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Nascita
dell’espressione laica
I - II -
III - IV
Dario Lodi
I dipinti di Van Dyck, artista sommo operante in Inghilterra ad altissimi
livelli durante il Barocco, fecero nascere una nuova genia di pittori inglesi.
Era imitazione dello stile e competizione nei risultati. L’isola godeva di un
certo benessere, ovviamente presso i ceti dominanti, portato dalle imprese
transoceaniche. L’Inghilterra stava conquistando mercati ovunque, avendo
spezzato l’egemonia commerciale olandese e fiaccate quella spagnola e
portoghese. Solo la francese resisteva, ma non c’era confronto. Era tempo di
avere rappresentazioni testimoniali di tanto successo, uguali, se non superiori,
a quelle continentali.
Tuttavia, gli Inglesi erano gente pratica, giovane: la composizione sociale era
stata arricchita dagli eventi europei causati dalle Guerre di religione. Molti
protestanti, tedeschi, olandesi, francesi, si erano rifugiati nell’isola,
accolti amichevolmente, portando con sé le esperienze materiali assunte in
patria, utilissime nelle future transazioni commerciali isolane. Con esse anche
la sensibilità artistica avanzata, recepita, a Londra, nell’immediatezza della
resa estetica: all’artista locale, non restavano, quindi, molte possibilità di
approfondimento.
Esemplare è l’opera di William Hogarth (1697-1764) arguto
pittore e incisore (come secondo è forse più efficace) londinese. E’
noto per le caricature della borghesia del tempo, quella arrivista,
arruffona, sostanzialmente incapace di sollevarsi dalla propria
condizione ma invidiosa di quelle superiori e pronta, grossolanamente, a
vendersi l’anima pur di poter alzare un poco la testa. Hogarth era
sostanzialmente un moralista e come tale sviluppò dei temi suddivisi,
generalmente, in sei tele, praticamente delle storie edificanti,
vivificate da sapide ironie (ad esempio, “La carriera di un libertino”,
“Il matrimonio alla moda”, “La carriera di una prostituta”, “Quattro
scene elettorali”). In molte opere si ispirò al teatro, grazie alla
stima e all’amicizia del più grande attore del tempo, David Garrick, suo
affezionato cliente. Hogarth fu anche pittore storico e religioso (nel
secondo caso in modo molto tradizionale). Lasciò uno scritto, una sorta
di autobiografia, in cui lamenta la scarsa considerazione nei suoi
confronti. Gli antagonisti lo definivano, infatti, artista di fumetti.
Il Nostro finì con il divenire pittore del re, di Giorgio III, facendo
un salto sociale (lui, contrario all’arrivismo), ma era ormai vecchio e
malato, nonché inviso alla società che aveva ridicolizzato per tutta la
vita. Hogarth, tecnicamente superbo, sapeva cogliere l’essenza della
satira, soffermandosi su particolari ed evidenziandoli a modo suo, con
una punta di cattiveria velenosa.
Fu il primo vero pittore inglese e il primo artista inglese ad avere
successo anche nel continente. Qui si vedono: “La compagnia dei
becchini”, anno 1736, incisione cm. 26x17,6 e “Bambini Graham”, anno
1742, olio su tela cm. 160,5x181. Entrambe le opere sono alla National
Gallery di Londra, la prima nella sezione Portraits. “La compagnia dei
becchini” (nota in altro modo, ma questo è originale, voluto
dall’autore) è una satira furiosa contro i medici. I “Bambini Graham” è
un’opera alla moda ma Hogarth non si limita a una ritrattistica
convenzionale, bensì anima il quadro come nessuno di tanti suoi
presuntuosi colleghi. I soggetti sono colti nella loro naturalezza ed
esposti con gioia istintiva, con spontaneità. |

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Votato alla riproduzione precisa, quasi una sfida a madre natura, è
Thomas Gainsborough (1727-1788). Era nato nel Suffolk, non
lontano da Londra e fu presto attivo come paesaggista, sull’onda della
pittura olandese di genere. Ma si realizzò con il ritratto, avvalendosi
di una tecnica raffinata. Questa tecnica lo portò a una certa rigidità
che l’artista cercò di superare razionalmente. L’intervento umano – che
lui non amava – nella realtà è avvertibile, ma poco influente.
Nell’insieme, e generalmente, l’opera di Gainsborough appare indecisa
fra un realismo neutro (oggi si direbbe resa fotografica) e
un’interpretazione del vero. Vince la celebrazione del soggetto, anche
per esigenze della committenza. Il nostro pittore semina della poesia a
caso, preferendo la più sicura riproduzione fedele, determinata a priori
e inerte, al di fuori di una buona rappresentatività formale. Si veda
questo “Coniugi Andrews”, anno 1750 circa, olio su tela cm. 69,8x179,4,
National Gallery, Londra. Una curiosità: l’albero in fondo è stato
identificato ed esiste tuttora. Questi coniugi erano proprietari
terrieri, inevitabile la posa tradizionale, alla quale, infine,
Gainsborough si prestò senza fiatare, aggiungendo però, una cosa sua:
l’ambiente suggestivo. |
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Joshua Reynolds (1723-1797) è più deciso di Gainsborough
nell’idealizzazione dei personaggi, non tanto per renderli miti moderni,
quanto per ricavare da essi, e soprattutto dalle loro vicende, esempi di
vita. Reynolds è il cantore delle difficoltà borghesi, della nuova
marcia che l’umanità cerca di imprimere alla storia con le proprie sole
forze, senza aiuti celesti né monarchici. Finita è l’era del padre da
cui discende tutto: questa figura può permanere nell’immaginario più
riposto, da cui è difficile toglierla, ma all’atto pratico – perché
pratica è ormai l’esistenza dell’Europa uscita dalle Guerre di religione
(in realtà, non lo si ripeterà mai abbastanza, confronti per la
divisione delle spoglie imperiali) – essa non è più condizionante in
assoluto.
Il nostro pittore coglie tutto questo con un’ammirazione che si
spande e che va oltre la contingenza: le sue immagini non sono
celebrative del momento, ma celebrano un’emancipazione inaspettata,
sottolineando la fatica per il conseguimento di un forse misero
risultato. Lo dimostra alla perfezione il “Ritratto di George Heathfield”,
un condottiero di mille battaglie, non tutte felici. Il quadro, olio su
tela, è del 1787, misura cm. 142x113,5, National Gallery, Londra. Mentre
il “Ritratto del principe Omai”, anno 1776 circa, olio su tela cm.
236x145,5, Collezione privata, è una specie di recupero della classicità
più originale. Il principe era un polinesiano condotto a Londra dal
capitano James Cook come un trofeo e un’attrazione. Rimase alla corte di
re Giorgio III d’Inghilterra per tre anni, destando curiosità e
meraviglia. Il nostro pittore fu fra i pochi a umanizzarlo, dipingendolo
dopo averlo sistemato nella stessa posa dell’Apollo del Belvedere.
Reynolds affinò la sua arte studiando a lungo lo stile di Van Dyck e,
recatosi a Roma e a Venezia, perdendo giornate intere sulle opere di
Raffaello, Michelangelo e Tiziano.
Divenne il pittore di ritratti, molto ricercati dalle classe medio
borghesi, più caro di Londra, anche se lui non amava per niente il
genere. Aveva una ricetta per la realizzazione di buoni lavori:
invenzione, espressione, colorito, drappeggio. Capacità e personalità
gli valsero numerosi riconoscimenti e gli permisero la fondazione (con
altri) della Royal Academy of Arts. Ma infine fu di più di un pittore
alla moda, inserendo nei suoi soggetti quel senso profondo e diretto di
umanità che fu fra gli sproni del tempo per la maturazione della civiltà
e della cultura laiche. |

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Di sicuro interesse è la pittura di Joseph Wright (1734-1797)
quando è indirizzata, e lo è molto spesso, alle speculazioni
scientifiche di quegli anni che vedevano l’affermarsi dell’Illuminismo.
Wright era di Derby (è, infatti, conosciuto anche come Joseph Wright of
Derby), al centro dell’Inghilterra, e lì rimase per tutta la vita. La
sua è una pittura dove la luce, come eccitazione improvvisa che si
spande tutt’intorno, è determinante. Questa determinazione svolge il
compito di rivelare adeguatamente la portata della rivoluzione
scientifica in atto. Il nostro pittore fu ottimo ritrattista, molto
attento ai dettagli. La sua arte non è conseguenza di scuole
continentali, bensì è talento messo a frutto da una rigorosa
applicazione e da un’abilità osservativa delle opere di Van Dyck e dei
suoi imitatori inglesi (tutti quanti in qualche modo debitori a
Caravaggio). Sua è una quasi fanciullesca ammirazione per le conquiste
della mentalità illuministica. Qui abbiamo “Filosofo tiene una lezione
sul planetario”, anno 1766, olio su tela cm. 147x203, Museum and Art
Gallery di Derby. Va detto che Wright era anche un appassionato di
alchimia (persino Kant lo era), concepita, nel suo caso, come mezzo per
arrivare più velocemente alla verità, dopo il placet della scienza però. |
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George Romney (1734-1802) fu invece fra i precursori del
romanticismo (era molto amico dello scultore John Flaxman, neoclassico,
e del poeta ampolloso William Hayley). Viveva di ritratti, ma agli
stessi cercava di dare una sensibilità insolita, un sentimentalismo
marcato, sovente lezioso, zuccherino che tanto piaceva ai committenti
borghesi. Romney, del Lancashire, una contea a nord-ovest
dell’Inghilterra, non lontana dalla Scozia, operò nel nord dell’isola e
a Londra. Fu in Italia fra il 1773 e il 1775. Da rilevare è questo suo
autoritratto, anno 1782, cm. 55x45, National Gallery, Portraits, Londra.
La maggior parte delle opere di Romney è presso collezionisti americani.
L’autoritratto è un‘immagine vera, piena di carattere, sicura di sé.
Guarda il fruitore quasi con aria di sfida. Ma forse è una sfida verso
il mondo, questo mondo abituato all’oblio. |
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I tedeschi non uscirono bene dal confronto con Carlo V, nel senso che dopo la
pace di Vestfalia (1648) tramontò la loro preminenza nella tematica imperiale:
fu definitivamente stracciata la Bolla d’oro del 1356 con la quale si erano
stabiliti i Grandi Elettori dell’imperatore. L’idea di impero non finì, ma
divenne laica, di fatto una sostituzione pratica, dichiaratamente non certo
ideale come era stata quella dal Medioevo sino al Rinascimento. In Germania,
frammentata come mai, sorse l’astro della Prussia, guidata da Federico II il
Grande, che presto cercò di inglobare i territori tedeschi, contendendoli
all’Austria. In buona sostanza, i principi tedeschi che avevano appoggiato
Lutero ritrovarono le proprie terre ulteriormente suddivise in piccoli stati
dove vigeva una sorta di monarchia assoluta, simile a quella francese. Privi di
sbocchi di crescita (solo la Prussia li troverà, con l’aiuto insperato anche di
Napoleone – con la confederazione degli stati tedeschi – sino all’unificazione
avvenuta a Versailles nel 1871). Questa privazione, favorirà l’approfondimento
di studi scientifici e filosofici: una preparazione all’egemonia sull’Europa
continentale, contrastata, praticamente, solo dalla Francia e, recentemente,
controllata dagli Stati Uniti.
Fra i pionieri degli approfondimenti scientifici, appare la figura
di una donna, Maria Sybilla Merian (1647-1717). E’ una figura
straordinariamente suggestiva. Si presenta sulla ribalta artistica e
scientifica (un connubio insolito) circa mezzo secolo dopo Cartesio e
con i suoi interventi praticamente demolisce un credo del filosofo
francese: gli animali, insetti compresi, non sono cose come egli
predicava (“res extensa” ne diceva, in opposizione a “res cogitans”
riservata al genere umano: per la verità, il Nostro voleva mettere in
risalto la personalità dell’uomo e facendolo si disinteressava del
resto: a questo punto, avrebbe potuto risparmiarsi definizioni per ciò
cui non teneva e quindi non studiava). Presso il popolo, poi, l’insetto
era considerata una bestia diabolica. Se ne conosceva poco la vita
(salvo i rari eruditi). La Merian fu una studiosa sul campo della natura
e si specializzò nella metamorfosi dei bruchi, scoprendone diversi tipi.
Si separò dal marito e con la figlia si recò, ospite, nel castello di
Waltha, nei Paesi Bassi, il cui proprietario era governatore olandese
del Suriname (America del Sud). Vi andò a sue spese, nonostante le
enormi difficoltà del tempo per quanto riguarda viaggi del genere (mai
promossi da una donna) sempre seguita dalle figlie Johanna e Dorothea,
sue ottime collaboratrici, e ne ritornò licenziando un libro che è un
autentico capolavoro: “Metamorfosi degli insetti del Suriname”, anno
1705. Qui si riproduce una tavola dello stesso. Si noterà l’importanza
scientifica dell’osservazione, ma anche quella estetica, che rivela un
grande amore per tutto ciò che anima il mondo. |
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Quanto fosse importante per i tedeschi il patrimonio artistico
italiano, è confermato da questo dipinto intitolato “Tribuna degli
Uffizi”, anno 1776 circa, olio su tela, cm. 313,7x393,7, Royal
Collection, Londra. Johann Joseph Zoffany (1733-1810), di
Francoforte, lo realizzò nel corso di una sua visita a Firenze su
incarico della regina Carlotta, moglie di Giorgio III d’Inghilterra.
Zoffany lavorò, infatti, principalmente a Londra, dove s’era recato, da
Ratisbona (con breve intervallo a Roma) come decoratore di quadranti
d’orologio e pittore di tendaggi. Fu amico del famoso attore David
Garrick e suo ospite per qualche tempo, divenendo anche pittore di
soggetti teatrali. Maria Teresa d’Austria lo volle a Vienna, dove gli
commissionò alcune opere e lo fece barone del Sacro Romano Impero.
Soggiornò per qualche tempo nelle Indie Orientali (nel 1783) rientrando
in Inghilterra nel 1789 e morendovi qualche anno dopo. Una pittura
decorativa la sua, molto curata nei dettagli, spettacolare in sé. |
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Altro tedesco attivo altrove, specialmente in Italia, fu Jakob
Philipp Hackert (1737-1807). Giunse nella Penisola nel 1768
stabilendosi a Roma come pittore di paesaggio. Fu al servizio di papa
Pio VI e della zarina Caterina la Grande. Nella capitale romana decorò
il Salone del Lanfranco del casino nobile di Villa Borghese e nel 1780
realizzò “Dieci vedute della casa di campagna di Orazio”. Nel 1786
divenne pittore di corte di Ferdinando IV di Napoli, per il quale, fra
l’altro, immortalò la Reggia di Caserta. Poco prima dell’avvento della
Repubblica Partenopea, nel 1799, fuggì in Toscana, nei pressi di
Firenze, vivendo di committenze private. Si propone un piccolo quadro a
olio su tela, “veduta del tempio di Minerva Medica”, anno 1780 circa,
cm. 48,5x65, Collezione privata. Quella di Hackert è una pittura pacata,
dalla quale spicca una devozione sincera per la grandezza romana, per
quella civiltà esemplare che dorme sotto le rovine sogni gloriosi, non
dimenticati perché indimenticabili. Notevole la passione trattenuta,
come atto dovuto, nel tramandare il ricordo. |
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Anche Johann Heinrich Wilhelm Tischbein (1751-1829) fu in
Italia, e ben due volte grazie a borse di studio, la seconda, nel 1783,
ottenuta per interessamento di Goethe, di cui fu amico, e che immortalò
nel quadro qui riprodotto (“Goethe nella campagna romana”). E’ un olio
su tela cm. 165x206, anno 1787, ed è custodito dallo Städelsches
Kunstinstitut di Francoforte. Divenne da subito il simbolo per
eccellenza del “Grand Tour”, itinerario italiano indispensabile per ogni
intellettuale europeo. Tischbein praticò lo stile rococò, il classico,
il romantico, il neoclassico, finendo con lo sposare l’ultimo nei suoi
quadri storici alla David. Ma con ogni probabilità è lo spirito
romantico che più gli si addice. Il nostro pittore aveva conosciuto il
movimento dello “Sturm un Drang”, fra i padri del lungo periodo
romantico in antitesi al positivismo determinato dalla rivoluzione
industriale. Che avesse propensione per un certo languore, Tischbein lo
dimostra bene proprio in quest’opera che vede Goethe adagiato nella
campagna di una Roma moderna che in realtà richiama, con nostalgia,
quella antica. Il poeta è come inebriato della possibilità di
abbracciare entrambe, la prima come prova di un arrivo, la seconda come
comprensione di una storia importante che a sua volta riconosce la
grandezza di chi la comprende. Tischbein fuggì anche lui da Napoli, dove
era divenuto direttore dell’Accademia locale, all’arrivo della
repubblica francese e trovò rifugio presso il Duca di Oldenburg a Eutin,
nel nord della Germania e qui rimase sino alla fine dei suoi giorni. |
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La pittura olandese del Settecento è una continuazione virtuosistica di
quella del secolo d’oro. Si moltiplicano le Nature morte, soprattutto fiori, ma
vengono presentate anche figurazioni nuove. L’esecuzione è sempre di alto
livello tecnico. Più che il caravaggismo, si manifesta la precisione del
disegno, spesso complicato, articolato, eppure reso con la massima chiarezza e
con senso di spettacolarità esemplare. L’abilità esecutiva è sovente
impressionante. Essendo opere rappresentative, destinate a case
piccolo-borghesi, non c’è preoccupazione concettuale. L’opera deve decorare la
casa, non ha altra funzione. La società olandese è ormai pratica, esige la
propria consacrazione.
Sono stati scelti tre artisti fra i molti del periodo: Van de Velde il
Giovane, van Wittel e Jan van Huysum della rinomata famiglia omonima.
Willem van de Velde il Giovane (1633-1707), di Leida, si
specializzò, come il padre (mentre il fratello Adraien si occupò di
paesaggi e di figure animali), in vedute navali, a celebrazione del
potere della marina di quei tempi. E in particolar modo della marina
inglese, dato che il nostro pittore fu per anni al servizio del re Carlo
II, ottenendo un appartamento a Westminster, il più prestigioso
quartiere londinese, dove infine morì. Van de Velde il Giovane era un
conoscitore di cose navali e marine, essendo stato su imbarcazioni come
disegnatore di imprese nautiche e persino di scontri marittimi. Non
siamo di fronte a qualcosa di didattico: i suoi dipinti sono ricchi di
atmosfere affascinanti, fanno sentire il clima atmosferico, si
soffermano sulla forza potenziale che fa apparire imponente,
onnipotente. Il quadro qui proposto è particolarmente intrigante. Ritrae
la “Partenza della nave Royal Price della flotta inglese”, si può
aggiungere alla volta di un episodio della seconda guerra
anglo-olandese. L’opera è datata 1666, olio su tela, cm. 72x104, ed è
custodita dal Rijkmuseum di Amsterdam. |
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Gaspar van Wittel (1657-1736) è considerato il precursore del
Vedutismo. Era di Amersfoort, presso Utrecht, e, dopo il classico
apprendistato in patria, si trasferì a Roma nel 1674 e sempre vi rimase,
tranne qualche periodo a Venezia, Bologna, in Lombardia e a Napoli,
ospite del vicerè spagnolo. Fu naturalizzato italiano e assunse il nome
di Gaspare Vanvitelli. Fu anche soprannominato “Gaspare dagli occhiali”
. A Roma era conteso dalle famiglie patrizie. Per i Colonna realizzò
cinquantacinque vedute del palazzo omonimo. Nel 1711 entrò, per
acclamazione, nell’Accademia di San Luca. La sua pittura è
principalmente documentaristica. Questo carattere deriva dal primo
compito che Vanvitelli svolse a Roma: la rilevazione topografica,
tramite il disegno colorato, del corso del Tevere. Il pittore si avvalse
della “scatola ottica” già in uso in Olanda da tempo (servirà poi anche
a Canaletto). La “scatola”, unita ovviamente al talento dell’artista,
gli consentì la realizzazione di vedute spettacolari che vivono di luce
propria, risultando come cristallizzate in una visione senza tempo, in
un documento per l’eternità. Talune presentano toni fiabeschi, come
questo “Quirinale” anno 1682 (?), olio su tela cm. 265x472, Musei
Capitolini, Roma. La Reggia di Caserta custodisce, invece, la maggior
parte dei suoi disegni. Gaspare Vanvitelli licenziò numerose opere,
custodite in varie pinacoteche, musei e in parecchie collezioni private. |
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Jan van Huysum (1682-1749) fu forse il maggior pittore
olandese di soggetti floreali e di nature morte, nella scia di Rachel
Ruysch. A ogni quadro di fiori faceva corrispondere un quadro di frutta,
ma non mancava di mettere insieme i due soggetti. Era estremamente
meticoloso. Una volta pregò un committente di aspettare ancora,
nonostante l’enorme ritardo di consegna, perché una rosa gialla non gli
veniva come avrebbe voluto. Ebbe committenti importanti e clienti molto
esigenti, fra cui il grande intellettuale Horace Walpole. Jan era
gelosissimo delle sue miscele che, infatti, non rivelava neppure ai
fratelli, suoi concorrenti, peraltro. Stava ore a osservare la natura
del giardino di casa, ricavando continuamente spunti per le sue opere.
Si tratta di quadri nei quali i colori sembrano esplodere, pur essendo
trattenuti da disegni nitidi, distinti, precisi, veri e trasognati allo
stesso tempo. La pittura di Jan era molto richiesta e assai ben pagata.
Comprende anche paesaggi di piccolo formato che sono dei veri miracoli
di virtuosismo, tipici della scuola olandese e fiamminga. Si riproduce
una “Natura morta con fiori e frutti”, anno 1715, olio su tavola cm.
78,7x61,3, National Gallery, Washington. |
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