MEDEA DI EURIPIDE: la rivendicazione di genere

MEDEA DI EURIPIDE
la rivendicazione di genere


Premessa

Tra le tante peculiari caratteristiche del teatro greco, che lo rendono così diverso dal nostro, ve n'era una molto particolare: il pubblico conosceva in anticipo ciò che avrebbe visto, o comunque l'autore della rappresentazione poteva dare per scontate molte cose, in quanto patrimonio mitologico di una comune cultura. Di qui il fatto che il prologo delle tragedie appaia come una sorta di promemoria e che lo svolgimento della trama non sia altro che una variazione su un tema noto. (1) I greci fruivano di una cultura popolare, da cui nessun intellettuale poteva prescindere. Ecco perché, prima di commentare una qualunque tragedia, si è come costretti a fare una specie di "riassunto delle puntate precedenti".

Altra caratteristica fondamentale di cui tener conto è che in queste tragedie, soprattutto in quelle di Euripide, il fatto che molti personaggi siano altolocati (re, principi ecc.) non significa che rappresentino necessariamente dei valori sociali corrispondenti al loro ceto. È anche possibile ch'essi vengano usati in maniera del tutto formale o convenzionale, volendo in realtà rappresentare le esigenze dei ceti artigiano-mercantili, il cui status era inferiore a quelli aristocratici.

Giasone - secondo il mito prevalente - era figlio di Esone, re di Iolco. Esone era stato spodestato dal fratello Pelia, che gli aveva fatto uccidere tutti i figli: solo Giasone s'era salvato grazie alla madre, che poi, di nascosto, l'aveva affidato alle cure del centauro Chirone.

Divenuto adulto, Giasone tornò a Iolco per rivendicare i propri diritti. Pelia, non volendo essere ucciso né detronizzato, s'inventò per Giasone, con l'inganno, una prova difficilissima da superare: recuperare nella Colchide (antica regione situata nella Georgia occidentale del Caucaso) una pelliccia d'ariete, detta "vello d'oro", dimenticata in un bosco da un certo Frisso di Iolco, figlio di Atamante, re di Beozia. Se l'avesse trovato, gli avrebbe concesso di regnare.

Il vello era custodito da un drago insonne che uccideva chiunque gli si avvicinasse. Per recuperarlo Giasone dovette attraversare il Mar Nero, scontrandosi con popolazioni barbariche, ritenute molto feroci. Questa spedizione fu detta degli "Argonauti", dal nome della nave utilizzata.

Durante il viaggio, approdarono all'isola di Lemno, dove le donne avevano ucciso nel sonno tutti i mariti e le loro amanti della Tracia, con cui le avevano tradite. Di queste era rimasta in vita solo la regina Issipile. Alla vista degli Argonauti le donne dell'isola proposero di offrire tutte le provviste che desideravano, se in cambio avessero accettato di concedere loro una discendenza. Giasone si congiunse con la stessa Issipile ed ebbe due gemelli.

Dopo essere ripartiti, giunsero finalmente presso la Colchide, dove incontrarono il sovrano Eeta. Chiesero a quest'ultimo il vello d'oro, in quanto spettava di diritto alla gente greca, ma Eeta fu disposto a concederlo solo dopo il superamento di tre prove di abilità. Le prove però erano troppo difficili per Giasone, sicché tre divinità (Era, Atena e Afrodite) fecero in modo che la figlia minore di Eeta, Medea, s'innamorasse di lui e lo aiutasse. Il mito dice che fu decisivo anche l'intervento di Calciope, sorella di Medea e già moglie di Frisso, la quale l'aveva supplicata di aiutare i propri figli, alleati degli Argonauti.

Medea era nipote della maga Circe (sorella di Eeta), quindi era un'esperta nell'uso delle erbe, ed era anche figlia di Ecate, patrona di tutte le maghe. Fu proprio grazie a lei che Giasone superò tutte le prove, anche quella del drago, la più difficile, dopo averle promesso che se avesse vinto, l'avrebbe sposata portandola con sé in Grecia.

Ottenuto il vello, intrapresero il viaggio di ritorno, inseguiti da Eeta con la sua nave. Disperato, Giasone chiese a Medea di buttare in acqua il fratello Apsirto, che s'era portata con sé: sperava così che l'inseguitore si fermasse. Medea, per amore, fece a pezzi il fratello e lo buttò in acqua, inducendo il padre a fermarsi per raccoglierlo. Apollonio Rodio sostiene però che Absirto era un gagliardo giovane che comandava una parte dei Colchi inseguitori degli Argonauti e, siccome li aveva raggiunti, Giasone e Medea, con l'inganno, furono costretti a eliminarlo.

Successivamente i due trovarono rifugio sia presso Circe, che si limitò a maledirli per l'assassinio di Apsirto, sia presso Alcinoo, re dei Feaci, che impose a Giasone di sposare Medea, altrimenti l'avrebbe restituita al padre.

Un altro favore che Medea fece a Giasone, in quel viaggio avventuroso, fu di uccidere, con un sonnifero, un gigante di bronzo, Talo, preposto a difendere l'isola di Creta. Ma la storia non finisce qui, poiché Giasone, una volta recuperato il vello d'oro, voleva anche riguadagnare il trono di suo padre, e anche questa volta l'aiuto di Medea risulterà decisivo. Con un inganno da illusionista essa rese involontariamente complici dell'assassinio di Pelia le sue stesse figlie, dopodiché permise al marito d'impadronirsi di Iolco e di avere da lui almeno due figli.

Tuttavia Iolco era per Giasone una città troppo piccola, sicché decise di venderla ad Acasto, il figlio di Pelia, pensando di conquistare Corinto attraverso un matrimonio, quello con Glauce, figlia di Creonte, re della Corinzia. Un'altra versione vuole che sia stato lo stesso Acasto che, dopo aver visto in che maniera era morto il padre, aveva deciso di cacciare Giasone e Medea dalla città.

I

Nella Medea di Euripide l'argomento principale non è il tradimento coniugale, che pur apparentemente sembra decisivo, ma il rapporto interetnico tra barbaro e greco. All'interno di questo tema ve n'è un altro non meno importante: il rapporto di genere. Medea rappresenta la civiltà pre-schiavista o comunque una società più arretrata di quella greca. Essa si è sentita tradita nei suoi valori tradizionali, in cui aveva sempre creduto. Solo per amore era stata disposta a rinunciarvi, compiendo anche efferatezze imperdonabili. Non poteva sopportare d'essere lei stessa tradita dal marito che, con parole suadenti, l'aveva convinta a sposarlo, facendole abbandonare la terra e i parenti.

Giasone s'era dimostrato un uomo superficiale, cinico, egoista, interessato più che altro a fare fortuna, e non aveva avuto scrupoli a sacrificare il suo rapporto con la moglie.

Medea rappresenta la dignità di un passato che vuole restare presente. Ma è una dignità che usa strumenti disperati: l'omicidio e l'infanticidio. Strumenti che ridimensionano alquanto la profondità dei valori in cui credeva: amore filiale, sentimenti per il coniuge, fedeltà ai patti, spirito di sacrificio... Alla fine della tragedia è difficile capire perché non abbia ammazzato il marito, principale fonte di tutti i suoi guai. Si ha infatti l'impressione che non avesse voluto farlo per non dover ammettere a se stessa d'aver compiuto una scelta sbagliata a sposarlo. Per lei la vera responsabile delle sue disgrazie non è Giasone, ma l'amante principessa, figlia di Creonte.

Alla fine i delitti che compie sembrano giustificare la sua origine barbarica, anche se indubbiamente Giasone non rappresenta un'alternativa qualificata. È vero ch'egli appare accomodante, in fondo anche ingenuo, ma resta più che altro dominato dall'interesse: quello di avere un ruolo di prestigio a Corinto.

Nella prima scena vi sono due personaggi minori preposti alla cura dei figli della coppia: il pedagogo e la nutrice. Questa è scandalizzata dal comportamento di Giasone e quello le risponde: "Solo adesso t'accorgi che ognuno, più che agli altri, vuol bene a se stesso?". L'accusa di egoismo è riferita a un uomo che sembra voler rappresentare un parvenu di origini umili (2), il quale, per avere successo, non può mostrare tanti scrupoli, meno che mai quando si tratta d'imitare gli atteggiamenti delle classi dominanti (aristocratiche). La nutrice, tuttavia, sembra esprimere un'esigenza di socialismo ante litteram, come alternativa alla dilagante corruzione, là dove dice: "Il vivere uguali fra uguali, per me è meglio: nessuna grandezza; vorrei che scorresse sicura la mia tarda età. Invocare a parole la mediocrità va bene, per l'uomo; attenervisi è poi la cosa migliore: il troppo, il di più non reca vantaggi a nessuno". Sagge parole provenienti da una domestica, a testimonianza che l'epoca schiavistica, dominata dall'aristocrazia agraria e militare, non godeva affatto di quelle scontatezze che avrebbe voluto. È piuttosto il coro che si limita a predicare la rassegnazione e la fiducia negli dèi.

Di qui l'atteggiamento contraddittorio di Giasone nei confronti dei figli: da un lato chiede a Medea che se ne vadano in esilio con lei, dall'altro si mostra molto premuroso e affettuoso. D'altronde anche in Medea vi sono atteggiamenti contrastanti nei riguardi dei figli: non le si può certo negare di avere tutti i riguardi nei loro confronti, eppure questo non le impedisce di fare di loro ciò che vuole, al pari di una qualunque sua proprietà personale. È vero che decide di sopprimerli per impedire che vengano oltraggiati dai poteri dominanti o dalla popolazione urbana, però non fa nulla per cercare di portarli in esilio con sé. Il motivo non è chiaro, tanto più che nella scena finale Euripide introduce un oggetto magico, il "carro sospeso", in grado di salvare la sola Medea, non i suoi figli.

Giasone rappresenta il greco lacerato tra una debole virtù privata e una forte esigenza di emancipazione sociale. Sembra un esponente della piccola borghesia che vuole fare carriera a tutti i costi, anche al prezzo di tradire la moglie, senza far nulla per impedire che i sovrani la puniscano con l'esilio a causa delle sue continue rimostranze pubbliche.

D'altra parte Medea è una donna con una certa personalità: non accetta il ruolo subalterno che i costumi e le leggi greche vorrebbero imporle. Ed è in grado di far leva su tutte le sue conoscenze e competenze pregresse: una donna che il marito, ma anche la cittadinanza, avevano completamente sottovalutato.

II

Interessante resta il rapporto di genere, che, in un certo senso, prescinde da quello interetnico tra barbaro e schiavo. Medea infatti se, in un primo momento, aveva visto una differenza sostanziale tra il saggio e coraggioso Giasone e i suoi avversari (Eeta, Pelia ecc.), approvando la sua esigenza di riscatto sociale; quando però lui la tradisce, lo equipara a un qualunque uomo dei ceti dominanti. Giasone aveva voluto emanciparsi per se stesso, ma di ciò non aveva reso partecipe la moglie. Sicché questa, nel condannare il tradimento di lui, non può evitare di chiamare in causa i rapporti di genere in vigore, profondamente ingiusti nei confronti delle donne (e forse ancora di più in Grecia che non nella Colchide).

Giasone può emanciparsi quanto vuole, ma non può farlo a spese della moglie - e questa glielo rinfaccia. "Noi donne... siamo certo le creature più misere - dice a se stessa. Da prima con un'enorme quantità di soldi è necessario acquistarsi un marito, prendersi uno che si fa padrone del nostro corpo... non fa onore a una donna il divorzio, e di ripudiare un marito neanche se ne parla. Se poi la donna arriva in un paese nuovo con nuove leggi e costumi... non sa neppure con quale sposo avrà rapporto [qui ci si riferisce ai matrimoni combinati]. L'uomo, se si stanca di stare insieme alla gente di casa, esce e vince la noia. Ma per noi non c'è che fare: c'è un'anima sola a cui guardare. Dicono che noi viviamo un'esistenza senza rischi, dentro casa, e che loro invece vanno a combattere. Errore! Accetterei di stare in campo, là, sotto le armi, per tre volte, piuttosto che figliare solo una volta... Io sono sola al mondo, senza patria, e mio marito mi oltraggia: mi rapì come una preda da un paese straniero, e qui non ho né madre, né un fratello, né un parente che sia nella sventura come un'àncora... una donna... di fronte alla violenza o al ferro è vile solo a vederlo; ma quando l'offesa la colpisce nel talamo, non c'è cuore al mondo che sia più sanguinario".

È difficile non vedere qui un'esigenza emancipativa che va ben al di là del rapporto di coppia. Queste sono parole incredibilmente moderne, che non troveranno eguali neppure nella letteratura medievale europea. Ed è altresì difficile non credere che Euripide sta usando Medea come simbolo di emancipazione non solo di una categoria sessuale, ma di un'intera classe sociale. Parole del genere, infatti, sarebbero state impensabili tra le donne del ceto aristocratico, abituate a obbedire all'autorità dei loro mariti. Medea non sta rimproverando al marito di volersi riscattare socialmente, ma di volerlo fare secondo criteri che dovrebbe considerare superati e che gli fanno perdere, proprio col tradimento coniugale, il senso della democrazia.

Quando Medea dialoga con Creonte dice ulteriori cose di una modernità sconcertante. Siccome il re la voleva cacciare perché, essendo "esperta di sinistre arti", la riteneva pericolosa per l'incolumità della figlia (la sposa di Giasone), lei così risponde, accusando nettamente di conformismo il sistema in auge: "non deve mai, chi ha la testa a posto, dare ai suoi figli un'istruzione tale da farli diventare troppo bravi. Oltre alla taccia che hanno, d'ignavia, s'attirano un'invidia assai malevola dei cittadini [qui sta parlando di se stessa (3)]. Prova a presentare verità nuove a ignoranti: sarai stimato non sapiente, anzi nocivo: chi sarà stimato più valente di chi crede d'avere una cultura varia, in città darà molto fastidio".

Qui ci sono varie accuse: di piaggeria, di assai scarsa considerazione del merito, soprattutto se questo alberga in una donna, per di più straniera. Medea considera la grande Corinto una città molto provinciale, anche rispetto alla sua barbara Colchide. Ed è del tutto irrilevante ch'essa qui si dichiari della stirpe di Sisifo (che, come noto, era di origine ittita), d'aver avuto un padre nobile e d'essere nata dal Sole (Elio), e di avere Ecate (4) come dea tutelare. Non sono questi attributi che legittimano la sua protesta. Euripide li introduce semplicemente perché chi non aveva ascendenze altolocate era paragonabile a uno schiavo, e in una società razzista come quella, parole del genere, in bocca una schiava, non avrebbero avuto alcun effetto.

Si deve piuttosto constatare che anche qui Euripide cerca di valorizzare quei ceti sociali che, non avendo proprietà terriere o schiavi, devono far leva sul loro proprio ingegno se vogliono emanciparsi. Medea non sta parlando solo in quanto donna, più o meno oppressa dal marito, ma anche come una sorta di rappresentante politico di una nuova cultura, di nuovi valori, che vogliono farsi strada rispetto allo status quo dominante, benché qui essa si avvalga di conoscenze antecedenti alla civiltà della polis greca.

Persino il coro, ad un certo punto, che pur rappresenta la saggezza popolare, è costretto a darle ragione, mostrando di comprendere come il risentimento contro Giasone sia dettato da ragioni che vanno oltre il rapporto coniugale e che riguardano una situazione oppressiva più generale, cui le donne da tempo sono soggette: "Tutto a rovescio ora va. Subdoli gli uomini sono, e degli dèi più non è salda la fede".

II

La cosa singolare, nel primo dialogo tra Medea e Giasone, è che quest'ultimo ritiene del tutto normale ch'egli voglia sposarsi con una donna influente e si meraviglia che Medea manifesti pubblicamente la propria riprovazione, inveendo contro le autorità costituite. Fa passare lei per un'ingenua o un'ingrata, per una che non sa vivere in funzione del marito. Cioè Giasone sarebbe stato disposto a tenersela come seconda moglie, facendole addirittura capire che avrebbe continuato ad amarla. Persino ora che è costretto, per volontà di Creonte, a cacciarla dalla città, le assicura che non le farà mancare nulla. E si meraviglia che lei non accetti condizioni così vantaggiose, visto e considerato che, a causa della sua aggressività contro le istituzioni, potrebbe facilmente capitarle di peggio.

Tutto ciò però per Medea non sta altro che a dimostrare l'ipocrisia e la spudoratezza del marito, anche perché l'ingrato, semmai, è proprio lui. Ed è costretta a ricordargli che, senza il suo aiuto, lui non sarebbe mai riuscito a superare la prova del vello d'oro. Aveva anche dovuto uccidere per lui, e persino il proprio fratello, e solo per amore, perché affascinata dai discorsi di un uomo greco.

Quello che di lui non sopporta non è solo la scarsa considerazione in cui tiene i figli, ma anche e soprattutto il tradimento della parola data, cioè del giuramento di fedeltà coniugale, che andava fatto in nome di qualche dio. Infatti gli dice: "ora non so se credi che gli dèi d'allora ormai non governino più o che vigano adesso leggi nuove". Gli rinfaccia d'essere diventato ateo, indifferente alla religione, che indubbiamente quella volta costituiva un freno all'immoralità.

Tuttavia è difficile capire se tra le motivazioni con cui sta tramando i suoi delitti sia più forte il tradimento del marito o la pena dell'esilio. Infatti è convinta, essendo una donna famosa (nel senso della spietatezza) a motivo del vello, che difficilmente qualcuno la ospiterebbe come profuga. Certamente sa di non poter tornare a casa propria e neppure alla corte di colui che aveva contribuito a uccidere, Pelia. Arriva anche a chiedersi il motivo per cui Zeus non abbia posto sul corpo dell'uomo malvagio un segno riconoscibile. Viene qui in mente quanto Jahvè fece a Caino; però con questa differenza, che Caino era stato marchiato perché non venisse ucciso; Medea invece pretendeva la stessa cosa perché potesse avvenire il contrario (è il classico problema di tutta la filosofia greca, sempre alla ricerca di una identificazione di verità ed evidenza).

Giasone però le propone una diversa interpretazione degli eventi che hanno vissuto insieme. E in questo atteggiamento dialettico, in cui ogni personaggio della tragedia sembra avere tutte le ragioni del mondo, bisogna dire che Euripide era un maestro insuperato (benché qui si avvalga dei grandi insegnamenti della sofistica). Anzitutto le dice che il proprio nume tutelare, durante il viaggio, non fu altri che Cipride (o Afrodite), ovvero che se Medea lo aiutò, fu perché era innamorata di lui, spinta, in ciò, da un destino superiore alla sua volontà individuale di donna.

In secondo luogo le dice, senza mezzi termini, che lei avrebbe dato meno di ciò che avrebbe preso. E qui sono quattro le cose che lui le ricorda, con fare quanto meno razzistico o sciovinistico: 1) il fatto di vivere in Grecia e non in un territorio barbaro; 2) il fatto di aver appreso la nozione di giustizia, in luogo di quella di vendetta; 3) il fatto di potersi avvalere di leggi, senza l'uso della violenza; 4) il fatto d'essere diventata famosa in Grecia per la sua conoscenza di piante officinali ed erbe terapiche (cosa che non sarebbe successa se fosse rimasta nella Colchide).

Qui è evidente che Giasone le sbatte in faccia la superiorità della sua civiltà, per lui assolutamente indiscutibile, ridimensionando di molto i motivi di risentimento che lei può provare. Cerca persino di farle capire che all'origine del tradimento coniugale non vi è alcuna motivazione di ordine personale o privata: non c'è di mezzo alcuna questione sessuale. "Lo scopo era questo: vivere bene e senza penuria; e poi generare fratelli ai figli che m'hai dato" (per avere una grande e importante famiglia di sangue reale, che, per un uomo come lui, totalmente privo a Corinto di un proprio clan o parentado, e impossibilitato a far valere una qualunque stirpe, sarebbe stato il massimo).

La motivazione insomma era esclusivamente economica, al massimo politica. E critica Medea di non capirla proprio perché lei vuole restare legata al suo mondo privato, nella convinzione che anche per la felicità di un uomo possono bastare le quattro mura domestiche. Giasone in sostanza si giustifica, anche questa volta, sulla base di motivazioni di ordine superiore, che la moglie, proprio in quanto donna, non può capire.

Non si rende però ben conto che Medea è una donna molto intelligente (e soprattutto che Euripide sta dalla sua parte!). "Non assumere l'aspetto di un brav'uomo con me - gli ribatte subito -, non fare sfoggi oratori: ché basta una parola a stenderti. Dovevi prima convincermi, poi sposarti, e non farlo di nascosto". Gli ribadisce, quindi, che il vero motivo per cui l'ha tradita era che si vergognava d'aver sposato una barbara, o comunque che si era pentito d'aver sposato una che non avrebbe potuto favorirlo nella sua esigenza di riscatto sociale.

Per lei, la moderata, tutte le giustificazioni di lui, l'arrivista, sono solo pretesti. Lei non l'aveva sposato pensando a chissà quali occasioni di successo, ma solo perché l'amava. "Io non voglio una vita fortunata che dia dolore, non voglio un benessere che mi tormenti l'anima di crucci". Medea si sarebbe accontentata di una vita dignitosa, onesta, morigerata. Invece Giasone voleva strafare, perché questo gli aveva insegnato la sua cultura greca! E quando le promette che in esilio a lei e ai suoi figli non sarebbe mancato nulla, Medea s'indispettisce ancora di più: le fa ribrezzo vendere il consenso al tradimento coniugale in cambio di denaro. Giasone proprio non è in grado di capirla. Si preoccupa soltanto di far vedere che è lei a non voler essere aiutata.

La rottura tra i due è insanabile, e se Euripide non avesse introdotto la figura di Egeo di Pandione, sarebbe stato difficile concludere la tragedia. Egeo è colui che, avendo ottenuto un aiuto da Medea contro la propria sterilità, le promette di ospitarla nella terra di Eretteo e di difenderla contro i suoi nemici, e lo fa giurandolo sulla Terra e sul Sole - come Medea, così legata alle solenni promesse, gli aveva chiesto.

Fatto questo, non le resta che architettare il delitto. Non ha intenzione di uccidere il marito, ma la principessa consorte e, possibilmente, se questa verrà assistita, anche il padre, poiché sono le autorità costituite che vogliono mandarla in esilio: cosa che, in definitiva viene considerata peggiore dello stesso tradimento, poiché, evidentemente, essa si aspettava, da parte del potere istituzionale, il rifiuto di un matrimonio del genere, con cui s'andava a rovinare, eticamente, una famiglia già costituita. La rovina del marito sarà soltanto una inevitabile conseguenza.

La dinamica dell'assassinio è astuta, come s'addice a una donna intelligente come lei, che qui sembra svolgere la parte di un killer di professione. Allo scopo di chiedere la revoca dell'esilio per i suoi figli, li manderà dalla principessa, con due bellissimi regali, un peplo (manto fine e screziato) e un serto d'oro (una corona con diadema) che s'era portata con sé dalla Colchide. Essendo impregnati d'un potente veleno, chiunque li toccherà, morirà in poco tempo. Poi, per impedire che facciano del male ai suoi figli, sarà lei stessa a eliminarli, togliendo al marito qualunque possibilità di farsi "una grande e importante famiglia". Quanto a se stessa, spera di salvarsi con la fuga.

III

Nelle tragedie greche viene detto anticipatamente cosa si ha intenzione di fare: non ci devono essere sorprese inspiegabili. Se la trama ha degli aspetti sconcertanti, il pubblico deve però sapere d'essere stato messo sull'avviso, come se, in fondo, il vero protagonista della vicenda non sia questo o quel personaggio, ma il destino, contro cui nulla si può fare. La vicenda è "tragica" non perché deve inorridire o sgomentare, ma perché, mentre invita a riflettere sul senso della vita, vuol far capire che, in ciò che si fa, vi sono ragioni di ordine superiore, di cui bisogna tener conto, se si vuole avere con la realtà un rapporto equilibrato. "Sono molte le sorti che il cielo ci dà - dice il coro alla fine della tragedia - e compiono eventi inattesi gli dèi, né ciò che credemmo diviene realtà; risolve le cose incredibili un dio". I greci son come bambini che han bisogno d'essere continuamente rassicurati: il fato, in una civiltà dove i rapporti antagonistici sono molto forti, gioca un ruolo di primo piano.

Il teatro aveva una funzione pubblica, non aveva lo scopo di suscitare delle emozioni di tipo soggettivo, né una curiosità di tipo intellettuale. L'arte era il prodotto di una polis, non semplicemente di un artista. Il pubblico non doveva essere sconcertato, ma rassicurato, anche perché assisteva a cose che già conosceva e che non avrebbe amato veder stravolte (al massimo reinterpretate). La maestria dell'autore-regista stava soltanto nel trasmettere nuovi messaggi all'interno di una cultura mitologica consolidata, strettamente legata a una precisa identità culturale, etnica, linguistica, religiosa... A noi Euripide appare alquanto trasgressivo, ma se lo fosse stato davvero, non avrebbe potuto neppure partecipare a quegli importanti agoni teatrali.

Le sue erano soltanto varianti di un originario archetipo, e veniva premiato sulla base di questa sola originalità. A noi moderni, così abituati ad agire in maniera individualistica, all'interno di Stati anonimi e spersonalizzati, tutto ciò può apparire insensato. Per esempio, nel caso in oggetto, il messaggio rassicurante, quello che doveva svolgere una funzione catartica, era indubbiamente quello della temperanza o moderatezza. Se Giasone si fosse accontentato di vivere una vita tranquilla, morigerata, se non avesse esagerato, non gli sarebbe accaduto nulla. La felicità non sta nell'avere il massimo possibile, ma nel trovare la giusta misura in ogni cosa. Ecco la filosofia di fondo, quella positiva, di Medea.

E certamente tra il pubblico che assisteva a una tragedia del genere, quello femminile non poteva non sentirsi particolarmente fiero e orgoglioso. Se Alcesti poteva essere considerata un'eroina perché si era sacrificata per amore del marito, qui Medea lo diventa proprio perché rinuncia all'amore per Giasone, l'arrampicatore sociale. "Che nessuno mi creda una donna senza forza o rassegnata...; benigna ai cari, ai miei nemici cruda". E cruda sarà, anche con la complicità della nutrice, messa in grado di capire che non si trattava di una vendetta personale, bensì di una questione di principio, riguardante l'intero genere femminile.

E qui Euripide davvero si supera, poiché fa recitare alla Medea assassina la parte ingannatrice della donna istintiva, irrazionale, ingenua, poco esperta del mondo, "facile alle lacrime", in grado di capire le cose sempre dopo... Insomma la parte della donna che la cultura maschilista considerava prevalente, la più idonea per interpretare il genere femminile. E Giasone cade nel tranello come un allocco. A Medea bastò dirgli di perorare, al cospetto dei sovrani, la seguente causa: lei avrebbe accettato l'esilio, ma scongiurava di non deliberare la stessa pena anche per i figli.

Senza rendersi conto del raggiro, ma anzi, pensando di far leva sulle proprie conoscenze altolocate, Giasone s'impegna a far valere il suo ascendente sulla principessa. Tutto sommato gli sembra una soluzione ragionevole, fattibile, anche se si meraviglia alquanto che Medea voglia privarsi di doni così preziosi come il mantello e il serto d'oro, e non abbia dato sufficiente peso all'abilità persuasiva che il marito avrebbe potuto esibire al cospetto della principessa.

Ancora una volta però Medea dimostrerà d'aver ragione e d'essere capace di maggiore capacità tattica di Giasone. Le debolezze umane le conosce tutte: "i regali - deve spiegargli - convincono persino gli dèi. Per i mortali l'oro vale più di mille discorsi". E per fargli capire ch'essa nutre dei sentimenti superiori a quelli del marito, dimostratisi abbastanza venali, aggiunge: "Io scambierei l'esilio dei miei figli con la vita, non soltanto con l'oro". Certo, in questo momento lo dice più che altro per convincerlo a trattare coi sovrani (alla fine sarà lei stessa che ucciderà i figli), ma ciò non toglie ch'essa guardi con disprezzo la meschineria di Giasone, la sua bassezza d'animo, che, in fondo, è causa ultima del tradimento coniugale.

Certo, nei confronti dei figli è combattuta: vorrebbe portarli con sé, in esilio, in quanto li ama e da loro si aspettava un aiuto nella vecchiaia, ma sa che non potrà farlo, per cui, piuttosto che lasciarli in mano all'oltraggio dei nemici, deve convincere se stessa, per il loro bene, che è meglio farli fuori, addebitando ogni colpa a Giasone.

IV

Intanto muoiono avvelenati sia la principessa che suo padre, Creonte, che aveva cercato d'assisterla, toccandole il mantello. La descrizione che Euripide fa del momento della morte della principessa è degna d'un film dell'orrore, che appare ancora più agghiacciante proprio perché viene soltanto raccontata da un servo, senza che il pubblico abbia potuto guardarla sulla scena. Al massimo infatti poteva osservare la soddisfazione compiaciuta, e un po' sadica, di Medea, il cui volto, peraltro, era, come in tutti gli altri attori, coperto da una maschera, a testimonianza che i singoli attori erano soltanto rappresentazioni di stati d'animo ben più universali. Tant'è che lo stesso servo, alla fine della sua lunga descrizione dell'agonia, la conclude con una riflessione filosofica di carattere generale, che attenua di molto la crudezza dei particolari appena elencati: "Nessuno è felice fra i mortali: l'afflusso del benessere fa uno più fortunato, ma felice mai". (5)

Il finale è però artificioso, poco significativo. Tecnicamente, l'ultima scena, quella del carro sospeso in alto, tratto da draghi alati, mandati dal padre Sole (Elio), è molto debole. Euripide ha voluto concludere la tragedia facendo parlare tra loro, per l'ultima volta, i due principali protagonisti, Giasone e Medea, ma, per salvare lei dalla furia di lui, ha compiuto una scelta sbagliata, introducendo un elemento fantastico, surreale, che ha tolto il pathos di fondo del dramma.

Sarebbe stato sufficiente far parlare Giasone con una corifea o con la nutrice, anche perché Medea non dice nulla che già non si sapesse. Certo è che mettere in bocca a una serva domestica le stesse parole di Medea, facendo capire a Giasone che nella vita bisogna sapersi accontentare, e che la migliore filosofia esistenziale è proprio quella del giusto mezzo, sarebbe stato eccessivo per la mentalità greca, abituata a ragionare in termini di rapporti schiavistici.

Al vedere Medea così imprendibile, Giasone si convince d'aver fatto un gravissimo errore a portare quella barbara in Grecia, cioè d'aver sopravvalutato la capacità della propria cultura e dei propri valori di formare l'animo di chi, per tradizione, non è ellenico. Si convince ancora di più che tra greci e barbari l'abisso sia incolmabile: "una donna greca non avrebbe mai ucciso i propri figli", le dice.

Una colpa, questa, che però Medea rifiuta e recisamente: l'assassino vero è stato, in realtà, l'oltraggio, gli risponde. In ogni caso di chi la colpa sia maggiore lo sanno solo gli dèi: Giasone - fa capire Medea - non ha certo i titoli per giudicarla.

Medea - ma la cosa è tecnicamente poco comprensibile - ha persino intenzione di sottrarre i corpi morti dei figli alla pietà del padre, in quanto è intenzionata a seppellirli nel tempio di Era Acraia (protettrice delle alture), nella terra di Sisifo, impedendo la profanazione delle loro tombe, anzi, istituendo una festa sacra in espiazione dell'empio delitto.

Note

(1) Le relazioni di Medea con Corinto furono certamente molto più antiche di quelle evidenziate da Euripide con la sua tragedia, con cui ottenne il terzo posto, dopo Euforione (figlio di Eschilo) e Sofocle, nella gara teatrale del 431 a.C. Secondo l'antico Eumelo, Elio avrebbe lasciato Corinto al figlio Eeta, il quale però se n'era andato temporaneamente nella Colchide. Ad un certo punto subentrò Medea a regnare su Corinto, giungendo da Iolco insieme al marito Giasone. Man mano che tra i due nascevano dei figli, Medea li nascondeva nel tempio d'Era, sperando di renderli immortali; ma Giasone, dopo averla sorpresa, la lasciò e tornò a Iolco. Anche Medea rinunciò alla signoria di Corinto a favore di Sisifo. Un'altra leggenda narra che i Corinzi non volevano saperne di Medea come signora, sicché le uccisero i figli (sette maschi e sette femmine) nel tempio di Era Acraia, ove s'erano rifugiati. Dopodiché venne una terribile carestia che cessò quando i Corinzi ebbero istituito un culto a Era Acraia, prestato ogni anno da sette giovinetti e sette fanciulle delle migliori famiglie. Non è da escludere che Medea sia stata in origine una divinità solare di Corinto e che attraverso il culto d'Elio sia avvenuta l'unione della Medea corinzia con quella tessalo-colchica.

(2) Non dimentichiamo che lo stesso Euripide veniva considerato, per dileggio, figlio di un'erbivendola.

(3) Da notare che Euripide condusse vita meditativa e di studio (fu uno dei primi a possedere una biblioteca), e si tenne lontano da ogni attività politica e sociale: cosa che non gli risparmiò forti critiche da parte dei suoi contemporanei. Tuttavia, a differenza di Eschilo e Sofocle, fu proprio lui ad aprire il teatro ai rivolgimenti di ordine etico, sociale e politico che avevano luogo ad Atene verso la fine del V secolo a.C.

(4) Ecate, dea degli incantesimi e delle terre selvagge, era sì una dea della religione greca, ma aveva origini pre-indoeuropee o anatoliche (Esiodo la riteneva discendente della stirpe titanica e l'associava ai cicli lunari).

(5) Forse è qui bene ricordare che nell'Atene del V sec. a.C. gli attori, esclusivamente uomini anche nelle parti femminili (perché le donne non potevano recitare), indossavano maschere che li rendevano riconoscibili anche a grande distanza.

Testi di Euripide

Altri testi

Vedi anche Alcesti, Baccanti, Ecuba, Ippolito, Medea, Eraclidi, Andromaca


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019