ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


Nascita dell’espressione laica

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Dario Lodi

Rovinismo e Vedutismo sono due espressioni artistiche proprie del Settecento. Nascono da una profonda nostalgia per il mondo antico, tradito dal passare del tempo, ma specialmente dalla furia materialista. A risentirne è particolarmente Roma, spodestata del suo potere a seguito dell’eresia luterana, in realtà, una reazione laica all’egemonia religiosa. Sulla validità del cambiamento si sta tuttora discutendo. Si preferisce il Vedutismo in quanto rammemorazione di un tempo felice nel quale la cultura e il buon gusto aristocratico erano predominanti.

Nel primo Settecento fu molto apprezzata la pittura di Giovanni Paolo Pannini (1691-1765). Piacentino, fu nella cerchia dei Bibbiena per poi approdare a Roma, dove divenne membro dell’Accademia di Francia, frequentandone assiduamente gli artisti. Grande autore d’interni decorativi di chiese e di palazzi (molti andati perduti), ma in particolar modo sceneggiatore di feste, cerimonie, realizzatore di vedute architettoniche reali e di fantasia, nonché pittore vero e proprio delle stesse su commissioni importanti. Notevole visionario, Pannini fu eccezionale nella riproposizione di atmosfere storiche, come si evince da questa “Galleria immaginaria con vedute di Roma antica”, olio su tela, cm. 229x172, anno 1757, Metropolitan Museum, New York.
Enorme successo incontrò l’arte di Giovanni Antonio Canal (il Canaletto, 1697-1768), specialmente in Inghilterra grazie a Joseph Smith, ricchissimo collezionista e console britannico a Venezia dal 1744 al 1760. Le tele di Canaletto – il cui nome si deve quasi certamente alla bassa statura – venivano apprezzate nella città lagunare dagli stranieri, allora quasi esclusivamente inglesi e francesi, giunti in Italia per effettuare il “Gran Tour”, ovvero la visita alle principali città d’arte italiane. Smith venderà, poi, i suoi Canaletto alla Royal Collection. Altro importante collezionista, fra i maggiori del tempo, appassionato del nostro pittore, fu il feldmaresciallo Johann Matthias von Schulenberg, riformatore dell’esercito veneziano. Canaletto fu uno dei grandi illustratori di Venezia. Era stato suo padre, scenografo, a lanciarlo nel mondo della pittura, del vedutismo, pensando più a un’impresa commerciale che artistica. Van Wittel, uno dei padri del vedutismo, Pannini, Luca Carlevarijs, Marco Ricci, furono suoi punti di riferimento, ma la vera formazione di Canaletto avvenne sul campo. Le numerose richieste lo portarono a servirsi della “camera obscura”, una scatola in un punto della quale veniva fatto un forellino, da cui l’artista guardava e metteva sulla tela ciò che vedeva.

Canaletto dipingeva raramente dal vivo, lo aveva fatto sempre e soltanto nei primi tempi. A spingerlo in Inghilterra fu la Guerra di Successione Austriaca (1741-48), causa del diradarsi di visitatori inglesi. Nell’isola britannica lascerà diverse tele ripetitive, ma sempre fresche di colore e straordinarie per accuratezza grafica. Il nostro pittore curò l’effetto esteriore, la bellezza in sé dell’immagine, una bellezza capace di colpire l’osservatore, di stupirlo, di incantarlo. Le sue opere sono statiche, notarili, e sono attraversate da un compiacimento tecnico che non esalta il contenuto.

D’altro, Canaletto intendeva dare di Venezia una rappresentazione celebrativa, non realistica. Qualcosa d’ideale che, infatti, si ritrova nelle riproduzioni minuziose, nelle rese lenticolari, nell’imponenza architettonica, non nelle figure umane, ridotte a presenza casuali, a riempitivi. Il nostro pittore onorò come pochi il fare pittura nel senso stretto della parola, onorò il mestiere, meno l’arte vera e propria.

La prima figura è il “Ponte di Rialto” (uno dei suoi numerosi), cm. 60x46, anno 1727, Ermitage, San Pietroburgo. La seconda riproduce “Piazza San Marco verso la Basilica” (soggetto da lui riproposto molte volte), cm. 204x141, anno 1735, Fogg Art Museum, Cambridge, Massachusetts (Stati Uniti). La terza riguarda “La rotonda di Ranelagh” (Ranelagh era una località presso Dublino) cm. 46x75, anno 1754, National Gallery, Londra. Successivamente, Canaletto fu molto amato e molto detestato. L’equivoco sta, probabilmente, nell’uno e nell’altro caso, nella valutazione fuori di sé delle opere. Se ci fermiamo alla questione formale, l’artista è eccelso; se la trasportiamo nel sostanziale, appare inevitabile il ridimensionamento, tenendo presente la vocazione, assai poco idealistica del pittore. Un superbo esecutore, si potrebbe, infine, dire, di lui.

Di ben altra tempra è la personalità di Francesco Guardi (1712-1793), uno dei maggiori vedutisti di sempre. Alla testimonianza documentaristica, egli aggiunge uno sguardo romantico, languido senza svenevolezze, che dà all’immagine una vitalità insolita, straordinariamente efficace, affascinante, coinvolgente.

Guardi, coglie il dolore per la lenta decadenza della gloriosa repubblica di Venezia (in realtà una pesante oligarchia) – decadenza che avverrà di lì a poco con Napoleone – consegnando alla committenza l’atmosfera di una città unica, quasi sovrannaturale, perché questo miracolo non venga dimenticato. Alla precisione di Canaletto, Guardi oppone l’evocazione, a quella lenticolarità, quest’apparente evanescenza che si fissa nella mente come pensiero ideale, come riflessione su un luogo trasognato e incredibilmente a portata di mano.

Guardi veniva da un ambiente di pittori. Suo padre, Domenico, morto giovane, era un decoratore quotato. La bottega fu portata avanti dal primogenito Gianantonio, presso cui Francesco svolse il suo apprendistato con Capricci e con opere devozionali, ispirandosi al Bencovich e al misterioso Magnasco. Ma poi trovò la propria cifra espressiva lavorando per il governo veneziano, praticamente al servizio della magnificazione di Venezia, e per nobili e borghesi benestanti stranieri, impegnati nel tour artistico di moda in Italia (il “Gran Tour”).

Guardi fu un artista molto prolifico, gli si attribuiscono circa ottocentocinquanta opere. La sua resa dell’ambiente veneziano, carico di storia minuta ben consolidata – e il nostro pittore la fa sentire – va ben oltre il dato architettonico e folkloristico: essa abbraccia, comprende (in tutti i sensi), la questione interpretativa delle figure, trasformandola in questione umana vera e propria.

Guardi mette in campo la propria sensibilità e non esita a concederle trasfigurazioni che risultano, in verità, reinvenzioni ideali della scena. Quest’ultima si amplia, arriva a comprendere emozioni, sentimenti e riconoscimenti nella bellezza nascosta di una visione. Nell’ordine, si propongono: “Gondola sulla Laguna”, 1765, olio sui tela, cm. 38x25, Museo Poldi Pezzoli, Milano, ovvero un autentico capolavoro pittorico. Il dipingere, qui, si fa arte a tutto tondo, espressione mirabile, di suprema bellezza intellettuale e sentimentale. Guardi vi aggiunge un’immensa tenerezza, un amore sincero per un mondo totalmente inventato dall’uomo, sul quale conosce, in modo particolare, la fatica di vivere e trova un profondo senso di vita. Siamo all’olio su tela raffigurante “Il doge sul Bucintoro presso la riva di S. Elena”, 1766, cm. 100x76, Louvre, Parigi. E’ un’opera celebrativa contenente un notevole sguardo d’insieme, dove ogni cosa possiede una propria animazione, un fermento quasi incontrollabile che il pittore insegue e registra appassionatamente, armonizzando il tutto senza ricorrere ad artifici, con semplice e pacata razionalità, non priva di vivace ed entusiastica partecipazione.

Terza figura è l’”Arco fantastico con figure umane”, 1770, olio su tela, cm. 26x39, Accademia Carrara, Bergamo. Il Rovinismo di Guardi ha robusti e fieri riferimenti nostalgici. Vi predomina la fantasia quale fuga dalla banalità e momento di contemplazione di un ricordo ideale fantasticato. La rovina è la crisi di una lunga civiltà di cui Venezia è ultima testimone, quasi fosse Roma rifugiata nelle isole veneziane, con estrema, anche se inutile, speranza di resistere, che qualcosa rimanga. Quarta immagine è un olio su tela relativo alla “Veduta del Canal Grande con le isole di S. Simone Piccolo e S. Maria di Nazareth”, anno 1780, cm. 48x78, Collezione Thyssen-Bornemisza, Madrid. Trepido è lo sguardo sul Canal Grande che sembra aprirsi sul tutto: lo fa da sé, il pittore, che sembra dipingere dal fondo verso un delta incontenibile di osservazioni, segue l’impresa con sereno trasporto.

Quarto grande vedutista è Bernardo Bellotto (1721-1780) anch’egli veneziano. Dotatissimo nel disegno, era nipote del Canaletto, grazie ai suggerimenti del quale, nel 1742, si recò a Roma, per digrossare il proprio talento. Bellotto fu poi in Lombardia e a Torino, dove lavorò per la Corte Sabauda. Ma la sua personalità si definì a Dresda, chiamato da Augusto III Elettore di Sassonia. Maria Teresa d’Austria lo volle a Vienna. Dopo cinque anni, il nostro pittore tornò a Dresda, divenendo, nel 1764, il principale pittore della città. Ma stava arrivando l’arte neoclassica, che Bellotto non gradiva: infatti egli decise di recarsi a Varsavia, allora fra le più belle e accoglienti città d’Europa, dove morì. Particolare non certo insignificante, Varsavia fu ricostruita, dopo la seconda guerra mondiale, rifacendosi ai disegni e alle tele (ventisei vedute) di Bellotto: il quale fu un eccellente verista, capace di rese, nitide, fotografiche della realtà. La sua pittura è un’autentica gioia per gli occhi. Nella foto, “Campo Santi Giovanni e Paolo a Venezia”, 1745, cm. 191x119, olio su tela, National Gallery of Art, Washington, USA.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019