduzione di nuovi privilegi di classe o di gruppo a scapito di altri. Questa via di sviluppo avrebbe sicuramente aperto le porte ad un capitalismo alla russa (peggiore di quello occidentale perché avrebbe risentito dell’arretratezza economica e sociale del paese). Il risultato sarebbe stato il ritorno dell’Urss al periodo in cui dominava una sorta di capitalismo parassitario per opera dei kulaki. Al contrario, la via radicale democratica si sarebbe battuta per la ridistribuzione equa della ricchezza tra i diversi gruppi/strati sociali. Avrebbe, inoltre, condotto alla revisione totale del modo di gestire il potere e l’informazione, alla creazione di strutture autonome di gestione e alla reale partecipazione popolare alle scelte fondamentali del paese.

Il destino del popolo russo dipendeva dalla via di sviluppo che sarebbe prevalsa. Se fosse stata vincente la via radicale democratica, allora dopo il miracolo cinese e giapponese si sarebbe assistito al miracolo sovietico. Da paese arretrato l’Unione Sovietica si sarebbe trasformata in uno Stato potente, moderno, dinamico e concorrente con gli altri paesi. Viceversa, se fosse passata la linea conservatrice liberale, il paese avrebbe perso la sua posizione di prestigio internazionale, si sarebbe trovato isolato dal resto del mondo e, cosa ancor più grave, la strada imboccata avrebbe assunto un carattere irreversibile.

Un’altra questione che era stata posta in quegli anni era quella di capire quale sarebbe stato il prezzo sociale che la società sovietica avrebbe dovuto pagare nel corso del cambiamento. Era possibile immaginare una trasformazione di portata “rivoluzionaria”, senza innescare alcun antagonismo? Essa implicava necessariamente la modifica relativa e assoluta delle condizioni dei gruppi/strati sociali e, quindi, la loro lotta per la difesa degli interessi particolari.

Ecco perché, secondo la Zaslavskaja, la strategia della gestione sociale aveva, tra i suoi compiti prioritari, quella di ridurre al minimo i conflitti e le tensioni, per diminuire il prezzo sociale da pagare. Bisognava puntare, nei limiti del possibile, a creare condizioni di accordo sociale. Ciò non significava, dal punto di vista della sociologa, approdare ad un compromesso tra i diversi interessi, ma piuttosto impegnarsi per far prevalere gli interessi “sani” su quelli “insani”, e ciò comportava per alcuni soggetti un guadagno e per altri una perdita. Il compromesso degli interessi avrebbe danneggiato e frenato il processo della riforma globale. La perestrojka innescava il conflitto. Ciò era inevitabile. I leader del partito dovevano essere pronti a fronteggiare la disputa e la diatriba degli interessi che la riforma sollevava e guidare il nuovo corso nella direzione voluta, possibilmente con le minime perdite e lesioni sociali.

La giustizia sociale (o socialista)

La Zaslavskaja suggeriva alcune regole fondamentali, affinché fosse eliminato lo squilibrio presente tra fini e strumenti e, di conseguenza, corretta una delle più evidenti ingiustizie caratterizzata appunto dalla diseguale ripartizione dei beni materiali e culturali tra la popolazione. La materializzazione concreta di questa politica era costituita da un programma complesso che poteva essere distinto in minimo e massimo. L’obiettivo dell’integrazione tra valori finali e strumentali ricadeva nel programma massimo, e sarebbe stato raggiunto una volta che tutti i gruppi di popolazione avessero ottenuto parità di condizioni e pari opportunità sia nell’uso degli strumenti sia nel raggiungimento dei fini. Nelle risoluzioni sul Piano di sviluppo economico e sociale dell’Urss per il 1986-2000 si era posta grande attenzione al tema dell’educazione della nuova generazione, al rafforzamento della base tecnica materiale dell’istruzione scolastica e professionale, al perfezionamento dell’orientamento professionale degli studenti. Erano previste importanti trasformazioni riguardanti le condizioni, la natura e il contenuto del lavoro. Si prevedeva il superamento delle sproporzioni più evidenti nella remunerazione delle diverse categorie di lavoratori, e si attribuiva importanza rilevante al perfezionamento del meccanismo di circolazione dei beni di consumo e dei servizi.

Accanto a questo che era il programma massimo, ve n’era uno minimo. Il programma minimo della giustizia sociale (o socialista) poneva tra i suoi compiti fondamentali: 1) la soppressione dei fenomeni più gravi generati dall’economia ombra (tenevaja ekonomika): corruzione, prevaricazione dell’interesse individuale su quello collettivo, redditi da non lavoro e illegali, rete di legami tra affaristi sommersi e funzionari corrotti dell’apparato statale; 2) il controllo dei redditi dei gruppi occupati prevalentemente nel lavoro individuale, prevedendo a partire da una base determinata di reddito la possibilità dell’obbligo di un’imposta progressiva. Una differenza troppo forte per unità di lavoro, rispetto alla produzione sociale, poteva portare alla formazione di un ceto al quale sarebbe andata una quota della ricchezza sociale troppo elevata rispetto alla restante massa di lavoratori. Gli interventi individuati per l’attuazione del programma minimo erano principalmente di natura correttiva, e se non portavano immediatamente ad eliminare le cause di fondo dell’ingiustizia sociale erano almeno utili per contenere alcune palesi ineguaglianze.

Parallelamente operava una linea strategica (riferita al programma massimo), che aveva essenzialmente lo scopo di: 1) rielaborare gli attuali meccanismi di pianificazione e gestione dell’economia; 2) superare gradualmente la divisione sociale del lavoro, che stava alla base delle ineguaglianze nei redditi, nei livelli culturali e nel prestigio sociale; 3) eliminare la differenza tra lavoro intellettuale e manuale; 4) omogeneizzare le possibilità di partenza per dare pari opportunità di sviluppo delle capacità e dei talenti dei vari gruppi sociali, che vivevano in regioni diverse del paese, in città o in campagna. L’avvio di questa politica avrebbe, in definitiva, permesso la coerente attuazione del principio “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo il suo lavoro”.

In Urss, il problema dell’amministrazione dello Stato e delle sue articolazioni territoriali, dalla fine degli anni trenta sino ai primi anni sessanta, era stato affrontato soprattutto da giuristi e specialisti del diritto amministrativo. Tuttavia, la riconsiderazione del “fattore umano” nel sistema politico ed economico richiedeva l’adozione di un approccio multi-disciplinare, in grado di tenere conto della storia e dell’economia politica, della filosofia, della sociologia e psicologia sociale. Sulla base di questo approccio, a partire dalla rivoluzione d’Ottobre, la pianificazione scientifica centralizzata era stata la caratteristica fondamentale del sistema sovietico. La teoria, che giustificava ideologicamente la scelta del piano, partiva dal presupposto che i lavoratori, sostenuti dal clima inebriante della rivoluzione, non fossero guidati nell’economia, nel sociale e nella politica da interessi personali, bensì da interessi generali. Tuttavia, per una serie di motivi, l’entusiasmo collettivo era stato nel tempo smorzato dall’eccessiva centralizzazione e rigidità del metodo “amministrativo” di pianificazione, che aveva eluso i problemi emersi nel frattempo della contraddizione degli interessi, della democrazia imperfetta e dell’assenza della partecipazione popolare alle decisioni. In sostanza, la leva del “fattore umano” nell’amministrazione dello Stato, della politica e dell’impresa era stata completamente trascurata. Il riconoscimento del “fattore umano” trovava la sua giustificazione più importante nel fatto che la società socialista sviluppata non aveva soppresso le contraddizioni degli interessi (inclusi i bisogni) dei differenti gruppi sociali. Queste contraddizioni erano finalmente accettate, ed anzi per alcuni erano considerate la molla decisiva della dinamicità e della rigenerazione del sistema, della possibilità dell’affermarsi della creatività e del progresso futuro. Erano, insomma, una ricchezza.

La pianificazione statale centralizzata non poteva funzionare se mancava l’interesse e il coinvolgimento popolare nelle decisioni, così come la legge era inefficace se i cittadini non fossero stati motivati a rispettarla e applicarla. Molti provvedimenti erano diretti a superare il problema della mancanza dell’impegno dei lavoratori, con l’aumento degli incentivi materiali e morali per innalzare la produttività ed incoraggiare la partecipazione a tutti i livelli. L’ethos profuso dai leader del partito, per recuperare il controllo sostanziale dell’amministrazione pubblica e delle imprese, arrivava a comprendere anche provvedimenti di tipo “punitivo”, che includevano ammende, riduzioni dei premi, dimissioni forzate, sino al licenziamento diretto del management. E’ noto che Lenin rilevasse nel taylorismo la presenza di una serie di caratteristiche positive che potevano risultare utili nella realizzazione di un’organizzazione efficiente del lavoro. L’idea di Lenin era quella di trasformare ciò che nel contesto capitalistico gli appariva come un raffinato mezzo di brutale sfruttamento in un’appropriazione collettiva dei nuovi metodi di organizzazione del lavoro, tipici della grande industria meccanizzata. Era il taylorismo la via considerata più rapida ed economica per insegnare a lavorare ad una forza lavoro in larga parte nuova ed inesperta. Negli anni venti si trattava d’insegnare la razionalità del lavoro industriale ad una manodopera in maggioranza di origine contadina. Nel corso del trentennio di guida staliniana si era compiuta la grande trasformazione del paese da rurale ad urbano industriale. Ma è con l’inizio degli anni sessanta che cominciava ad aprirsi un dibattito su cosa fosse “razionale” (o irrazionale) nella gestione dell’impresa sovietica. Nella nuova fase di sviluppo industriale non si trattava d’insegnare ad ex contadini come diventare eccellenti operai, quanto piuttosto di far assimilare nuovi criteri e metodi di gestione delle risorse umane e strumentali ai direttori sinora esclusivamente concentrati sulla realizzazione (pressoché quantitativa) degli obiettivi del piano. Si trattava, insomma, di realizzare forme superiori di gestione e organizzazione del lavoro collettivo d’impresa.

I compiti della sociologia, delle scienze sociali e dell’organizzazione erano stati fissati in una serie di risoluzioni del partito a partire dai primi anni sessanta. Tali compiti miravano ad uno scopo fondamentale: l’applicazione di nuovi meccanismi di riorganizzazione del lavoro sociale nel quadro di una direzione scientifica della società socialista sviluppata. Tutto ciò avrebbe dovuto trovare attuazione con una serie di metodi d’intervento raccolti sotto la denominazione di pianificazione sociale intesa come “determinazione scientificamente fondata di obiettivi e di indicatori di sviluppo dei processi economici e sociali ed elaborazione dei mezzi principali per la loro traduzione operativa negli interessi della classe operaia e di tutti i lavoratori della società socialista”. Nella società socialista sviluppata erano considerate fondamentali tre esigenze: perfezionamento dei metodi di gestione, utilizzazione di nuove risorse per accrescere l’efficienza produttiva, sviluppo dell’attivismo sociale dei lavoratori. Vari autori enfatizzavano l’uno o l’altro di questi obiettivi. Sembrava esserci, in ogni caso, a giudicare dalla letteratura più vicina agli anni ottanta, una tendenza verso un approccio onnicomprensivo orientato alla contemporanea ottimizzazione di tutte e tre queste esigenze. Era, in pratica, il modello sistemico per programmi quello maggiormente favorito, che considerava insieme tutti gli aspetti della gestione pianificata, e si poneva l’obiettivo di superare le tradizionali conseguenze negative dell’approccio settoriale o per sfere di produzione del piano. In particolare, andava superata la dicotomia tra lavoro produttivo (es. quello dell’industria) e improduttivo (es: quello del terziario), che aveva pesantemente segnato il meccanismo di pianificazione, la politica degli investimenti e le scelte macro-economiche.

Al modello per programmi se ne affiancavano altri, come quello costruito su micro-obiettivi, incentrati sul miglioramento del clima di lavoro delle cellule organizzative, sui sistemi d’incentivazione materiale e morale ecc., che si differenziavano per la “qualità” dei contenuti e per le diverse prospettive temporali d’attuazione. L’approccio per programmi si giustificava con le necessità imposte dal progresso tecnico e scientifico e con la maggiore complessità organizzativa e sociale delle imprese. Gli aspetti più “pragmatici” (modello per micro-obiettivi) erano distinti da quelli economici e sociali, cruciali per la crescita generale del paese. Ovviamente, le diverse forme di pianificazione, pur nella diversità dei contenuti e dei tempi di esecuzione, erano ispirate da criteri comuni: centralismo democratico, oggettività, concretezza, ottimizzazione, scientificità e loro applicazione negli interessi esclusivi della classe operaia e di tutti i lavoratori della società socialista. Per la Zaslavskaja, la pianificazione, nel quadro del progetto di rinnovamento globale, doveva mirare alla revisione del sistema di direzione e gestione dello Stato, del partito e dell’impresa e ad un nuovo livello di politica sociale. Il nuovo metodo di direzione e gestione doveva costruire un sistema leale ed efficace delle relazioni economiche teso a stimolare l’interesse del lavoratore verso i risultati del proprio lavoro e di quelli dell’impresa. Apprezzare e premiare il contributo lavorativo individuale significava accrescere il livello quali-quantitativo dei prodotti e dei servizi finali da ripartire nella società. Il lavoro superfluo era uno degli ostacoli più evidenti allo sviluppo delle forze produttive (in molte imprese, affermava la sociologa, i lavoratori superflui rappresentavano il 5-15% della forza lavoro), ed era un freno per l’accelerazione del progresso tecnico scientifico. Di regola, la domanda superava l’offerta di lavoro, ma in condizioni diverse la situazione avrebbe potuto ribaltarsi. Era, quindi, importante procedere ad una ridistribuzione territoriale e settoriale della manodopera, riconvertendo in caso di necessità alcuni profili professionali. Inoltre, se il salario e altri benefits dei collettivi di lavoro fossero stati direttamente collegati ai risultati produttivi dell’impresa, allora per il collettivo era importante sapere chi (e in che modo) dirigeva l’azienda. La nuova legge sulle Imprese10 introduceva il principio dell’eleggibilità del management, modificando a fondo i rapporti tra lavoratori e direttori e stimolando la scelta dal basso dei quadri direttivi. Dapprima questo principio era applicato a tutti i dirigenti d’èquipe e poi progressivamente ad altre categorie di personale dirigente: capireparto, sovrintendenti di reparto, settore o turno e i direttori di dipartimento dei sovchozy.

La base della strategia sociale consisteva nella regolamentazione dei rapporti fra i gruppi principali della popolazione, in base a nazionalità, classi e strati sociali, generazioni, composizione e tipologie diverse di famiglie, ecc. Uno degli aspetti fondamentali di politica sociale era quello di valutare in maniera diversa la posizione dei vari gruppi, con lo scopo d’individuare e intervenire sulle posizioni più svantaggiate. Questa politica teneva conto del principio della giustizia socialista nella regolazione dei rapporti economici e sociali e, in particolare, di quelli della ripartizione e distribuzione della ricchezza. La distribuzione dei Fondi sociali di consumo doveva essere compiuta sulla base del criterio della massima giustizia ed equità.

Dopo la rivoluzione d’Ottobre era stato eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Occorreva ora realizzare un livello superiore di perfezionamento dei rapporti fra gli uomini. Il termine giustizia aveva un significato molto ampio, poiché abbracciava quasi tutte le sfere della vita dell’uomo: politica, giuridica, economica e sociale e, persino, la sfera dei rapporti familiari quotidiani. Per giustizia sociale si doveva sostanzialmente intendere la messa in pratica del più importante principio socialista: “da ognuno secondo le sue capacità ad ognuno secondo il suo lavoro”. Affermava la Zaslavskaja: “Per attuare il principio della giustizia sociale è necessario assolvere alcuni compiti. Per quanto riguarda la prima parte del principio ‘da ognuno secondo le sue capacità’: vanno in primo luogo eliminate tutte le differenze che caratterizzano i bambini e gli adolescenti appartenenti ai vari strati sociali, che vivono in zone diverse del paese, in città e in campagna. Vanno, inoltre, rese eguali le possibilità d’istruzione prescolastica e scolastica, potenziando le infrastrutture scolastiche, là dove mancano, e migliorando la qualità dell’istruzione. In questo modo si rende paritaria la posizione di partenza degli allievi che decidono poi di proseguire gli studi nelle scuole tecniche o all’Università. E’, tra l’altro, noto che più è alta la posizione dei genitori nella società, più è altrettanto alto il livello d’istruzione che ricevono i figli. In secondo luogo, la persona che ha un buon grado d’istruzione e qualificazione professionale deve trovare un posto di lavoro idoneo, dove possa esprimere al meglio le sue capacità e attitudini. Da noi non c’è disoccupazione, ma ciò non significa che ognuno lavori nel posto adatto alle sue capacità. Prendiamo ad esempio una località rurale: la scelta del posto di lavoro è in questo caso molto limitata, e la gioventù rurale si trova in condizioni diseguali in confronto con la gioventù che vive in città. Un altro problema sorge in relazione ai lavoratori creativi: si è ancora ben lontani dalla situazione in cui ognuno di loro potrà lavorare esprimendo totalmente il proprio talento. E la soluzione di questo problema dipende non solo dal sistema di distribuzione dei posti di lavoro, ma anche dal cambiamento della loro struttura generale nella produzione sociale. Adesso si sta predisponendo un programma di graduale liquidazione del lavoro fisico pesante; la struttura dei posti di lavoro diventerà più attraente e sarà, di conseguenza, più facile soddisfare le esigenze delle persone che vorranno impegnarsi in lavori creativi. In terzo luogo, vanno garantite ai lavoratori, già occupati in determinati posti, reali opportunità di lavorare in modo tale da esprimere il proprio talento. Molti problemi sono anche connessi alla seconda parte della formulazione del principio fondamentale del socialismo ‘a ciascuno secondo il suo lavoro’. In primo luogo, ciò significa il perfezionamento del sistema di retribuzione del lavoro. Negli ultimi due, tre decenni, si è proceduto ad un aggiustamento di questo sistema, ma a passi lentissimi. E’ aumentata, in maniera del tutto sporadica, la paga di alcuni gruppi di lavoratori, ma il risultato è stato che il lavoro qualificato dell‘ingegnere è retribuito molto peggio del lavoro degli operai non qualificati. In questo campo esistono ancora molte altre forme d’incongruenza. In secondo luogo, si è presentato il problema di una regolamentazione della retribuzione per coloro che svolgono un’attività lavorativa individuale. Colui che lavora in questa sfera economica, e che ottiene buoni risultati, deve indiscutibilmente essere pagato bene. Ma affinché il suo reddito non risulti oltre misura e affinché questa situazione non crei, di conseguenza, tensione sociale fra i gruppi, è indispensabile un sistema ben congegnato d’imposizione di un’imposta progressiva. Certamente tale sistema deve essere, in ogni caso, meditato; non deve essere un sistema che risulti da un punto di vista economico incomprensibile. In terzo luogo. Da noi si è formato un mercato dei beni di consumo diviso in tanti mercati individuali ai quali hanno accesso alcune categorie di lavoratori. Tenendo conto della riduzione graduale del deficit delle merci, sarà necessaria la creazione di un unico mercato dei beni di consumo con un unico forte rublo d’acquisto. Ancora un problema. Da noi, gli alloggi, il servizio sanitario ed altri servizi sono in pratica gratuiti. Persino i generi alimentari fondamentali hanno prezzi irrisori, tali per cui a tutta la popolazione è garantito un reddito minimo. Ma cos’è preferibile: ottenere un alloggio gratuito indipendentemente dal proprio stipendio o, al contrario, ricevere una retribuzione migliore ed ottenere in relazione ad essa un alloggio che risponda ai criteri della dimensione e della qualità desiderata?11.

Dunque, per la Zaslavskaja, la perestrojka si connotava come una pianificazione molto articolata tesa a realizzare una molteplicità di programmi e obiettivi qualitativamente diversi posti su differenti piani temporali. Innanzitutto, essa era la pianificazione dei processi economici. Qui il contenuto principale era lo sviluppo del progresso tecnico scientifico e l’introduzione delle sue acquisizioni nei processi produttivi reali. Questo tipo di pianificazione si applicava a tutti gli aspetti della gestione d’impresa. I piani economici non potevano, tuttavia, limitarsi alla definizione di soli indici tecnici, scientifici, produttivi ed organizzativi. Essi dovevano conglobare anche indici sociali e culturali per contribuire ad una crescita totale dei rapporti di produzione e delle forze produttive. Era, inoltre, necessario elaborare una proiezione delle conseguenze sociali derivanti dall’attuazione dei piani economici (e individuare i mezzi sociali più efficaci per consentire la realizzazione dei piani stessi). Le pianificazioni economiche presupponevano la regolazione dei processi sociali e politici. Per questo motivo, gli obiettivi dovevano essere subordinati e correlati allo sviluppo della democrazia e della disciplina socialista, cioè al perfezionamento degli strumenti di controllo sociale e partecipazione dal basso alla gestione e alla completa eliminazione di qualsiasi forma di sfruttamento, corruzione e disonestà presenti nei vari gruppi di popolazione.

Nella pianificazione dei processi era ritenuta d’estrema importanza la direzione verso la quale erano volti gli sforzi del cambiamento. La Zaslavskaja, insieme con altri studiosi come Butenko, riproponeva il primato della politica e del sociale sull’economia, assolutamente necessario per guidare correttamente il cambiamento, come stava avvenendo in Cina. Il desiderio di occuparsi più di economia e meno di politica si sarebbe potuto realizzare - come diceva Lenin - solo nel caso in cui non ci fossero stati pericoli ed errori politici. La pianificazione riguardava anche la vita spirituale della società (duchovnaja zhizn’ obščestva), ossia la formazione di una cultura etica e spirituale nell’individuo costituita da nuove forme di vita economica, sociale e politica che avrebbero reso impossibile l’esistenza di una folla solitaria e di una solitudine di massa. Nella società socialista l’individuo prima che oggetto della pianificazione ne era il soggetto.

Nel socialismo sviluppato, la coincidenza tra attività cosciente delle masse ed esigenze obiettive dello sviluppo si manifestava per le ben note ragioni: alienazione della proprietà privata, eliminazione delle classi sfruttatrici, dominio della proprietà sociale dei mezzi di produzione ed egemonia dell’ideologia marxista leninista. E’ per tutto ciò che soggetti, contenuti e scopi della pianificazione erano ben diversi da quelli “irrazionali” dell’economia di mercato dei paesi capitalistici. La forma di pianificazione socialista doveva incidere sulla coscienza internazionalistica e “patriottica” allo stesso tempo dei lavoratori, sulla loro cultura educativa, morale e spirituale. Doveva riuscire a sradicare dalle loro coscienze le sopravvivenze del passato e impedire che fossero influenzati da ideologie fuorvianti.

Infine, nel modello di pianificazione generale della società, proposto dal gruppo siberiano (T.I. Zaslavskaja, A.G. Aganbegjan, L. Abalkin, G. Popov, N.Ja. Petrakov, S. Šatalin, N. Šmelev, P.G. Bunich), erano considerati come strumenti utili d’indagine le ricerche sociologiche su argomenti come la composizione socio-professionale del collettivo di lavoro, i rapporti nei gruppi di lavoro e l’attivismo sociale e produttivo. Le ricerche sociologiche dovevano mirare alla riduzione o eliminazione di una serie di aspetti negativi, che tradizionalmente caratterizzavano i rapporti di lavoro nelle imprese sovietiche, quali le infrazioni alla disciplina lavorativa, l’alto turnover del personale, le insoddisfacenti condizioni del lavoro. Un secondo modello di rilevazione, che si collocava ad un livello più alto di elaborazione, era quello che sviluppava ricerche sociologiche sui mutamenti negativi nella struttura demografica della popolazione, sullo studio dei gruppi e degli strati sociali di cui era composta la società, la loro interazione e l’analisi, a sua volta, dei diversi interessi che agivano nel paese. Ricerche che allo stato presente erano solo di tipo teorico e filosofico, non corredate da indici socio-economici (quali quantitativi), dato che la tradizione della sociologia sovietica “quantitativa” si era per il momento limitata ad affrontare i micro-ambienti (la famiglia, il collettivo di lavoro, il partito).

 

Il concetto di politica sociale nel contesto della perestrojka

Nella letteratura sociologica sovietica si faceva spesso distinzione tra quella che veniva definita come politica sociale in senso stretto (social’naja politica) e quella che, al contrario, era definita come politica sociale in un senso più ampio (obščestvennaja politica). La prima si caratterizzava come un insieme di misure statali tese a sostenere quei gruppi e/o strati sociali che per una serie di motivi si trovavano in condizioni materiali più difficili rispetto ad altri gruppi. La seconda si caratterizzava, invece, come un sistema orientato al raggiungimento di finalità sociali più articolate e di maggiore portata.

La politica sociale in senso stretto aveva come suoi obiettivi la creazione delle condizioni necessarie a garantire la soddisfazione dei bisogni fondamentali della popolazione, l’aumento del tenore di vita e il rafforzamento della giustizia socialista nel sistema dei rapporti economici e sociali. La politica sociale nella sua accezione più ampia aveva, invece, come obiettivi la trasformazione del sistema burocratico amministrativo in un sistema sociale complesso, differenziato e multiregolato, in grado di garantire la crescita economica; il perfezionamento del meccanismo economico, tenendo conto di alcuni ammortizzatori sociali; la politica dei quadri; il rinnovamento degli istituti politici e giuridici; lo sviluppo della glasnost’, ecc.

La Zaslavskaja aveva concentrato la sua attenzione sulla politica sociale in senso stretto, analizzandola in rapporto costante al nuovo meccanismo economico. Quest’ultimo poneva inevitabilmente alcuni gruppi specifici di popolazione in una condizione materiale meno vantaggiosa in confronto con altri gruppi. La politica sociale aveva lo scopo di compensare il peggioramento delle condizioni materiali dei gruppi più vulnerabili. Oltre ad avere sue specifiche funzioni, essa conteneva in sé anche quella di sostegno allo sviluppo dell’economia. Ma proprio a questo punto si produceva un’inversione di tendenza rispetto al concetto tradizionale di politica sociale sovietica. Se fino ad ora lo sviluppo dell'economia era stato il "mezzo" attraverso cui la società poteva realizzare i suoi fini, nella nuova situazione era fondamentale da parte dello Stato sostenere e regolamentare l'applicazione delle leggi del mercato e del pieno calcolo economico, mentre la politica sociale doveva prioritariamente assolvere alla mera funzione di difesa sociale. I processi di privatizzazione in atto, anche se in forma ancora embrionale, e l’affacciarsi della disoccupazione avevano imposto l'adozione di misure di tutela sociale. Alla soglia degli anni novanta era introdotto il sussidio di disoccupazione (gennaio 1991) e venivano stabiliti tetti minimi di salario e di pensione. Il diverso approccio alle politiche sociali, secondo i dirigenti sovietici, trovava giustificazione nel livello di sviluppo in cui si trovava la società di allora. La soluzione a qualsiasi problema sociale necessitava di tali mezzi materiali che senza la crescita accelerata dell'economia avvicinarsi alla sfera sociale era praticamente impossibile. Affermava la Zaslavskaja: “Lo sviluppo accelerato dell'economia permetterà la crescita del livello di vita della popolazione e, di conseguenza, aumentando il benessere generale, crescerà anche la quota di ricchezza (il fondo) destinato ai consumi sociali, alla sicurezza sociale, ecc. La politica sociale potrà, a sua volta, regolare il sistema di distribuzione della ricchezza creata secondo criteri di maggiore equità12. In sostanza, solo uno Stato economicamente forte, che avesse risolto nel suo seno la contraddizione fondamentale tra produzione e soddisfacimento dei bisogni e il divario tra produttività del lavoro e retribuzione, dove esisteva, insomma, un alto livello di benessere, avrebbe potuto esercitare la sua funzione di Stato sociale (social'noe gosudarstvo).

 

Epilogo

Lo scopo delle riforme avviate da Gorbačëv era di stabilire un’economia di mercato socialista seguendo il precedente della Nep. Ma già nel ’90 e nel ’91 il leninismo e la Rivoluzione d’ottobre erano stati respinti, e gli intellettuali e gli economisti, che avevano abbracciato la via radicale democratica, cominciarono a far appello ad una transizione verso il capitalismo.

Il passaggio al mercato “socialista” si stava compiendo attraverso l’immiserimento della popolazione. Il ritorno al processo di accumulazione primitiva aveva portato in primo piano le dinamiche sociali. Il processo era appena cominciato e una parte fondamentale della popolazione si trovava già sotto la soglia di povertà. La condizione penosa in cui si trovava l’economia sovietica aveva indotto i consiglieri economici di Gorbačëv a proporre, su consiglio dei monetaristi thatcheriani, l’eliminazione dei sussidi per i generi alimentari e per gli affitti troppo onerosi, in modo che la legge della domanda e dell’offerta determinasse liberamente i prezzi di questi beni. Pochi anni dopo questo consiglio fu messo in pratica con effetti devastanti sulla popolazione.

Inoltre, l’Urss incominciava a pagare pesantemente la crescita rapidissima dei conflitti nazionali, la situazione politica interna di estrema instabilità, che si manifestava nel continuo ricambio dei ministri e del personale politico, e il prezzo della corsa agli armamenti e della politica di dipendenza economica dai Paesi occidentali per quanto riguardava il rifornimento di tecnologie e di beni di consumo con il rimborso del debito a questi Paesi e alle strutture economiche sovranazionali, soprattutto al Fondo Monetario Internazionale. L'indebitamento con l’estero, insieme con il costante rallentamento dei tassi di sviluppo economico interno, aveva sottratto risorse importanti ai fondi sociali di consumo, al punto tale che una famiglia media non era più in grado di soddisfare i bisogni minimi essenziali.

Il principale punto debole delle riforme gorbačëviane era che si voleva conseguire la crescita economica principalmente attraverso l’aumento dei ritmi di lavoro e la disciplina di fabbrica, accordi sulla produttività e individuazione di un sistema d’incentivi e di sanzioni economiche per accrescere l’efficienza nell’uso delle risorse, liberalizzazione e crescita dei prezzi, tagli ai sussidi sociali e chiusura delle fabbriche obsolete escludendo i lavoratori dai processi produttivi. Se all’inizio della perestrojka le persone, alle quali veniva chiesto qual era l’aspetto più tragico nel campo dei consumi, mettevano al primo posto il cattivo approvvigionamento dei beni e dei prodotti di consumo, dopo sei anni di perestrojka costoro mettevano al primo posto l’aumento costante dei prezzi. Poco o niente era stato detto su come ristrutturare la grande industria e l’agricoltura collettivizzata su vasta scala, che erano in definitiva quelle realmente decisive per risollevare le sorti dell’economia sovietica. Non si andava al di là dell’affermazione sulla necessità di una transizione dell’economia da un sentiero di crescita “estensivo” ad uno “intensivo” (transizione da realizzarsi attraverso la crescita della produttività del lavoro e l’uso più efficiente di tutte le risorse produttive), che la pianificazione su base amministrativa non fosse più compatibile con la crescita ulteriore del paese, ma non si diceva nulla riguardo a quale pianificazione bisognasse puntare, limitandosi a ripetere che lo sviluppo delle forze produttive non era più conciliabile con le forme di proprietà esistenti. Ma si pensava davvero di rimettere in piedi l’economia sovietica con la piccola proprietà agricola o l’attività lavorativa individuale? Poiché, nella migliore delle ipotesi, la prima avrebbe potuto essere un’azienda di autoconsumo (e quale paese al mondo si basava su un’agricoltura di autoconsumo?) e la seconda rappresentare un esiguo comparto dell’economia. Si gridava ai quattro venti che le imprese commerciali, le piccole e medie imprese fossero restituite alla proprietà privata o date in affitto. Ma per quanto riguardava, invece, settori trainanti come quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, delle risorse energetiche, dell’aeronautica e cosmonautica, dei trasporti o della grande industria, come bisognava procedere? Privatizzare anche qui o lasciare tutto (o una parte) nelle mani della proprietà sociale? A queste domande non venivano date risposte autorevoli, mentre sempre più frequenti erano le dichiarazioni di fallimento dell’intero esperimento sovietico, con il conseguente rafforzamento dell’orientamento a fare “piazza pulita” per lasciare spazio soltanto al mercato e al profitto.

Il velleitarismo di chi si trovava a dirigere lo Stato più grande paese del mondo, con l’apertura simultanea di troppi fronti, sia sul piano interno che su quello internazionale, con la conseguente perdita totale del controllo “politico” del processo di cambiamento stava rischiando “appena” di rovinare l’esistenza a centinaia di milioni di sovietici. Le pressioni per una riforma centrata sul mercato si erano andate sempre più radicalizzando nel tempo. Dal prospettare una situazione in cui la maggior parte della produzione delle imprese avrebbe dovuto continuare ad essere determinata dalle commesse statali e dagli ordini degli organi di pianificazione, in base alle priorità centralmente stabilite, si era passati nell’arco di pochi anni a prospettarne una in cui mercato e concorrenza - anche tra più forme di proprietà - avrebbero dovuto sostituire la pianificazione come principali regolatori del processo economico. E mentre le massime autorità sovietiche continuavano a parole a sostenere fermamente “l’inaccettabilità dell’idea di rinunciare all’economia pianificata e di accettare la disoccupazione”, “forme più efficienti di proprietà socialista” e che “qualsiasi forma di proprietà avrebbe dovuto escludere l’alienazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, nella realtà erano già in atto spinte per il ripristino dei meccanismi di produzione capitalistici. Sempre più si parlava di privatizzazione, e non solo delle piccole industrie, delle piccole aziende e dei servizi, mentre si affievoliva, sino a sparire poi del tutto, l’idea di piano e di esperienze di autogestione.

In tutto il periodo in cui Gorbačëv fu al potere, le riforme non avevano fatto che peggiorare la situazione generale. Nel 1986 Gorbačëv aveva espresso la speranza che alcuni miglioramenti del meccanismo economico potevano bastare, e si era dichiarato contrario a ribaltare in modo totale il passato sovietico. Nel 1988 aveva criticato fortemente il passato stalinista e aveva accettato l’idea di un’economia di mercato socialista (con la messa in pratica del principio della formazione dei prezzi), nella quale la proprietà collettiva e l’autogestione operaia avrebbero dovuto sostituire la burocrazia di Stato e il sistema amministrativo di comando. Molti sondaggi d’opinione avevano mostrato nel 1989 e 1990 che la maggioranza della popolazione era a favore di una democrazia socialista riformata ed era contraria all’introduzione di un sistema prevalentemente capitalistico. Nel 1991 Gorbačëv aveva abbandonato l’idea della democrazia dei produttori associati e dell’autogestione operaia, persuadendosi che le imprese di Stato dovessero essere convertite in società per azioni di proprietà del pubblico. Nel dicembre di quell’anno e nel gennaio del 1992 uscirono dei decreti (ukazy), che autorizzavano il passaggio immediato dei kolchozy e dei sovchozy alla condizione di società per azioni, una vera e propria decollettivizzazione forzata e obbligatoria, che inferse un colpo molto grave all’agricoltura. La completa privatizzazione dell’economia agricola aveva portato a differenziazioni sociali profonde con l’emergere di gruppi ristretti di contadini ricchi e una grande maggioranza di contadini impoveriti. Nel 1992, la Russia di El’cin e dei suoi sostenitori (in primis Egor Gajdar e Anatolij Čubajs) abbracciava definitivamente il libero mercato sul modello suggerito dai consiglieri americani dell’Istituto Hoover di Stanford e da quelli inglesi del British Institute of Economic Affairs, dando inizio ad una vera e propria “controrivoluzione”.

Le riforme di Gorbačëv, prese dall’alto, senza che la loro azione fosse accompagnata da un partito capace di guidarla (il partito comunista era ormai morente, prima di essere messo definitivamente fuori legge) e senza un centro sufficientemente forte avevano portato alla paralisi totale e indubbiamente spianato il terreno al capitalismo. Con ogni probabilità, Gorbačëv non voleva la restaurazione del capitalismo. Come sostiene Moshe Lewin, egli aveva percepito i pericoli di un liberismo selvaggio e i suoi effetti distruttivi. L’esempio dell’Europa dell’Est confermava che non esistevano panacee, e il modello brasiliano era servito come esempio negativo. A peggiorare poi la situazione, sino a portarla alle estreme conseguenze (e non furono certamente i conservatori-reazionari o i nostalgici dello stalinismo!) ci pensarono proprio quei democratici radicali (con in testa El’cin), che il gruppo siberiano aveva accreditato come tra i promotori della perestrojka, guidando la transizione non verso un socialismo “riformato” e democratico, che restituisse il potere reale ai Soviet, alla democrazia proletaria, ma piuttosto verso il capitalismo puro e duro (una sorta di transizione rovesciata). Questi burocrati “democratici radicali” erano in buona parte coloro che, nonostante il crollo del Pcus e dello Stato unitario plurinazionale, erano rimasti alla testa di importanti settori economici e delle aziende, avendo pur sempre una loro vita autonoma. Utilizzando le capacità d’iniziativa di cui disponevano erano rimasti al loro posto di comando, guidando il complesso militare-industriale. Da tecnocrati, legati alla grande industria, avevano visto sempre più il loro potere vacillare con la legge sui fallimenti e la restrizione dei crediti alle industrie. Allora, quale idea migliore se non quella di acquistare a prezzi stracciati, approfittando della distribuzione delle azioni popolari (i famosi vouchers distribuiti gratuitamente alla popolazione nel biennio 1993-1994), le industrie statali o comprare per poco o nulla addirittura dei latifondi per poi arruolare gli affittuari alle loro dipendenze? Costoro salirono in sella alla testa della nascente borghesia. Ma questi nuovi imprenditori, molti dei quali usciti appunto dall’apparato di partito e statale, si occupavano meno di tutti dell’organizzazione della produzione, dei rapporti economici e della messa a punto dei rifornimenti alla popolazione, mentre erano invece intenti ad accumulare il proprio capitale con la speculazione, la spoliazione delle risorse naturali e statali del paese, le tangenti e altri tipi di guadagno “dall’aria” (come si dice alla russa). La borghesia, nella sua fase embrionale, combinava forme di penetrazione del capitalismo, le più moderne rappresentate dalle multinazionali, e forme più retrograde e barbariche di accumulazione primitiva delle prime fasi del capitalismo. Dopo il golpe dell’agosto 1991, tutta la politica della dirigenza fu tesa alla cancellazione definitiva dell’“anomalia” sovietica e all’integrazione del paese nel mercato capitalistico mondiale. Con il crollo dell’Urss, la scelta del ceto borghese dominante fu quella di trasformarsi definitivamente in classe di proprietari oligarchi; scelta che avrebbe permesso a questo ceto di arricchirsi enormemente e in pochi anni, mentre il paese cadeva nel caos più assoluto e nella disoccupazione di massa: “Molti membri dell'intelligencija e della nomenklatura accettarono, infine, senza esitare il neoliberismo e i suoi sacrifici perché speravano di abitare nei quartieri bene e non nelle bidonville: il prezzo da pagare della crisi sovietica sarebbe stato pesante, ma essi speravano che sarebbero stati altri a pagare la fattura”13.


1 I. Il’inskij. “Razvitie socializma i molodëž’”, in Kommunist, n. 6/1987; pag. 22.

2 A. Vološin. “O čelovečeskom faktore i social’noj spravledivosti”, in Kommunist, n. 3/1987; pag. 104.

3 V.G. Kostakov. “Zanjatost’: deficit ili izbytok?”, in Kommunist, n. 2/1987; pag. 81.

4 B.V. Rakitskij, A.N. Šochin. “Socialističeskaja spravledivost’ i obščie principy raspredelitel’noj politiki socialističeskogo gosudarstva“, in Zakonomernosti formirovanija i realizacii trudovych dochodov pri socializme, M. 1987; pag. 33.

5 A. Butenko. “ La dialectique des forces productives et des rapports de production”, in La perestroika contre les blocages du socialisme, op.cit.; pag. 102.

6 Legge “Sulla procedura per appellarsi al tribunale nel caso di illeciti commessi da funzionari che violano i diritti dei cittadini”, entrata in vigore nell’estate del 1987.

7 Il 1° maggio 1987 entrava in vigore la legge sull’attività lavorativa individuale, che reintroduceva la proprietà privata seppure su piccola scala.

8 Nel marzo del 1988 veniva adottato un nuovo statuto dei kolchozy, che consentiva agli agricoltori di affittare terre per un periodo massimo di 50 anni. Lo statuto stabiliva, inoltre, che la superficie della terra e la quantità di bestiame privato autorizzate, sarebbero state d’ora in poi fissate dall’assemblea di ogni kolchoz, e che quest’ultimo non era più soggetto alla giurisdizione dell’amministrazione regionale per quanto riguardava la scelta sui piani di semina e di consegne allo Stato. Nel maggio del 1988 veniva, inoltre, approvata la “legge sulle cooperative”, che consentiva lo sviluppo di attività economiche indipendenti, soprattutto nei settori del commercio, dell’artigianato e dei servizi.

9 Un’indagine interessante, che descriveva l’atteggiamento dei vari gruppi e/o strati sociali nei confronti della perestrojka, era stata pubblicata nel libro Inogo ne dano di T.I. Zaslavskaja e R.V. Ryvkina (vedi saggio “O strategii social’nogo upravlenija perestrojkoi”), di cui vengono qua di seguito riportati molto in sintesi i risultati. In quest’indagine era stato rilevato che i due gruppi di età, che si caratterizzavano per una più alta attività sociale e che erano i maggiori fautori del cambiamento, erano i giovani compresi nella fascia d’età 35-38 anni, e le persone di tarda età comprese nella fascia 55-60 anni. Queste due generazioni avevano potuto godere, durante la loro giovinezza, di una relativa libertà; la prima dopo il 1983 e la seconda nella metà degli anni ‘50-‘60. Tutte le altre generazioni intermedie avevano vissuto, al contrario, la loro gioventù nella calamità sociale e non erano state di grande aiuto per la società. Esse si caratterizzavano, infatti, per un grande pessimismo, credevano debolmente nei valori socialisti, e valutavano con scetticismo la possibilità di un cambiamento nei rapporti economici e sociali. Fra i componenti di una stessa classe, strato e gruppo sociale si potevano individuare persone che avevano un atteggiamento riguardo alla perestrojka, che non era sempre unidirezionale, ma anzi era talvolta contrastante. I dati raccolti mostravano la non univocità dei comportamenti dei soggetti sociali, persino se rappresentanti di uno stesso gruppo sociale, nei confronti del cambiamento, e stava a testimoniare innanzitutto la complessità e varietà dei comportamenti, dietro i quali si celavano conflitti d’interessi reali. L’indagine non rilevava tutti i gruppi e gli strati sociali della società sovietica, pur dando un quadro d’insieme realistico.

I promotori della perestrojka non erano un gruppo numeroso (3 su 10). Tra loro si annoveravano i dirigenti politici ed economici d’impresa dalle tendenze progressiste, gli operai d’avanguardia e i contadini intraprendenti. Infine, l’intellighenzia socio-umanistica. I sostenitori della perestrojka formavano il raggruppamento sociale più diffuso (dopo quello dei conservatori). Costoro appartenevano a quasi tutti i gruppi sociali (7 su 10) ed anche all’interno di uno dove erano presenti atteggiamenti conservatori o, addirittura, reazionari (dirigenti politici e d’impresa, intellighenzia socio-umanistica, componente di base degli operai e dei contadini, intellighenzia tecnico-scientifica e lavoratori responsabili della gestione). Ciononostante, essi testimoniavano il largo consenso sociale di cui godeva la perestrojka. Gli alleati erano soprattutto i piccoli imprenditori e la componente di base degli operai e dei contadini (i lavoratori manuali), con l’importante differenza che il comportamento complessivo dei piccoli imprenditori era quasi tutto orientato a favore della perestrojka, mentre quello dei lavoratori manuali (contadini e operai) era anche di tipo conservatore o neutrale/passivo. I sostenitori apparenti s’incontravano, soprattutto, negli strati dell’intellighenzia che adempivano sia a funzioni esecutive che direttive (dirigenti politici e d’impresa, intellighenzia socio-umanistica e tecnico-scientifica, lavoratori responsabili della gestione). Al contrario, non si riscontrava un simile camuffamento tra i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi e tra la classe operaia e contadina (e gli artigiani), i cui comportamenti verso la perestrojka erano orientati verso una precisa direzione. I primi non potevano che esprimere una posizione di chiusura rispetto alla perestrojka, poiché essa osteggiava fortemente i loro interessi economici e sociali; i secondi non avevano, invece, nel complesso, nessun motivo oggettivo (tranne una piccola parte conservatrice e reazionaria della componente operaia e contadina) per schierarsi contro il progetto di riforma. Gli osservatori interessati rientravano in gruppi sociali molto diversi, che esprimevano al loro interno una struttura comportamentale assai eterogenea e che messa a confronto con altre era assai differente (a titolo d’esempio, cfr. la struttura degli atteggiamenti dell’intellighenzia socio-umanistica - che di tutti i gruppi sociali considerati era la meno omogenea - rispetto a quella dei lavoratori responsabili del commercio e dei servizi). Essi comprendevano coloro che auspicavano sia lo “status quo” che il cambiamento (con una prevalenza di quest’ultimi). Non erano compresi tra gli osservatori interessati quei gruppi, il cui tipo d’attività e d’interesse spingeva i loro componenti ad essere “promotori” (operai d’avanguardia e contadini intraprendenti), “aperti sostenitori” della perestrojka (piccoli imprenditori, dirigenti politici e d’impresa) o, al contrario, “oppositori” rappresentanti della criminalità organizzata. I neutrali erano i rappresentanti del lavoro manuale (componente di base degli operai e dei contadini), che non avevano sostanzialmente alcun interesse particolare immediato da difendere, e che quindi non avevano nessuna ragione di ostacolare la perestrojka. I sostenitori e i conservatori allo stesso tempo della perestrojka erano presenti in quasi tutti i gruppi sociali, eccezion fatta per gli operai d’avanguardia e i contadini intraprendenti, nonché per i piccoli imprenditori che non avrebbero mai legato la propria sorte a quella della perestrojka, se avessero avuto idee conservatrici e reazionarie. Per la stessa ragione, non s’incontravano sostenitori e conservatori allo stesso tempo tra i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi, tra la parte corrotta della classe operaia (strato minoritario privilegiato) e tra i rappresentanti della criminalità organizzata, che non potevano essere in alcun modo a favore della perestrojka. Il gruppo apertamente reazionario coagulava attorno a sé la parte corrotta dei lavoratori responsabili della gestione, una parte dell’intellighenzia socio-umanistica, i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi, lo strato privilegiato minoritario della classe operaia ed, infine, i rappresentati della criminalità organizzata.


10 La legge sulle Imprese, approvata nell’estate del 1987, affermava il principio dell’autonomia delle imprese sino all’eleggibilità dei manager, del criterio del calcolo economico (samookupaemost’): la produzione doveva coprire i costi, dell’autonomia finanziaria (samofinansirovanie): le imprese dovevano finanziare le loro attività senza il ricorso alle sovvenzioni statali.

11 T.I. Zaslavskaja, “Neobchodimost’ perestrojki diktuetsia, konečno, ne tol’ko ekonomikoj”, in Nauka i žizn’, n. 11/1987; p. 36.

12 T. Zaslavskaja, "O strategii social'nogo upravlenija perestrojkoj" in Inogo ne dano, Progress, Moskvà, 1988; p. 34.

13 Moshe Lewin, "Gorbačëv e l'essenza della perestrojka" in Il Passaggio, n. 4/5 - luglio/ottobre 1991; p. 10.


Classi e “gruppi” (1)

Un ventaglio di disuguaglianze (2)

Antagonismi e contraddizioni (3)

L’interpretazione dell’ineguaglianza (4)

Il dibattito sulle contraddizioni sociali nell’Unione Sovietica (5)


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 23-04-2015