LUIGI PIRANDELLO

IL PENSIERO DI PIRANDELLO

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PIRANDELLO


Se io fossi Pirandello forse vi parlerei così del mio pensiero: ecco, io trovo una mia vecchia carta d'identità e nel contemplare la mia foto di vent'anni fa sento, per la schiena, un brivido. Non mi riconosco: cambiati i capelli, il sorriso, la pelle del viso. Soprattutto, però, sono cambiato dentro, se non altro perché non ho più, davanti a me, il futuro che avevo allora. Alla vita, vent'anni fa, come ognuno, io chiedevo di farmi felice.

Mi direte voi: ma questo si sa, è ovvio, è banale.

Già, ma allora, se tutti lo sanno, cioè se tutti sappiamo che la vita è continuo cambiamento e continua trasformazione di pensieri e sentimenti, perché viviamo, poi, come se non lo sapessimo?

Io non sono oggi quello che ero ieri, quello che sarò domani. Eppure ho sempre lo stesso nome, faccio lo stesso lavoro, ho gli stessi amici, la stessa moglie, gli stessi figli... e anche loro, tutti, come me, mutano conservando il medesimo nome.

Perché tutto ciò è drammatico?

Perché l'uomo non può vivere assecondando l'istinto sotterraneo al mutamento continuo (lo slancio vitale) e deve "fermarsi", assumere cioè una "forma" che lo chiuda in un'identità: questo, questo e questo sei tu.

Ma un certo giorno, in questa forma, irrompe la vita, cioè facendo saltare il tappo, riesplodono tutte quelle altre possibilità che avresti potuto realizzare, quei tanti modi in cui avresti voluto essere e che ancora vorresti essere: e allora io mi vedo, e vedo me come sono per gli altri: così, così e così, e non mi riconosco più e mi accorgo che gli altri non conoscono veramente me, ma la mia "maschera", cioè la forma che ho assunta per poter vivere tra gli altri: padre, marito, amico, professore; anzi "quel" padre ecc.

Scoperto questo, mi accorgo che io, cioè il mio "io" autentico, non vive, è morto e solo di tanto in tanto esplode: ed è allora che gli "altri" non mi riconoscono, e mi dicono: da te, chi se lo sarebbe aspettato!

Se questo è vero, ed è vero, io scopro un'altra cosa: che quello che ieri mi sembrava bello e giusto e vero non mi sembra oggi così e quello che io affermo essere bello e giusto e vero oggi, è l'opinione della "maschera" che io sono ma non del mio "io" più autentico.

E allora?

Allora concludo che non esiste una verità, che ci sono tante verità quanti sono gli uomini in ogni distinto momento della loro vita. Un caos quindi. E anche questo si sa. Ma noi, ed ecco il dramma, viviamo come se non si sapesse e predichiamo la coerenza, la fermezza dei principi, la forza della coscienza, l'accordo sul significato delle parole.

Ma come possiamo comunicare con le parole, se ogni parola, apparentemente la stessa (ecco la carta d'identità) è in realtà diversa perché "mia", perché "tua" ecc.?

Quindi l'uomo, spaccato tra maschera e volto, tra ieri e domani, senza sapere bene chi sia e senza potere comunicare veramente con gli altri, è solo, infelice, disperato.

Però tutti, tutti coloro che riflettono sulla sorte umana, sono così: e allora non possono non avere "pietà", profonda pietà, l'uno dell'altro e non possono che astenersi da ogni condanna, da ogni giudizio, perché non "sanno", non possono "sapere" chi sia "l'altro".

L'essenza della visione pirandelliana della vita, può essere, perciò, sintetizzata, così:

"L'idea centrale di Pirandello è che la realtà non ha valore obiettivo, ma è una costruzione soggettiva, un'illusione: la costruzione e l'illusione di un soggetto che, a sua volta, non possiede consistenza e continuità sostanziale, ontologica, ma muta continuamente assumendo volti diversi a seconda delle diversità delle situazioni in cui si trova... e vedendo in maniera diversa le cose e gli altri esseri in relazione al suo continuo mutare interno.

Di qui l'insuperabile solitudine del singolo e il ricorso ad una poetica "umoristica" cioè conoscitiva e critica, che mira a scomporre la realtà..."

Lo stesso Pirandello, fin dal 1893, mostrava la percezione precisa del dramma entro cui si dibatte la coscienza infelice dell'uomo contemporaneo:

Nel 1893, in un articolo, Arte e coscienza d'oggi, Pirandello avvertiva con estrema lucidità la condizione disperata dell'uomo contemporaneo: "... ci sentiamo come smarriti, anzi perduti in un cieco, immenso labirinto, circondato tutt'intorno da un mistero impenetrabile. Di vie ce ne sono tante: quale sarà la vera? Per quale via andare? quale criterio direttivo seguire? Crollate le vecchie norme, non ancora sorte o bene stabilite le nuove è naturale che il concetto della relatività di ogni cosa si sia talmente allargato in noi... Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata."

Una vivace esposizione di queste idee è nei brani: "La vita è un flusso... " da L'umorismo e "Sono tutte fissazioni, da "Uno, nessuno e centomila".

LA POETICA DI PIRANDELLO

Alla luce di queste considerazioni si comprenderà meglio il senso e la ragione della poetica di Pirandello.

E' chiamata "poetica dell'umorismo".

Celebre è la pagina che riassume i concetti fondamentali: "Vedo una vecchia signora...".

Il sentimento del contrario - scrive Salinari - è lo stato d'animo di un uomo che viene ad essere sempre "fuori di chiave" ad essere "a un tempo violino e contrabbasso", d'un uomo che non può abbandonarsi a sentimenti, senza avvertire subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce". E Pirandello ci convince che questo sentimento del contrario non è tanto un aspetto dell'arte quanto una definizione di stato d'animo.

L'illusione fa sì che noi ci vediamo non quali siamo ma quali vorremmo essere. L'umorista scopre il gioco e ne ride compatendo. Come si mentisce a noi stessi si mentisce nella vita sociale: l'umorista compie questa analisi.

L'umorista coglie le contraddizioni dei vari momenti della nostra personalità. Per l'umorista le cause degli avvenimenti nella vita non sono mai così logiche come comunemente si crede: " la vita nuda, la materia senz'ordine apparente, irta di contraddizioni, pare all'umorista lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche... " Il fatto è che noi, mentre la vita è un flusso continuo, ci fissiamo in una forma, ci vediamo vivere, uscendo per un attimo da noi stessi e allora prendiamo, erroneamente, come una realtà fuori di noi, il nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario.

IL FU MATTIA PASCAL

Il romanzo rompe definitivamente con il verismo sia per le idee che vi si esprimono sia per il modo di narrare.

Mattia Pascal è uno dei poveri infelici che vivono e soffrono in una forma che li soffoca: un lavoro grigio, un matrimonio smorto e senza prole, una suocera asfissiante. L'ennesimo litigio lo porta a sbattere la porta di casa e andar via. Capita così a Montecarlo, gioca, vince e sta per tornare a casa. Ma un giornale gli reca la notizia che un cadavere, rinvenuto presso il suo paese, è stato identificato per quello di Mattia Pascal. E' la grande occasione: ricco, libero, Mattia può lasciare la forma alle spalle e vivere soltanto per sé, restando fedele a sé stesso. Muta nome, cambia fattezze, prende a viaggiare.

Ma la libertà, a poco a poco, se egli vuol conservarla piena e assoluta, gli si rivela anche scomoda, e, soprattutto, fonte di solitudine, e di menzogne.

Egli è costretto, ora che non ha una forma, a inventarsene una per conversare di sé con altri - e perciò è condannato piuttosto al silenzio e alla solitudine (e avverte che senza una "storia" cioè una forma, la nostra identità, e quindi il rapporto con gli altri, viene meno). Se vuole la compagnia di un cane deve rinunciare perché non può pagare la tassa di possesso. Se vuol denunziare il ladro del suo portafoglio, lo stesso: giuridicamente Adriano 'uomo senza forma', non esiste. Viaggia a lungo Adriano, ma a Roma, pur attentissimo a non farsi riassorbire dalla vita, non sa resistere all'amore, e perciò la sua libertà viene meno: comincia a radicarsi ora in un luogo, a soffrire per la donna che lo attrae, ad angustiarsi per non poterla sposare. Ecco: Mattia-Adriano pian piano sente che le relazioni affettive e sociali ricominciano a tessergli intorno la ragnatela della forma.

Ma essendo impossibile, e sincero, l'amore, Adriano decide di finire la messinscena e Mattia finge il suicidio di Adriano. Torna al suo paese, Mattia: ma la moglie si è risposata, è nata una creatura. La sua forma di l'altro ieri si è dissolta, quella di ieri è stata uccisa. Il tempo è passato.

Mattia comprende che il suo tentativo di libertà assoluta e il suo desiderio di non cadere più in una forma sono falliti, che l'uomo non può vivere fuori di quelle particolarità che lo fanno essere quello che egli è. La sua personalità, ormai, è frantumata per sempre, ed egli ironicamente, lo rivela quando porta fiori alla "sua" tomba e a chi gli domanda chi egli sia risponde: il fu Mattia Pascal.

La narrazione frantuma i procedimenti veristi del tempo lineare.

Poi il narratore è il protagonista e perciò tutto il narrato è "deformato" dall'io narrante, il quale è un formidabile ragionatore che scompone impietosamente la realtà scoprendo il gioco di apparenze e verità in mezzo alle quali deve vivere.

Infine il protagonista non possiede una personalità definita e identificabile, ma la vicenda è proprio la storia della distruzione di un'identità e la denuncia dell'inautenticità con cui l'uomo è condannato a vivere, che rende falso il suo rapporto con il mondo.

I fondamenti del realismo narrativo positivista sono crollati: nasce il romanzo del Novecento, che è lo specchio del morire d'ogni certezza dell'uomo nell'uomo e nella realtà; è la rappresentazione della insufficienza della vita, senza centro, senza verità quindi senza scopo e senza valori; è l'espressione di una concezione del mondo in cui il reale esterno all'uomo, e l'uomo medesimo, non hanno alcuna consistenza propria e sono sempre in balìa dell'io che conosce, ragiona, scompone.

L'uomo e il mondo, quindi, ne escono disgregati: la narrativa dell'Ottocento portava alla ribalta solidi ambienti, solide personalità; questa del Novecento fa agire fantasmi che vivono in un mondo illusorio e si domandano affannosamente il perché di se stessi e della vita.

UNO NESSUNO E CENTOMILA

E' certo una summa dei motivi pirandelliani e molte pagine sono esemplari. Alla luce della dolente conclusione io non direi che il romanzo sia cerebrale e impigliato in ingorghi dialettici. Il furore logico, spiegato per due terzi del volume, è indispensabile, coerente con il disegno di un uomo che deve frantumare gli argini di una solidissima realtà convenzionale e solo ripetendosi mille volte i fondamenti della sua sconcertante scoperta può convincersene.

Mi pare che il Croci, nella Introduzione (edizione Oscar) dica bene che: "la consapevolezza della parzialità dei giudizi del singolo... è la via per superare la chiusura della soggettività." E ancora, dopo aver notato che l'umorismo apre la via a una vera e propria "pietas": "la sua (di Pirandello) lontananza dalla vita risulta così piuttosto il supremo tentativo di uno spirito critico , che ha acquistato la consapevolezza piena e il pudore geloso del sentimento per affermare ancora e sempre la vita. "

Ed infatti il romanzo è percorso da una sotterranea ma discernibile ansia di sincerità, purezza, autenticità ed è un'elegia della verità perduta, che vuole essere sostituita dalla consapevolezza della precarietà delle forme e perciò dall'umiltà e dalla semplicità, che è amore per la vita.

Vi sono altri temi del romanzo che meritano attenzione:

- il Dio interno e il Dio esterno

- la Natura

- la Coscienza e gli altri

Questo terzo tema io lo vedo così svilupparsi:

a. la coscienza non è assoluta, autosufficiente. "Purtroppo, ci sono io, e ci siete voi. Purtroppo." (p.37)

b. ricorda Moscarda che da ragazzo aveva orrore di vedere qualcosa che scoprisse lui, fuori della vista degli altri. "La nostra coscienza si smarrisce, perché questa che crediamo la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi e non possiamo sentirci soli." (p.140)

E poi: "Sapevo la mia solitudine; ma ora soltanto ne sentivo veramente l'orrore."

c. quando Anna Rosa ha la rivelazione che "non si può vivere davanti a uno specchio. "Viene così commentato: "Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Ecco che lei "rimase a lungo con gli occhi fissi a pensare. E, soprattutto, "cadeva ogni orgoglio". (p. 208)

d. Anna Rosa lo attira, perché "dovette sentire la brama che mi struggeva di donare tutta la vita ch'era in me tutto quello che io potevo essere." (pp. 212-3)

e. di don Sclepis: "Ecco: per sé, nessuno. Era questa, forse, la via che conduceva a diventare uno per tutti." (p. 222)

f. "Ah, perdersi là... tra l'erba... facendosi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!" (p. 217) E poi: "Io sono vivo e non concludo... Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi." (pp. 224-5)

g. "Quel punto vivo che s'era sentito ferire in me quando una moglie aveva riso nel sentirmi dire che non volevo più mi si tenesse in conto d'usuraio... era Dio senza dubbio." (p. 195)

Dunque, mi pare, Pirandello afferma che la soluzione al dramma della vita è uscirne, ma il prezzo è una sterile e improbabile beatitudine, priva degli altri, della coscienza, della possibilità di donarsi. E' una vittoria di Pirro. Al fondo c'è il senso della impossibilità di essere veramente soli. Noi viviamo con gli altri e perciò anche per gli altri. E' questo l'uomo. E dobbiamo saperlo, per deporre l'orgoglio della nostra autosufficienza e boria di coscienza, e per diventare un po' come don Sclepis: per sé, nessuno, per essere con e per gli altri. Perché con la coscienza (cioè in mezzo agli altri) convive il Dio interno, il punto vivo, la moralità.

LA SALVEZZA NELL'ARTE

Romolo Valli: mi accorsi un giorno della salvezza che c'è in Pirandello. Ero a Roma, stavo recandomi al teatro Valle. Mi investì una di quelle sommosse [giovanili]: fumo, spari, polizia, grida, dolore... Entrai poi nel teatro. Era deserto: un silenzio magico e confortante mi circondava. Capii che noi attori siamo privilegiati: tra poco, pensai, inizierà lo spettacolo e io potrò calarmi in quella forma esatta, creata per me: e in quella forma, in quell'ordine della fantasia, si placherà il disordine che c'è in me. Così la realtà immutabile della fantasia [arte] cessava di essere un concetto astratto e diventava una forma di vita morale. Per me e per gli spettatori."

SEI PERSONAGGI

Le ultime battute chiariscono (anche se la comprensione non è immediata) il rapporto arte-vita, finzione scenica e realtà umana che è finzione.

Il Padre: "... un personaggio ha veramente una vita sua... per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo... può non essere nessuno."

Come dire che il regno dell'arte accoglie esseri che hanno una carta d'identità inalterabile, una vita coerente e compatta e quindi reale, di una realtà che sta in una dimensione diversa da quella della vita quotidiana, ma nella quale essi, i personaggi, vivono, gioiscono, soffrono, muoiono veramente, e intensamente ogni volta che il lettore o lo spettatore li richiamano in vita. Perciò la loro disgrazia (che è simile a quella dell'uomo) è: "esser nato vivo dalla fantasia di un autore che abbia voluto poi negargli la vita... personaggio lasciato così, vivo e senza vita...".

E' per questo che quando sulla scena compare la vasca finta, nel giardino finto, e le luci i smorzano e le parole dei personaggi rievocano la tragedia (annegamento della bimba sotto gli occhi impietriti del fratello che si sparerà) il miracolo-realtà si compie: s'ode lo sparo, il giovinetto morirà, la bambina non ci sarà più quando i personaggi si allontaneranno. Essi hanno rappresentato, caoticamente, il loro dramma: giunto all'epilogo i due bambini muoiono (e rinasceranno per un altro tentativo di rappresentazione) e soffrono il Padre e gli altri, soffrono davvero, come noi, come gli uomini.

E' questa la realtà-finzione del personaggio.

ENRICO IV

Enrico: Ecco, ci siamo fissati tutti in buona fede in un bel concetto di noi stessi... però, mentre voi vi tenete fermo aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche, vi scivola, vi scivola, vi sguscia come un serpe qualche cosa, di cui non v'accorgete. La vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d'improvviso consistere davanti così sfuggita da voi;

Sono parole che esprimono il contrasto tra l'opinione che abbiamo di noi medesimi e che diventa un rivestimento fisso, incrostato e la vita che pure pullula sotto quel rivestimento, con tante altre idee, tante altre promesse, aspirazioni, sogni ecc. Un giorno, un caso qualsiasi, ci fa consci che la vita ci è sfuggita e noi siamo rimasti impalati.

Ma la vera pagina decisiva del dramma è forse quella in cui Enrico IV, ormai fuori della finzione, chiama beati i pazzi. "Costruiscono senza logica..."

Ecco il privilegio dei pazzi: esser liberi di far essere ciò che non può essere (comunemente, nel così detto mondo normale), di creder vero ciò che non è vero (idem c.s.) e bearsi della loro libertà; dal momento che una verità non esiste e che noi, per poter pur vivere in una trama di rapporti sociali, dobbiamo fingerci che la verità sia una (la convenzione, il pregiudizio) i pazzi sono sì felici, perché schiavi di nessuna verità che non sia tutta loro. Essi, sono liberi di inventare se stessi ogni giorno e (poiché senza logica) privi del bisogno dell'assoluto, del certo, dell'immobile che assilla noi non pazzi, costringendoci a fissarci in un ruolo e a sperimentare la tragedia del dover essere uno mentre si vorrebbe essere tanti ovvero si vorrebbe essere uno in misura assoluta e totalmente appagante.

Essi dunque non aspirano come noi ad una condizione di compattezza psicologica durevole negli anni (che è tragicamente impossibile quando la vita che scorre impone i suoi richiami di sirena).

E perciò Enrico IV suggerisce di sfuggire alla vita, oltre che con la follia, con la cristallizzazione della storia (che è analoga a quella dell'arte).

"Mentre voi, invece, già nella storia! come me! Per quanto tristi i miei casi e orrendi i fatti... già storia, capite? Fissati per sempre... Il piacere della storia.

E perciò nel III atto Enrico IV rivela di non esser pazzo, di esserlo stato davvero e aver poi finto, per molto tempo. Perché? Perché un giorno, rinsavito, "m'accorsi che sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell'e sparecchiato."

Perciò egli può capovolgere il rapporto normalità follia (dopo il breve raccontino del prete irlandese).

"Sono guarito signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua;...

Il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla, la vostra pazzia."

Poco prima nel II atto egli ha chiarito che erroneamente solo la sua vita è considerata quella di un essere bloccato e mummificato nella storia: perché tutta la vita è così, schiacciata dalle parole.

"Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita ? - Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un'alba. Questo giorno che ci sta davanti - voi dite - lo faremo noi! Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni. Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti."

Cioè: il groviglio di libertà, di creatività vergine, che s'annida nel cuore dell'uomo, quando esplode, cozza contro il monolito di un mondo già fatto e la furia dell'esplosione s'invischia nella pania delle relazioni convenzionali, delle parole (che sono idee o fantasmi d'idee) già dette e si sgonfia, la furia, e si affloscia come una vescica.

RIVOLUZIONE TEATRALE DI PIRANDELLO

L'itinerario artistico di Pirandello parte dalla novella e approda al teatro.

E come l'autore porta nella narrativa la sconvolgente novità di un personaggio che, perduta la propria identità, ne va disperatamente alla ricerca, così l'arte e la "filosofia" di Pirandello, arrivate al teatro, ne sconvolgono le strutture.

Il teatro dominante, ai primi del Novecento in Italia, era ancora quello veristico ottocentesco: personaggi borghesi, ambientazioni borghesi con rappresentazione fedele e oggettiva e verosimile della vita quotidiana, retta da regole ferme e inderogabili (e il derogarne era "scandalo"), caratteri ben definiti e identificabili.

C'era stato anche l'esempio del teatro dannunziano, superomistico, magniloquente o arcaicizzante e qualche tentativo di rinnovamento con il cosiddetto "teatro del grottesco" (L'uomo che incontrò se stesso di L. Antonelli), ma in fondo questi restarono degli episodi: la profonda novità fu portata da Pirandello.

1. Prima di tutto la realtà proposta dal dramma pirandelliano è molteplice, atomizzata, contraddittoria. Non è più "la" realtà veristica, ma "una" realtà. "Così è (se vi pare)" ne è il primo eloquentissimo esempio.

Anzi accade che il palcoscenico pirandelliano diventi arena di scontro fra diverse realtà, tutte fortemente fondate e credibili.

2. Il personaggio di Pirandello, diversamente da quello tradizionale, il quale chiede allo spettatore di identificarsi in lui, di "commuoversi" con lui, apre un continuo, incessante dibattito, non solo con gli altri personaggi, ma idealmente con il pubblico, stimolandolo ad una riflessione critica, ad un consenso/dissenso sulle tesi che si dibattono attraverso l'azione scenica.

Lo spettatore è chiamato a "partecipare" in modo nuovo, a "entrare in scena" anche lui.

Esempio tipico è "Ciascuno a suo modo".

3. Questa scelta di Pirandello significa intenzione di abolire la separazione tra arte (teatro) e vita (pubblico) e di mescolarle continuamente: ciò è ancora più evidente nell'altro espediente (che si compie, con forte metafora, a sipario sempre alzato), del "teatro nel teatro".

Il teatro non rispecchia più la vita, ma vuole rappresentare se stesso (anche perché la vita è teatro), il farsi della creazione artistica, il difficile rapporto tra autore e personaggi, che diventa espressione simbolica del rapporto universale tra l'uomo e il suo destino.

Esempio sommo sono i "Sei personaggi in cerca d'autore".

Ecco allora un teatro che accoglie un continuo dibattito di idee, che abolisce il confine tra scena e platea (arte/vita), che si autorappresenta facendosi simbolo della vita. Un teatro completamente nuovo (cui attingeranno Brecht e altri), il quale, pure, fa nascere sempre la "novità" in un contesto quotidiano, grigio, banale, apparentemente tradizionale.

Ed è appunto il "tradizionale" che viene sconvolto e che approda a soluzioni "originali" attraverso le quali, però, si denunciano ipocrisie, falsità, inganni e autoinganni.

Esempi "Il berretto a sonagli" o "Il giuoco delle parti".

CONFRONTO FRA VERGA E PIRANDELLO COME CONFRONTO FRA REALISMO DELL'800 E DEL 900.

Da sviluppare, anche didatticamente, un'osservazione scaturita dalla lettura di Pane nero, di Verga. Poco dopo l'inizio del racconto si narra della decisione presa da Santo di andare a vivere in casa del padre, ormai morto, e tenere con sé la madre e poi la sorella. Santo dichiara di farlo per generosità, ma la sorella borbotta che vuol farle fare la serva alla moglie e la gente dice che andando in quella casa non pagherebbe la pigione. Il narratore non si compromette e non ci dice quale delle due motivazioni è quella vera.

E' un esempio di narrazione impersonale, che non scruta nell'animo né interviene con giudizi.

Pirandello invece espone le contrastanti ragioni con accanimento, scrutando le anime e facendole esprimere i propri pensieri più reconditi. Ma anche per lui, alla fine, non si sa chi abbia ragione, perché, novecentescamente, la verità non c'è più.

CORRISPONDENZA TRA TEORIE PIRANDELLIANE E AFFERMAZIONI SCIENTIFICHE

Un passo da Guillaume (Manuale di psicologia, Giunti ) è piena conferma delle teorie pirandelliane sul rapporto forma/vita.

"La vita sociale... è una disciplina. Io conto sugli altri e gli altri contano su di me. Questa solidarietà e la responsabilità che ne risulta tende a escludere il capriccio, l'instabilità naturale della condotta, che sono respinti nelle parti della vita individuale meno controllate dalla società.

La società non ammette le fluttuazioni della personalità;... essa non ammette che l'autore d'un impegno vi si sottragga perché è cambiato.

Questa instabilità sarebbe distruttrice di tutte le relazioni sociali.

Il personaggio che ciascuno di noi rappresenta nella vita sociale non ispira fiducia che per la sua costanza e impone questa fisionomia immutabile alla sua coscienza di se stesso.

Questo personaggio ci è d'altronde suggerito in parte dalle idee che gli altri si fanno di noi e dai modelli con i quali noi ci identifichiamo."

[cfr. il passo di Uno, nessuno etc. in cui si conclude che la nostra coscienza sono "gli altri" in noi.]

Andrea de Lisio a.delisio@aliseo.it direttore@altromolise.it

Scheda su Pirandello - Il treno ha fischiato - Lumìe di Sicilia - Marsina stretta - Frola e Ponza - Il chiodo

Testi di Pirandello


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019