LA DISPERAZIONE DI ECUBA

LA DISPERAZIONE DI ECUBA


I

Generalmente nelle tragedie greche, la cui trama doveva svolgersi nell'arco di una giornata e in un unico atto, il prologo aveva la funzione di far ricordare al pubblico quanto era accaduto nei mesi o nei giorni precedenti. Questo affinché ci si potesse lasciare coinvolgere al massimo.

Qui il momento del prologo viene fatto gestire da uno spettro, quello di Polidoro, figlio di Priamo, re di Ilio (Troia), e di Ecuba. Poco prima che la città venisse espugnata dagli Achei, Priamo aveva affidato questo figlio, il suo più piccolo, alle cure di Polimestore, re del Chersoneso, marito di Ilione, una delle figlie di Priamo, affinché potesse continuarne la stirpe, e gli aveva dato un forziere d'oro. Ma quando Troia cadde e Priamo fu ucciso da Neottolemo, figlio di Achille, Polimestore uccise Polidoro, gettandolo in mare, per impadronirsi del suo tesoro. Questi sono gli antecedenti che il pubblico teatrale di Atene doveva già conoscere.

Il fantasma si sta lamentando che il suo corpo non ha ricevuto alcuna sepoltura. Sono tre giorni che si libra nell'aria: gli stessi giorni che Ecuba sta passando come schiava di Ulisse nel campo degli Achei reduci da Troia, sul lido del Chersoneso trace. L'esercito si è fermato qui perché un altro fantasma è apparso, quello di Achille, che, sopra la sua tomba, reclama un sacrificio, quello di Polissena, una delle sorelle di Polidoro, causa principale della morte del grande eroe greco.

Ovviamente tale spiegazione mistica andrebbe interpretata, non per ricercare un suo fondamento realistico, ma per capire il motivo per cui si usava il misticismo per giustificare alcune azioni o decisioni. In tal senso non è da escludere che la richiesta d'immolare Polissena non poteva essere attribuita direttamente a Neottolemo, che, essendo figlio di Achille, non avrebbe potuto sottrarsi all'accusa di avere un interesse personale (nella fattispecie quello di vendicarsi di colei che, col suo spregevole inganno, aveva portato Achille a morire). Accusa che non a caso fu ritorta contro l'altro partito dell'armata capeggiato da Agamennone, già avverso ad Achille e che evidentemente non lo riteneva così meritevole d'essere ricordato, visto che aveva fatto una fine su cui sarebbe stato meglio soprassedere.

La tragedia vuole appunto mostrare che il sacrificio di Polissena fu determinato da una sorta di "volontà superiore", nei confronti della quale nessuno avrebbe potuto opporsi. E' il modo fantasioso, a-razionale, che hanno i Greci di attribuire il senso di certi eventi incresciosi o inspiegabili al fato o alla volontà degli dèi.

L'Ecuba di Euripide è una tragedia abbastanza strana, perché, pur essendo piena di aspetti che oggi considereremmo fantasiosi, mistici, superstiziosi, contiene aspetti chiaramente favorevoli a una visione disincantata della vita, al punto che nell'insieme questi sembrano addirittura prevalere. Anche perché le convinzioni di tipo religioso vengono intrecciate continuamente ad atteggiamenti che di religioso non hanno nulla, essendo anzi piuttosto cruenti e determinati da odio e risentimento.

Si fa fatica a capire il vero messaggio sotteso a questa tragedia. Dov'è infatti la giustizia se Ecuba, dopo averla ottenuta, è destinata a suicidarsi e a trasformarsi in un orribile cagna? Dove sono i personaggi "positivi" di questa tragedia? Polidoro appare solo come uno spettro, piangendo la sua mancata sepoltura, e poi scompare dalla scena sino alla fine. Più significativa è la sorella di lui, Polissena, che affronta il proprio olocausto con grande dignità, lei che però aveva scelto di diventare l'amante di Achille pur di carpirgli, fingendo d'amarlo, il segreto della sua invulnerabilità. Agamennone, che pur a tratti appare giusto, non fa molto per impedire il sacrificio di Polissena, e comunque anche a lui lo squallido Polimestore predice una fine tristissima.

Polimestore è il "cattivo" di turno, eppure è in grado di profetizzare eventi che puntualmente, nel mito, si avvereranno. Uno riguarda la stessa Ecuba, che, pur essendo prostrata dal dolore per la distruzione della sua città e la perdita dei suoi 19 figli, è in grado di attuare una terribile vendetta.

Si ha insomma l'impressione che in questa tragedia Euripide, in realtà, non voglia salvare nessuno, ma che abbia scelto di raccontare una storia solo allo scopo di mostrare che in ogni essere umano, anche di rango elevato, vi sono aspetti di cui sarebbe meglio vergognarsi.

Forse il personaggio che appare meno contraddittorio è Ulisse, ma proprio perché egli rappresenta la ragion di stato, colui che non può tener conto di alcun aspetto personale quando sono in gioco gli interessi dei potenti cui ci si sente di appartenere.

II

Troia è stata distrutta da tre giorni e gli Achei sono in attesa di tornare a casa con le loro navi. I venti però non lo permettono. Polidoro non si lamenta soltanto d'essere stato ucciso da Polimestore subito dopo la rovina della città, al solo scopo d'impadronirsi del suo tesoro, e del fatto che il suo corpo è stato buttato in mare come un rifiuto qualsiasi, ma anticipa anche una nuova imminente tragedia: il sacrificio di Polissena, colei che, attraverso l'aiuto di Paride, suo fratello, era riuscita a eliminare Achille.

Polissena aveva assistito, senza essere vista, all'omicidio preterintenzionale di suo fratello Troilo, nel tempio di Apollo-Timbreo, dove si era rifugiato perché inseguito da Achille, che si era innamorato di lui, essendo un bi-sessuale. L'aveva abbracciato con tale foga da rompergli il torace. Troilo era il più giovane dei figli di Priamo e, secondo un oracolo, Troia non sarebbe mai caduta se lui avesse raggiunto i vent'anni: fu però ucciso all'inizio della guerra.

Polissena aveva giurato di vendicarsi e l'occasione buona venne quando Achille, per la restituzione a Priamo del corpo di Ettore, aveva preteso in oro l'equivalente del peso del cadavere. Siccome non si riusciva a trovarne abbastanza, Polissena decise di mettere anche se stessa sulla bilancia, convincendo Achille ad accettare. Persino i genitori di lei la lasciarono fare, convinti che si fosse davvero innamorata dell'eroe greco. D'altra parte Achille aveva promesso che l'avrebbe trattata non come una schiava ma come una regina, tant'è che Polissena pretese di sposarsi nello stesso tempio in cui era stato ucciso suo fratello e dove appunto Paride riuscirà a scoccare la freccia avvelenata nel tallone d'Achille.

Ovviamente anche il mito di Polissena, e non solo il suo sacrificio, andrebbe interpretato. Dietro può esserci stata la scoperta, ch'essa aveva fatto in qualità di amante, che la personalità machista di Achille era in realtà un colossale bluff, ovvero che la sua ostentata forza muscolare, il suo smisurato ego narcisista, altro non era che una maschera per nascondere i propri traumi interiori, di natura prevalentemente sessuale o identitaria.

Che Achille fosse un bi-sessuale lo si comprende anche dal fatto che la madre Teti, scoppiata la guerra di Troia, l'aveva nascosto facendogli portare abiti femminili. Il mito poi lo trasformò in eroe invincibile per sottrarlo a questa nomea poco onorevole. Quindi, se egli è esistito, non è stato una creatura di Omero, bensì di una madre possessiva, autoritaria, le cui pretese favorirono nel figlio una sorta di "ansia da prestazione" e quindi il sorgere di disturbi psicologici, di una forma di disadattamento sociale, che si manifestava chiaramente non solo in una ambigua identità sessuale, ma anche nel modo particolarmente permaloso e facile agli scoppi d'ira di reagire alle questioni di carattere affettivo o erotico: cosa che rendeva l'eroe greco assai poco adatto a diventare un personaggio politicamente di rilievo. Non a caso egli si era ritirato dalla guerra perché Agamennone gli aveva sottratto la schiava Briseide e la riprende quando i Troiani gli uccisero l'amante Patroclo.

Una variante del mito sostiene che Polissena stava addirittura preparando il passaggio di Achille dalla parte dei Troiani.

III

Entra in scena Ecuba, fatta schiava da Ulisse dopo la fine di Troia. Dice di aver avuto dei sogni molto strani sui suoi due figli, Polidoro e Polissena, che l'hanno turbata, ma non riesce a capirli.

Il coro, formato da 15 prigioniere troiane, spiega a Ecuba la nuova situazione che nel campo degli Achei si è venuta a creare. Una parte dell'armata (i figli di Teseo, "virgulti d'Atene") vuole il sacrificio di Polissena per onorare la tomba di Achille; l'altra parte invece, capeggiata da Agamennone, è contraria, ma viene accusata di esserlo solo per motivi personali, in quanto Agamennone si è preso come schiava una sorella di Polissena, Cassandra.

Poiché la diatriba si trascinava per le lunghe, aveva deciso d'intervenire "il demagogo astuto, suasivo, lo scaltro figlio di Laerte", cioè Odisseo, capace di convincere tutti a credere che un eroe così straordinario come Achille meritava un favore assolutamente speciale, relativo al fatto che il soggetto da sacrificare era lo stesso che aveva causato la sua morte ingloriosa, e tutti sapevano quanto Achille fosse suscettibile quando erano in gioco i suoi interessi personali connessi all'affettività: la controversia tra lui e Agamennone per Briseide nessuno poteva certo dimenticarla.

A Ecuba quindi non resta che rivolgersi ad Agamennone. Prima però rivela a Polissena il suo imminente destino e, non senza stupore, deve constatare che la figlia pare accettarlo con molta dignità, in quanto preferisce morire piuttosto che vivere da schiava. Polissena è quasi più preoccupata della nuova sventura che capiterà alla già affranta madre.

Qui bisogna considerare che per il mondo greco un sacrificio volontario del genere non comportava alcun premio ultraterreno. Si accettava l'autoimmolazione come valore in sé, come alternativa a una vita indegna. Per il resto tutti erano convinti di finire nell'Ade: "fra i morti, negli inferi, meschina giacerò", dice in tutta tranquillità la giovane Polissena.

A rivelare la decisione assembleare a Ecuba è lo stesso Ulisse, che usa un tono categorico, quasi burocratico, mettendo la donna di fronte al fatto compiuto. La freddezza di questo eroe è notevole. Per scioglierla un po' Ecuba gli ricorda quando, negli anni passati, era venuto a spiare Troia nella sua vita quotidiana, "malmesso, brutto", pensando di farla franca. Ma Elena lo riconobbe e lo segnalò proprio a lei, moglie di Priamo. E Ulisse, per aver salva la vita, la implorò così tanto di lasciarlo andare che alla fine lei acconsentì. E ora che le parti si sono invertite, Ecuba non può fare a meno di sottolineare l'ingratitudine di lui.

A Ecuba pare una mostruosità credere che Achille voglia sacrificare chi l'uccise, anche perché la vera colpevole di tutto, di tutta la guerra, non fu certo Polissena, bensì Elena. Per questo è ancora convinta che Ulisse, se vuole, può convincere l'esercito a non chiedere il sacrificio della figlia, che per lei è tutto: "patria, nutrice, bastone e guida". Lo supplica a più riprese di farlo, ma Ulisse resta irremovibile: terrà in vita Ecuba in cambio del favore che gli aveva concesso quando lui era in pericolo di morte, ma non farà nulla per opporsi al volere dell'assemblea. Per lui è una questione di principio che un grande eroe come Achille ottenga un grande onore: ciò è un incentivo per ogni militare di morire per un ideale. E chi non comprende l'importanza di questo sacrificio è un "barbaro", glielo dice chiaramente.

Ulisse non vuol far vedere a Ecuba d'essere insensibile al suo dolore di madre: semplicemente le ricorda che in 10 anni di guerra anche tante donne greche erano rimaste vedove dei loro "sposi valorosi, sepolti sotto le zolle di Troia". Fare un sacrificio umano sulla tomba del più valoroso di tutti è come fare, simbolicamente, un sacrificio per tutti.

D'altro canto la stessa Polissena si guarda bene dal chiedere la grazia, anzi, spinge Ulisse ad affrettare il momento dell'olocausto (che poi ha più il sapore di una sentenza capitale), poiché teme, nel caso in cui ciò non avvenga, di dover vivere una vita assolutamente indegna per lei, figlia del re dei Frigi, regina fra le donne dell'Ida, "mortale, sì, ma per il resto dea". Il vanto di un alto lignaggio, l'orgoglio di un'origine illustre le fa percepire come una tortura un'esistenza senza onore. Una donna qualunque - in questa concezione aristocratica della vita - non avrebbe neppure motivo di autoimmolarsi, proprio perché il suo sacrificio non verrebbe percepito dalla cittadinanza come una cosa straordinaria. Qui Polissena vuol far vedere che si piega al verdetto con fierezza, quasi a dimostrare che la sentenza viene incontro ai suoi interessi di donna nobile, confermando la sua concezione elitaria della vita.

Al sentirla, Ecuba si preoccupa, perché vede che deve contrastare non solo il senso dell'onore degli Achei, ma anche quello di sua figlia, per cui decide di fare a Ulisse un'ultima proposta: siccome Achille era stato ucciso da Paride, sarebbe più giusto sacrificare la madre che l'aveva partorito che non la sorella. Ma Ulisse resta di ghiaccio: "lo spettro d'Achille ha chiesto di uccidere lei", le dice.

Disperata, Ecuba chiede d'essere sacrificata insieme alla figlia. All'ennesimo rifiuto di Ulisse, il dialogo tra la madre e la figlia diventa straziante. Ecuba non può che maledire Elena. E il coro conclude questa scena con alcuni versi inquietanti: "Non più l'Asia per me: in cambio c'è l'Europa, il regno dei morti". Ed era il 425 a.C. quando questa tragedia venne per la prima volta rappresentata. Allora l'Europa era solo un'espressione geografica. Ma quanto fu profetico quel lamento! L'Europa davvero diventerà un regno di morte, a partire soprattutto dall'impero romano, che, pur facendo la parte del "liberatore" contro i Macedoni, sottometterà tutta la Grecia e l'Asia Minore due secoli dopo.

Ecuba non si sentiva "europea", bensì "asiatica" e, per questa ragione, Ulisse la definiva "barbara". E bisogna dire che, in un certo senso, aveva ragione, perché erano stati proprio i Greci a fermare l'espansione persiana, al tempo delle storiche battaglie di Maratona e Salamina. Oppure, guardando le cose col senno del poi, dobbiamo dire che aveva torto? Dobbiamo cioè dire che l'invasione persiana avrebbe impedito all'Europa di diventare il "regno dei morti"?

IV

Entra in scena Taltibio, servo di Agamennone, per raccontare a Ecuba com'era morta Polissena, dopo averle detto che lei stessa dovrà provvedere alla sepoltura.

Al vedere la ricchissima Troia completamente distrutta, ucciso il suo re, schiavizzata la sua regina, privata di tutti i suoi figli, Taltibio stenta a credere nell'esistenza degli dèi, non è sicuro che Zeus e non il caso vigili sul destino degli uomini.

Egli racconta che Neottolemo (1) disse di voler sacrificare Polissena per placare l'ira funesta di Achille e poter così permettere agli Achei di salpare in tutta sicurezza. Quella volta era relativamente facile trovare un escamotage di tipo religioso per poter risolvere problemi indipendenti dalla propria volontà.

Infatti "con lui pregò tutto l'esercito". Non deve apparirci strano questo binomio di fede e sacrificio umano. In fondo, se ci pensiamo, nell'ambito del cristianesimo è avvenuto qualcosa di analogo: un dio-figlio, per placare l'ira di un dio-padre verso gli uomini peccatori, ha accettato, in piena libertà e per amore nei confronti degli uomini, d'immolarsi per loro, rendendo così inutile il tentativo di placare la medesima ira offrendo in sacrificio un montone (come facevano gli ebrei) o addirittura una vergine o comunque un ragazzino (come facevano tante altre religioni).

Sommamente teatrale è il resoconto delle ultime parole pronunciate da Polissena, che chiede ai suoi carnefici di non tenerla ferma mentre il boia, nei panni del sacerdote, eseguirà la sentenza, poiché lei stessa la desidera, non avendo intenzione di vivere da schiava, essendo stata una principessa. È teatrale perché si scopre il seno e chiede che la colpiscano con la spada proprio lì, oppure nel collo. Ed è quest'ultimo che l'esecutore Neottolemo, non senza turbamento, preferisce. Non meno teatrale che Euripide aggiunga che lei si preoccupò di "morire composta, celando ciò che agli uomini si cela".

Dopo aver ascoltato tutto ciò, Ecuba pronuncia una sorta di conclusione filosofica in cui traspare un certo ateismo, in quanto essa deve constatare che se buoni frutti possono venire anche da una terra cattiva, e viceversa, tra gli uomini invece "il tristo è sempre tristo, il buono buono; gli eventi non cambiano l'indole onesta". Questo per dire che tutto è affidato al caso o al destino e che gli dèi non riescono a cambiare gli uomini. "Vanità sono le grandi idee, gli sfoggi di parole. Lieto chi vive illeso alla giornata".

Spesso Euripide, nelle sue tragedie, arriva a queste considerazioni scettiche, ma non bisogna vederle come dominanti nella sua personalità, che invece resta alquanto travagliata e problematica.

Ecuba poi manda un'ancella a prendere l'acqua dal mare, con cui vuol lavare il corpo della figlia prima di seppellirla. Ma quando quella ritorna, la tragedia, già sommamente dolorifica fino a quel punto, fa piombare Ecuba in una totale disperazione. L'annuncio, infatti, è ancora più terrificante del precedente sul destino della figlia, in quanto toglie ogni possibilità di riscatto ai Priamidi, ogni possibile conforto a sua madre: l'ancella ha trovato in riva al mare il cadavere del figlio Polidoro, ucciso da Polimestore, cui Priamo l'aveva affidato insieme a molto oro.

V

L'ultima parte della tragedia potrebbe essere intitolata "vendetta, tremenda vendetta". Ecuba infatti pensa di servirsi di Agamennone per vendicare i suoi figli, anche se riuscirà a farlo solo in riferimento all'ultimo nato, Polidoro, di cui può soltanto costatare una morte violenta e ignominiosa, in quanto procurata da un parente di Priamo (avendogli sposato la figlia Iliona) nei confronti di un ospite (l'ospitalità quella volta era sacra e non solo per i Greci), e, per di più, lasciandolo insepolto (anche se non era certo con una sepoltura che avrebbe potuto evitare i sospetti su di sé).

La misura sembra essere diventata colma: Ecuba si trasforma da madre distrutta dal dolore a madre giustiziera della notte. Tale improvviso mutamento lascia interdetti, poiché, fino a pochissimi attimi prima, Ecuba sembrava disposta a morire o con la figlia o al suo posto. Ora invece vuol vivere per poter compiere un omicidio. E vuole dimostrare, anzitutto a se stessa, ma anche ad Agamennone e a tutti gli Achei, che le donne non sono meno astute, coraggiose e terribili degli uomini.

Anzitutto convince Agamennone d'essere la donna più sventurata di tutta l'Ellade, perché nel giro di pochi giorni le è crollato il mondo addosso. In secondo luogo lui non può non convenire sul fatto che, tra i delitti peggiori che un uomo possa compiere, vi è senza dubbio quello dell'assassinio di un ospite. Tuttavia Agamennone non vuole prendere provvedimenti contro il trace Polimestore, perché non ha alcun contenzioso contro di lui.

Ecuba, per questa ragione, si cruccia di non essere padrona di quell'arte dialettica e retorica chiamata "persuasione", lei che pur sa "tante cose". Ciò nondimeno prova lo stesso a tirar fuori alcuni strumenti (collaudati) di quest'arte, chiamando in causa le questioni personali. Gli ricorda che, siccome lui sta condividendo il talamo con Cassandra (altra figlia di Ecuba), fatta prigioniera a Troia, deve considerare Polidoro come suo cognato. Un uomo nobile come Agamennone, ritenuto un giusto, non può restare indifferente nei confronti dei malfattori, meno che mai quando sono in gioco i parenti, vicini o lontani che siano.

Interessante che qui Euripide commenti questa scena, per bocca della Corifea, dicendo una cosa che tanto ricorda la cosiddetta "astuzia della ragione": "Strane le congiunture degli eventi! Norme fatali assegnano le parti: rendono amici nemici implacabili; chi fu benigno lo rendono ostile". Avvenimenti puramente casuali che, ancora una volta, sembrano minacciare la pretesa esistenza degli dèi.

Essendo "rispettoso del giusto e degli dèi", Agamennone non vuole agire per motivi personali (Cassandra imparentata con Polidoro), quanto per motivi oggettivi: l'empio va punito, anche se risulta essere amico o alleato degli Achei e Polidoro invece un nemico oggettivo. Deve dunque affrontare un'ardua querelle.

Ecuba però lo invita ad assumersi delle responsabilità e a non lasciarsi condizionare da fattori esterni. Quanto poi all'aiuto che dovrebbe darle, sarà sufficiente ch'egli ponga le condizioni perché i "giustizieri" possano agire indisturbati.

Agamennone è titubante: non crede che, per uccidere Polimestore, siano sufficienti l'inganno di Ecuba e il numero delle donne troiane. Ecuba però gli ricorda due eventi in cui le donne ebbero la meglio sui maschi, quando vinsero gli Egizi (al tempo di Nefertiti, Nefertari, Hatshepsut?) e a Lemno (ove dominavano le Amazzoni). In fondo Agamennone non deve materialmente compiere alcun delitto, deve soltanto fare in modo che non venga ostacolata la vendetta (che qui - come sempre peraltro nel mondo greco - ambisce a presentarsi come una forma di giustizia). Deve cioè lavorare sulle circostanze, ed è infatti su questo che si convince.

VI

L'ultima scena è la più agghiacciante, degna di un thriller. Polimestore, coi suoi due figli, armati e scortati, incontrano Ecuba. Finge subito di cadere dalle nuvole, riguardo alla rovina di Troia e alla fine della dinastia dei Priamidi, e se ne esce con una frase dal vago sapore ateistico: "Gli dèi mischiano tutto, capovolgono, sconvolgono, perché, nell'ignoranza, noi li adoriamo. Inutili lamenti, perché non c'è rimedio alle sventure". Dunque a che pro credere in entità così irrazionali?

Col pretesto di dovergli dire delle cose private, con cui motivare l'averlo fatto venire lì, Ecuba gli chiede di allontanare la scorta armata. Poi la sua domanda cruciale riguarda ovviamente la salute di Polidoro, e qui, in risposta, una nuova bugia. Anche per quanto riguarda l'oro si preoccupa soltanto di dire ch'era ben custodito.

L'inganno vero e proprio scatta solo a questo punto. Poiché Ecuba ha ben capito quanto Polimestore sia avido, gli prospetta la possibilità di dover custodire altro oro troiano, che fino a qualche giorno fa si trovava nel tempio di Atena Poliade, e che ora invece era tenuto nascosto in una tenda dell'accampamento, riservata alle donne troiane, senza che gli Achei vi avessero piantonato delle proprie guardie (espediente, questo di Euripide, davvero poco credibile).

Polimestore cade nella trappola e, senza scorta, si dirige coi figli verso la tenda. Appena entrato, si consuma il delitto. Ecuba e le 15 troiane ammazzano i due figli di Polimestore e accecano lui. "Il conto è saldato", gli dice, soddisfatta, Ecuba.

Siccome però le urla si erano sentite per tutto il campo militare, Agamennone non può non intervenire. Ovviamente i soccorsi arrivano troppo tardi. Polimestore, completamente cieco, lo riconosce solo dalla voce e gli chiede di aiutarlo ad ammazzare Ecuba, ma Agamennone non ne vuol sapere, anzi, fingendo di non conoscere neppure l'intenzione omicida di lei, chiede a Polimestore di motivare le ragioni di questa spietatezza. E lui gli spiega perché aveva dovuto ammazzare Polidoro: "Temevo che il ragazzo, tuo nemico, ripopolasse Troia coi superstiti, e che gli Argivi [gli Achei], sapendo che un Priamide era vivo e montando un'altra impresa contro i Frigi [i Troiani], infestassero la Tracia di scorrerie, sicché per noi, vicini, tutti i recenti guai si ripetessero". Dunque una motivazione squisitamente politica e apparentemente anche convincente, favorevole sia agli Achei che ai Traci.

Poi spiega il modo subdolo in cui tutte quelle donne, nella tenda, li hanno fatti fuori, e arriva a usare l'epiteto di "cagne omicide", maledicendo l'intero genere femminile. Al che la Corifea reagisce, anticipando la difesa di Ecuba: "Meno baldanza! Se soffri, nel biasimo non coinvolgere il sesso femminile!".

Certo, era stato accecato con l'inganno, ma perché, forse Troia era stata presa in un confronto alla pari? Non sono forse anche gli uomini maestri nel tendere trappole? nell'usare mezzi non regolamentari?

La difesa di Ecuba è esemplare e Polimestore viene completamente smascherato. Perché non sia stato ucciso anche lui resta poco chiaro; forse Ecuba voleva dimostrare ad Agamennone quanto fosse falsa la motivazione che Polimestore stesso avrebbe dato del suo omicidio di Polidoro.

L'esordio della sua difesa è potente, anche se circoscritto nell'ambito della filosofia greca, per cui si tende a far coincidere verità con evidenza: "La chiacchiera degli uomini, Agamennone, non dovrebbe contare più dei fatti. Dovrebbe parlar bene chi fa bene, e chi fa male avere eloquio debole, non ornare d'orpelli l'ingiustizia". Che cos'è questa se non una critica della Sofistica o comunque di quella retorica così tanto usata nelle assemblee politiche o nei tribunali giudiziari?

Dopodiché enuncia per punti le sue controdeduzioni: "I barbari amici dei Greci non saranno mai né potrebbero". A chi si riferisca, usando la parola "barbaro" non è chiarissimo, anche se, più avanti, Agamennone farà capire che tra Greci e Traci non correva buon sangue. Per i Greci sicuramente i Troiani erano considerati "barbari", per cui la ripresa di una guerra tra Frigi ed Achei sarebbe avvenuta anche a prescindere dal fatto che Polidoro avesse potuto o no ripopolare Troia. Peraltro, il fatto stesso che Polimestore avesse ucciso il proprio ospite, sarebbe stato considerato per i Greci una dimostrazione eloquente del carattere barbarico dei Traci, per cui, se anche fosse scoppiata una nuova guerra tra Achei e Frigi, il trace Polimestore non sarebbe stato considerato particolarmente gradito agli Achei e inevitabilmente, prima o poi, avrebbe fatto la stessa fine dei Troiani. Gli Achei lo consideravano un amico solo per convenienza politica, essendo in corso una guerra contro Troia; a guerra finita avrebbero ripreso a trattarlo come un "barbaro", essendo re di un territorio molto lontano da loro, il Chersoneso (l'odierna Crimea), che verrà poi interamente colonizzato dei Greci (2).

Il secondo punto della difesa è invece molto chiaro. Polimestore aveva ucciso Polidoro esclusivamente per impadronirsi dei suoi beni preziosi, e l'avrebbe fatto non quando Troia resisteva ai Greci, ma subito dopo, quando l'aveva vista espugnata (era in grado di vedere il fumo degli edifici incendiati).

Col terzo punto lo smaschera completamente: "Se veramente eri amico dei Greci - gli dice Ecuba -, l'oro che avevi, non essendo tuo, avresti dovuto darlo a loro, bisognosi, esuli tanto tempo dalla patria. Ma tu non te la senti di lasciarlo neppure adesso...".

Infine la conclusione, di tipo etico: "Gli amici si conoscono nei guai: ce n'è fin troppi nella buona sorte".

Agamennone non può che darle ragione. E aggiunge: "Forse uccidere un ospite, da voi non conta nulla: per noi Greci è un'onta" (tanto più che l'ospite era suo cognato). (3)

La tragedia però si conclude con un tono un po' moralistico. Siccome Ecuba sembra voler infierire, trovando soddisfazione in ciò che ha appena fatto, Polimestore le predice ulteriori sventure, rivelategli da Dioniso, oracolo dei Traci. La prima è che lei stessa si suiciderà buttandosi nel mare da una nave achea durante il viaggio di ritorno, e la sua tomba recherà il nome "Capo Cagna", punto di riferimento per chi naviga (4); la seconda è che anche l'altra sua figlia, Cassandra, morirà in maniera violenta, e proprio per mano di Clitennestra, moglie di Agamennone, e del suo amante Egisto (5), e, con lei, lo stesso Agamennone verrà ucciso. E mentre Ecuba si limita a sputare per terra e a fare gli scongiuri, Agamennone, al sentirlo, s'indispettisce alquanto, e ordina che venga abbandonato, nel viaggio di ritorno, in un'isola deserta.

Purtroppo per loro, tutto quello che aveva predetto, sarebbe avvenuto, anche se una versione del mito vuole che Ecuba sia stata lapidata dai compagni di Ulisse, stanchi d'essere insultati. Fu appunto sotto le pietre della lapidazione che si trovò una cagna con gli occhi di fuoco. Ma i miti - si sa - sono stati scritti da uomini, e quale occasione migliore di questa per fare sfoggio del proprio maschilismo?

Note

(1) Neottolemo (detto anche Pirro) uccise Priamo vicino all'altare di Zeus; gettò Astianatte, figlio di Ettore, giù dalle mura della città in fiamme; prese Andromaca come sua schiava e da lei ebbe tre figli, ai quali lasciò l'Epiro dopo averlo conquistato. Fu ucciso da Oreste (figlio di Agamennone e assassino della madre Clitennestra e dell'amante Egisto) per motivi di risentimento personale, in quanto Menelao si era rimangiato la promessa di dare in moglie a quest'ultimo la figlia Ermione, preferendogli appunto Neottolemo.

(2) Anche la Tracia, regione dell'Europa orientale, compresa tra la Macedonia, il Danubio, il Ponto Eusino e la Propontide, verrà colonizzata dai Greci. La Frigia, regione storica dell'Anatolia, era compresa tra la Macedonia e la Tracia. Forse qui è il caso di ricordare che la Troade, a occidente dell'Asia minore, tra il Mar Egeo, l'Ellesponto e la Propontide, era stata conquistata dai Frigi, che avevano occupato anche le colonie greche sulla costa: di qui una delle motivazioni fondamentali della guerra di Troia, città poco distante dall'Ellesponto, in grado di dominare lo stretto dei Dardanelli e quindi i traffici sul Mar Nero. Troia fu distrutta dagli Achei nel XIII sec. a.C. e ricostruita per ben nove volte.

(3) Secondo un'altra versione del mito Polidoro fu consegnato da Polimestore ad Aiace Telamonio, che propose ai Troiani di scambiarlo con Elena; al loro rifiuto, Polidoro venne lapidato sotto le mura della città.

(4) Pare che questo "tumulo" sia stato individuato presso Gallipoli – l’attuale Gelibolu turco sullo stretto dei Dardanelli -, chiamato "Cinossema", ovvero "La Tomba della Cagna": un altissimo ammasso di pietre che, posto in riva al mare, serviva come punto di riferimento ai marinai. A conferma di ciò si può aggiungere che, secondo il mito, Ecuba fu posta da Zeus nel firmamento, divenendo la costellazione dell’Orsa Minore, la cui Stella Polare orienta i naviganti, come sulla Terra la Cinossema.

(5) Agamennone era stato il secondo marito di Clitennestra: le aveva ucciso il primo marito, i figli di primo letto, la figlia Ifigenia e si era invaghito di Criseide e di Briseide, oltre che ovviamente di Cassandra. Con l'aiuto dell'amante Egisto, Clitennestra uccise sia Agamennone che Cassandra. A sua volta però venne uccisa da Oreste, figlio di Agamennone.

Testi di Euripide

Altri testi su Ecuba

Vedi anche Alcesti, Baccanti, Ecuba, Ippolito, Medea, Eraclidi, Andromaca


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019