MACHIAVELLI: IL PRINCIPE E L'UTOPIA

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NICCOLO' MACHIAVELLI: IL PRINCIPE E L’UTOPIA

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Giuseppe Bailone

Machiavelli

Il ritorno umanistico ai classici latini e greci, le scoperte geografiche che aprono nuovi mondi, l’addensarsi delle tensioni religiose, sociali e politiche che nel 1517, con l’avvio della Riforma, rompono l’unità dell’Europa occidentale, la formazione degli Stati moderni tendenzialmente assoluti, alimentano il ritorno all’idealità politica e l’attenzione alle leggi del potere politico.

In Inghilterra Enrico VIII procede speditamente alla costruzione della macchina moderna dello Stato. Tommaso Moro, suo ministro, misura i costi sociali dell’operazione e, amareggiato dalle tristi condizioni dei contadini prodotte dal fenomeno moderno delle recinzioni, ritorna all’idealismo politico di Platone e scrive in due tempi Utopia: la seconda parte, quella utopica, nel 1515, la prima parte, quella di denuncia dei mali reali, l’anno dopo. 

Crea dal greco una parola nuova per andare nell’isola ideale che non c’è e di lì guardare con rigore razionale l’isola che c’è.

Machiavelli, uomo politico di Firenze, soffre per la divisione e la debolezza politica che rendono l’Italia terra di conquiste straniere. Individua nella mancanza di potere il male politico italiano e ne fa la questione centrale dei suoi studi. Costretto all’esilio, studia, anche con l’aiuto della storia antica, la natura del potere politico. Scrive nel 1513 Il Principe, in cui parla degli uomini di potere che si agitano nell’Italia dilaniata e del principe che non c’è e di cui l’Italia avrebbe assolutamente bisogno per curare i suoi mali.

Il Principe viene pubblicato postumo nel 1532.

Nel 1559 il papa Paolo IV lo mette all’Indice, da poco istituito.

Il Foscolo, nei Sepolcri, celebra il Machiavelli “che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allor ne sfonda, ed alle genti svela / di che lacrime grondi e di che sangue”. Un’interpretazione che risale ai Ragguagli del Parnaso di Traiano Boccalini (1556-1613) e che c’è anche nel Contratto sociale di Rousseau.

Gramsci, in forzata inattività politica come Machiavelli, ma in condizioni ben più gravi dell’esilio dell’Albergaccio, in carcere, legge Il Principe come «manifesto» di un uomo d’azione con forti passioni politiche che vuole spingere all’azione.[1]

Tra i suoi appunti possiamo leggere:

“Carlo V lo studiava. Enrico IV. Sisto V ne fece un sunto. Caterina de’ Medici lo portò in Francia e se ne ispirò forse per la lotta contro gli Ugonotti e la strage di S. Bartolomeo. Richelieu, ecc. Cioè Machiavelli servì realmente gli Stati assoluti nella loro formazione, perché era stato l’espressione della «filosofia dell’epoca» europea più che italiana.

Machiavelli come figura di transizione tra lo Stato corporativo repubblicano e lo Stato monarchico assoluto. Non sa staccarsi dalla repubblica ma capisce che solo un monarca assoluto può risolvere i problemi dell’epoca. Questo dissidio tragico della personalità umana machiavellica (dell’uomo Machiavelli) sarebbe da vedere.

Prendendo le mosse dall’affermazione del Foscolo … si potrebbe fare una raccolta di tutte le massime «universali» di prudenza politica contenute negli scritti del Machiavelli e ordinarle con un commento opportuno (forse una raccolta del genere esiste già).

Lo Schopenhauer avvicina l’insegnamento di scienza politica del Machiavelli a quello impartito dal maestro di scherma che insegna l’arte di ammazzare (ma anche di non farsi ammazzare) ma non insegna a diventare sicari ed assassini”.[2]

Al libretto di Machiavelli si aggrappano in tanti, a tutti i livelli politici e culturali, declinando il machiavellismo e l’antimachiavellismo in diverse prospettive.

I molti che si fermano alle pagine in cui Machiavelli parla dei mali reali vedono in lui il teorico del realismo spregiudicato che libera la politica dalla dipendenza dalla religione e dalla morale, che fa dell’arte politica una tecnica buona per tutti gli usi. Chi legge anche le pagine, soprattutto l’ultima, in cui Machiavelli parla del principe che non c’è, del principe ideale che manca all’Italia, si accorge che il realismo politico è al servizio di un forte idealismo politico, che la tanto celebrata autonomia della politica non significa affatto cinico abbandono dei doveri morali, bensì la loro assunzione al livello della politica, dell’uomo di Stato.

Moro denuncia, nella prima parte della sua Utopia, il prevalere degli interessi personali sui doveri politici. Parla di sovrani che pensano a ingrandire il loro regno ma non a governarlo bene, ad aumentare le proprie ricchezze ma non al benessere del loro popolo. Parla di consiglieri che pensano solo a favorire i loro sovrani in queste tendenze per trarne profitto in termini personali. Parla, cioè, di politici che non sono all’altezza dei loro compiti istituzionali, che violano le norme della morale comune per tornaconto personale, che si servono dello Stato anziché servirlo.

Il Principe e l’Utopia meritano una lettura congiunta. Scritti negli stessi anni da due grandi campioni dell’umanesimo rinascimentale, ricchi di esperienza politica personale d’alto livello, propongono, con accenti diversi, l’idea della politica come equilibrato intreccio di grandi idealità e di scientifica capacità di misurarsi con la realtà. Separarli o, addirittura, opporli come modelli di teorie politiche alternative significa mutilarli, isolando in uno il realismo e nell’altro l’idealismo, col risultato di avere, da una parte, un realismo cinico e, dall’altra, un idealismo inetto.

Il principe ideale

L’impresa cui è chiamato il principe di Machiavelli è grandiosa. E’ un’impresa di liberazione, come quelle di Mosè, di Ciro e di Teseo.

L’Italia è – scrive Machiavelli nella conclusione de Il Principe – “più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa”. La sua “ruina” è totale, ma è pronta a rialzarsi, “è disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli”: ci vuole un redentore, uno di quegli “uomini rari e maravigliosi” che sanno compiere in condizioni disperate grandi imprese.

I tempi sono maturi: “A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, adunque, la illustre casa vostra[3] questo assunto, con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e sotto li sua auspizii si verifichi quel detto del Petrarca[4]:

Virtù contro a furore

Prenderà l’arme; e fia el combatter corto:

Ché l’antico valore

Nelli italici cor non è ancor morto.”

La virtù del principe può rianimare le virtù assopite del popolo.

Il successo pratico del principe ideale può avviare un circolo virtuoso e riaccendere in animi oppressi da lunga servitù l’antica coscienza del proprio valore.

Siamo agli antipodi del machiavellismo di maniera che riduce la lezione di Machiavelli a realismo amorale e cinico.

La virtù del principe sta nella necessaria felice armonia di alto idealismo e di profondo realismo, nutrito di scienza della natura umana e del corso storico. La virtù politica è la capacità di coniugare idealità e adeguato esercizio del potere. E’ la risposta alla vocazione eccezionale del profeta armato.

L’autonomia della politica di Machiavelli è la capacità di passare dalla prospettiva privata a quella politica, dagli interessi e doveri personali a quelli dell’uomo di Stato. E’ la virtù di chi al servizio dello Stato sa piegare anche la voce della propria coscienza religiosa (Enrico IV, ricordato da Gramsci).

La virtù politica non si riduce, in Machiavelli, alla capacità di conquistare e di mantenere il potere. La scientifica e abile attenzione ai mezzi è parte essenziale della virtù politica, ma non è tutto.

Machiavelli in Utopia

In Utopia è stata estirpata la radice di tutti i mali e di tutti i conflitti sociali: non c’è la proprietà privata e l’oro, l’argento e i diamanti valgono meno del ferro e del legno.

Nell’isola puramente ideale la ragione non incontra gli ostacoli della realtà, si muove per coerenza propria e s’impone con la sua sola forza persuasiva.

C’è posto per Machiavelli e per la sua arte in Utopia?

Contrariamente a quel che suggeriscono il nome “Utopia” e tanti altri nomi propri[5] che Moro conia nuovi dal greco per indicare l’irrealtà dell’isola, c’è del realismo in Utopia, e non solo nella prima parte dell’opera, nella denuncia dei mali dell’Inghilterra e degli interessi meschini che muovono i sovrani e i loro consiglieri.

Moro sa bene che la politica reale non sa che farsene della buona filosofia. Infatti, il protagonista del suo romanzo, Raffaele, che ha molto viaggiato e conosce bene il greco e Platone, di cui ricorda i fallimentari tentativi siracusani, respinge la proposta di mettersi al servizio di monarchi con argomenti molto realistici.

Moro, però, sa altrettanto bene che la buona filosofia politica ha bisogno del potere.

Gli ideali politici della filosofia non hanno buona accoglienza nella pratica politica reale, ma gli ideali politici, anche quelli più alti, hanno bisogno della scienza politica, del realismo machiavellico.

In Utopia c’è bisogno di Machiavelli.

L’isola perfetta e irreale, infatti, ha il problema dei rapporti con i vicini, molto più simili ai popoli reali che a quello irreale di Utopia. Di questi rapporti Moro parla, non a caso, nel capitolo sulla guerra.

Gli Utopiani detestano la guerra ma la praticano “per difendere il proprio territorio, o per ricacciare nemici che abbiano invaso le terre di amici, o per pietà di un popolo oppresso da tirannide, allo scopo di liberarlo con le proprie forze (e lo fanno per filantropia) dall’oppressione e dalla schiavitù”. La fanno anche per punire torti finanziari propri o, più aspramente, dei loro amici. Praticano, cioè, solo guerre giuste, ma si vergognano se le vincono in modo sanguinoso. Disprezzano, quindi, il valor militare ma lo coltivano con esercizi regolari dei loro uomini e delle loro donne. Quando riescono a risolvere i conflitti “con arte o inganno” se ne gloriano.

“Si vantano infatti di aver agito virilmente e valorosamente solo allorquando vincono nella maniera con cui nessun animale potrebbe, eccetto l’uomo, vale a dire con le forze dell’ingegno”.

Giocando su una discutibile etimologia che fa della guerra, bellum in latino, una “cosa veramente belluina”, Moro ammira gli Utopiani che, disprezzandola, la praticano nel modo meno animalesco possibile, mettendo in campo la ragione, l’astuzia, il raggiro, la corruzione dei nemici, la semina di sospetti, discordie, zizzania e faziosità all’interno del campo nemico, l’arte di ottenere con denaro la consegna o l’assassinio dei loro capi.

“Tanto è facile spingere a qualsiasi delitto con regali! A tali regali gli Utopiani non mettono limite”.

Gli Utopiani cercano di evitare la guerra con le armi. Se proprio la devono fare, sono pronti per l’abituale esercizio di preparazione, ma soprattutto cercano di assoldare mercenari e farla combattere da questi. Utopia ha abolito al proprio interno il denaro, ma lo usa all’esterno per evitare con ogni machiavello le guerre giuste o, quando l’astuzia, la frode, la corruzione, le congiure e l’assassinio dei capi nemici non bastano ad evitarle, per farle combattere da mercenari stranieri.


[1] A. Gramsci, La scienza della politica, in Note sul Machiavelli, Editori Riuniti 1996, p.11.

[2] A. Gramsci, Fortuna «pratica» di Machiavelli, in Note sul Machiavelli, Editori Riuniti 1996, p.201.

[3] I Medici

[4] E’ in Italia mia, benché il parlar sia indarno.

[5] Es. Amauroto, cioè città oscura, Anidro, cioè fiume senz’acqua, Acori, cioè gente senza territorio, Nefelogeti, cioè abitatori di nuvole, Alaopoliti, cioè cittadini senza popolo, ma, anche Nusquama, traduzione latina di Utopia, usata in una lettera ad Erasmo del settembre 1516.

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2010-11 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)


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Testi di Machiavelli:

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015