L'ULTIMO CANTO DEL PARADISO
Generalmente i "dantisti" s'interessano poco di teologia, essendo più presi da questioni storico-letterarie e linguistiche nell'analisi della Commedia. Eppure nell'ultimo Canto del Paradiso Dante non ha avuto dubbi nell'accettare due evidenti eresie della chiesa romana: quella dell'Immacolata concezione della Vergine, ratificata definitivamente nel 1854, sotto pressione gesuitica, dal papa Pio IX, che ne proclamò il dogma con la bolla Ineffabilis Deus, e quella molto più antica (risalente a sant'Agostino) e molto più grave, del Filioque, la madre di tutte le eresie cattoliche, come diceva Fozio, quella che permise di stringere un patto di ferro tra il papato e i Franchi di Carlo Magno. La prima è piuttosto visibile nella preghiera che san Bernardo rivolge a Maria, anche se, di primo acchito, sembrano essere presenti solo i due dogmi della verginità perpetua e della maternità divina; la seconda nella descrizione che viene fatta dell'immagine trinitaria, in modo particolare al v. 120, in cui viene detto che lo Spirito Santo "spirava ugualmente" dal Padre e dal Figlio. Dante non è nuovo a queste cose, avendo già mostrato di non avere alcuna difficoltà ad accettare altri due theologumena del suo tempo, su cui i dibattiti erano ancora accesi: il Limbo e il Purgatorio. Il primo cominciò a essere discusso da Pietro Lombardo (1100 – 1160 circa), trovando ulteriori chiarificazioni nel XIII sec.; invece la dottrina del Purgatorio, strettamente connessa a quella delle indulgenze (che farà scatenare la protesta luterana), venne definita nel secondo Concilio di Lione (1274), quello stesso Concilio in cui i cattolici cercarono di ricomporre lo scisma con gli ortodossi imponendo loro, invano, l'accettazione del Filioque. Dante non poteva non conoscere i famosi trattati polemici contro il fozianesimo scritti da sant'Anselmo di Canterbury (1033-1109), De processione Spiritus Sancti (1107), e da Ugo Eteriano (1143-1180), teologo italiano che visse alla corte del basileus Manuele Comneno e che scrisse De minoritate et aequalitate Filii hominis ad Deum Patrem. Anche il fratello più giovane di Ugo, Leone, intorno al 1175 pubblicò un trattato su quelle che per i cattolici venivano considerate "eresie dei Greci", il De haeresibus et praevaricationibus Graecorum, collegato alla produzione teologica di Ugo. D'altra parte lo stesso Tommaso d'Aquino, il teologo preferito da Dante, scrisse il suo Contra errores Graecorum, utilizzando il precedente Thesaurus di Bonaccorso da Bologna e il Libellus de fide Trinitatis di Nicola da Durazzo. Questo per dire che quando Dante parla dello Spirito Santo in questo Canto, lo fa in linea con la teologia latina ufficialmente accreditata. Nell'inno dossologico e nella supplica rivolta alla Deipara, Dante fa dire a san Bernardo di Chiaravalle delle cose che, in vita, difficilmente avrebbe sostenuto. Egli infatti usa degli appellativi, per qualificare la grandezza della Vergine, che si addicono soprattutto a una divinità: Gesù s'incarnò in lei solo perché era perfetta, la più nobile di tutte le creature, "termine fisso d'etterno consiglio" (v. 3), cioè predestinata a essere scelta; Maria è considerata talmente grande e potente che l'essere umano che volesse ottenere una grazia e non ricorresse a lei, resterebbe inascoltato (vv. 13-15), quindi è intermediaria d'eccezione, assolutamente privilegiata, nel rapporto tra l'umanità e la divinità. Che abbia capacità divine è dimostrato anche dal fatto che è in grado di "prevenire" (precorrere) qualunque richiesta d'aiuto (v. 18). Di più: lei è in grado di concedere quella "grazia divina" (v. 25) che permetterà a Dante di "vedere Dio". Lei è la sola autorizzata a sostituirsi alla libera volontà umana, che non sa essere pura neppure volendolo: è lei infatti che deve sciogliere Dante da ogni impaccio terreno. Maria è infinitamente più grande di san Bernardo, che per Dante è il maggiore dei mistici (vv. 28-33); solo lei "può ciò che vuole", potrà cioè conservare "puro" Dante dopo la visione beatifica e il ritorno sulla Terra, ove la beatitudine è impossibile senza sostegno divino (vv. 34-39). In pratica nella sua orazione san Bernardo sta chiedendo alla Theotokos ciò che non potrebbe fare neanche volendo, ovvero di violare la libertà di coscienza, inducendo Dante a restare "santo" dopo la visione beatifica che l'attende. La vigilanza di lei dovrà vincere gli impulsi negativi di lui, quelli tipici della condizione umana. Solo lei infatti, che non deve compiere alcuna preventiva purificazione, non ha difficoltà di sorta a guardare il volto di Dio, al quale "lo sguardo di nessuna creatura può arrivare tanto limpido come il suo" (vv. 40-45). In realtà proprio Bernardo di Chiaravalle (1091 - 1153), il Doctor mellifluus (come fu chiamato), che fece condannare come eretici Enrico il Monaco, Pietro di Bruys, Gilberto Porretano e Abelardo, si era opposto decisamente alla celebrazione della festa del concepimento immacolato di Maria, in quanto riteneva quest'ultima identica a tutti gli altri esseri umani, schiavi del peccato originale, che si trasmette - secondo i cattolici - attraverso il rapporto sessuale (per via ereditaria, in un certo senso). L'unico esente non poteva essere che il Cristo, concepito dallo Spirito divino, che avrebbe compiuto l'opera redentiva anche nei confronti della stessa Vergine. L'abate cistercense arrivò ad ammettere, diplomaticamente, e con lui l'Aquinate, che Maria poteva essere stata "santificata" al momento della nascita, ma non poteva esserlo stata al momento del suo concepimento, come invece sostenevano Duns Scoto, Pietro Lombardo e Ugo di san Vittore. Su una controversia, per noi oggi così assurda, si accapigliarono con grande livore francescani (favorevoli a dogmatizzare il privilegio mariano e quindi a fare della Vergine la quarta persona della Trinità) e domenicani (nettamente avversi), senza trovare, nella fase iniziale, alcuna soluzione di compromesso. Ci vorrà ancora molto tempo prima che l'Università di Parigi, approfittando del parere favorevole del Concilio di Basilea del 1439, decida di dare il titolo di "dottore" solo a chi era favorevole alla tesi francescana. Mezzo millennio dopo si arriverà, inevitabilmente, a formulare un altro assurdo dogma relativo all'Assunzione, in anima e corpo, della Vergine, la quale, essendo una divinità, non poteva certo essere stata sepolta dopo morta (Pio XII, Munificentissimus Deus, 1950). Ma proseguiamo ora coi versi del Canto. Ricevuta la grazia da parte della Vergine, il problema principale che si pone Dante è quello di cercare di ricordare ciò che sta per vivere, al fine di poterlo comunicare ai suoi lettori. Essendo un intellettuale, egli è convinto che la salvezza degli uomini possa in qualche modo dipendere da quanto lui è in grado di descrivere: cosa che poi alla fine del Canto ammetterà di non poter fare, nonostante egli non abbia dubbi, contrariamente alla teologia apofatica, nel far coincidere "fonte" e "raggio di luce", cioè essenza ed energia. Secondo la teologia catafatica - come noto - la luce divina è "vera per essenza" (v. 54), cioè s'impone da sé. La questione della dinamica della visione è trattata in molte terzine e in una maniera alquanto curiosa, poiché proprio nel momento culmine della propria esperienza religiosa, Dante sembra voler far capire al lettore una cosa a dir poco sconvolgente, e cioè che della realtà divina non si può dir nulla di concreto, di tangibile! Persino il lato umano della divinità riesce a scorgerlo a malapena e solo dopo aver attentamente osservato il cerchio di luce. Ai versi 76-78 dichiara che la luce divina è opposta a quella solare, poiché se avesse distolto il suo sguardo da essa, si sarebbe sentito perduto, smarrito, nel senso che per essere pienamente se stesso, egli aveva bisogno di non smettere di guardare il "vivo raggio". Voleva guardare dio a tutti i costi, poiché era questo lo scopo supremo del suo viaggio. Doveva quindi fare violenza a se stesso, credere per forza in ciò che vedeva (vv. 79-91). Tuttavia - e già questo è paradossale - non vedeva ciò che osservava (la luce eterna di Dio), in quanto la vista (la "veduta") s'accecava ("vi consunsi"). Quindi - viene da pensare - in Dio si può credere solo per fede, non per esperienza. Lui che "osò" fissare lo sguardo, non vide nulla da poter ricordare, nulla da poter esprimere (vv. 82-84). Questo congiungere il proprio sguardo con l'essenza divina finisce col negare valore all'essenza stessa, la quale, proprio in quanto essenza, dovrebbe restare, in ultima istanza, impenetrabile, irraggiungibile a un congiungimento totale. Il fatto che Dante "presunse" di "ficcar lo viso per la luce etterna" (vv. 82-83) è una contraddizione in termini, in quanto l'osare non può, in alcun caso, esser frutto di una volontà personale più di quanto non sia concesso dall'altrui volontà. Nessuno può contemplare la "profondità" di chicchessia. Anche astraendo dal fatto che non esiste alcun dio, la posizione che qui Dante esprime, e che rispecchia in modo tipico la cultura cattolico-romana del suo tempo, risulta essere fortemente limitativa di un qualunque rapporto umano. E questo a prescindere dal fatto che sulla base di questo suo argomentare la teologia latina possa approdare a posizioni ateistiche. Ci spieghiamo in altre parole. Dante - se lo si legge in maniera non convenzionale - sembra essere arrivato all'ateismo per via catafatica, mentre i bizantini potevano arrivarci solo per via apofatica. Cioè mentre quest'ultimi, portando all'estremo le loro teorie, potevano arrivare a dire che se dio è inaccessibile, allora può anche non esistere, i teologi latini invece, portando sempre all'estremo le loro opposte teorie, potevano arrivare alle medesime conclusioni, e cioè che se dio è perfettamente accessibile all'uomo, allora può non essergli così superiore. In entrambi i casi l'unico vero dio è l'essere umano. La differenza dove sta? Sta nell'atteggiamento con cui si vuole affrontare il problema dell'essere, che nei latini è presuntuoso, arrogante, in quanto vogliono dimostrare le cose razionalmente, non limitandosi a contemplare la distanza che separa l'essere dal dover essere, l'obiettivo dal compito. Lo si vede anche dall'approccio esistenziale che Dante ostenta nei confronti di questa sua concezione della divinità. La sua theosis (divinizzazione) è il prodotto di una illuminazione proveniente dall'esterno (ad extra), non è una metamorfosi sgorgante dall'interno (ab intra). Dante non s'illumina d'immenso perché trasfigurato, ma gode quando il suo intelletto può capire come nella profondità dell'essenza divina si riassume ciò che nell'universo è disperso (vv. 85-90). Appare qui come Archimede quando pronuncia il suo Eureka! Nei versi 91-93 Dante asserisce d'aver visto l'idea essenziale che tiene unito l'universo ("la forma universal di questo nodo", v. 90), cioè il fatto che sostanza, accidenti e le loro reciproche relazioni (secondo il modo d'esprimersi della metafisica aristotelico-tomistica) sono fuse insieme (o quasi) in un'unica legge universale, quella dell'amore, che unisce il tutto, ma ciò dicendo lascia il fianco scoperto a interpretazioni tutt'altro che "teologiche", come qualche secolo dopo farà Spinoza quando, col suo principio "Deus sive Natura", lascerà implicitamente intendere che la natura poteva essere vista come una divinità. Questo perché Dante, nella sua visione mistica, non vede "persone", ma idee forme essenze... e la sua soddisfazione è pura sì, ma come può esserlo quella di un intellettuale. La sua non è stata un'esperienza del cuore, un incontro con la persona, ma un osservazione estatica di tipo mistico-intellettuale: è la sua "mente" (v. 97) ad essere assorta fissa immobile attenta... Il desiderio è di contemplare una verità, una logica eterna e immutabile (vv. 94-99), una teofania astratta. Siamo lontanissimi dalla trasfigurazione taboritica descritta dai Sinottici. Paradossalmente egli crede d'aver visto la chiave che tiene unito l'universo e si rammarica di non poterla spiegare con parole adeguate, come se la spiegazione potesse aggiungere qualcosa al fascino dell'universo legato in un "volume" (vv. 86-87). La pretesa dei teologi latini (soprattutto quelli della Scolastica) sta appunto in questo, nel voler dimostrare, coi sillogismi aristotelici, che il bene s'impone da sé, a prescindere dalla libertà di coscienza: la verità è un'evidenza (vv. 100-105). Dante si rende conto di non poter dimostrare con le sue parole il fondamento della verità che ha contemplato (vv. 106-108), poiché ciò va al di là di qualunque parola, però si arrischia a dire una cosa che avrebbe fatto sobbalzare qualunque teologo apofatico, e cioè che l'essenza divina (che di per sé è immutabile) si trasforma in rapporto alla visione umana. Il che, detto altrimenti, voleva dire che Dante non aveva contemplato dio ma la rappresentazione che della divinità lui s'era fatto (vv. 109-114). Lo stesso dirà il De Sanctis: "Dante pensa Dio, non lo vede. E però dice d'averlo veduto, ma di aver dimenticata la visione" (in Opere, V, Torino 1955, p. 520). Inutile precisare, in tal senso, come fanno molti dantisti, che il poeta non intendeva affermare una qualche trasmutazione divina, ma solo del proprio intelletto. E' proprio l'idea di una fissità astratta del divino che porta Dante a identificarlo col suo proprio pensiero. E la tipologia di tale rappresentazione, che è poi quella latina, ancorata - come più sopra si diceva - all'eresia filioquista o binitaria, viene anche spiegata ai versi 115-123: Padre e Figlio sono posti uno a fianco dell'altro, senza vera distinzione di ruoli (se non quella, apparente, di paternità e filiazione, contraddetta, nella sostanza, dalla prevaricazione del Figlio, che nega al Padre la specifica diversità proprio nella processione ab utroque), sicché da entrambi procede lo Spirito, nella stessa forma, modalità e misura, essendo mero simbolo del loro rapporto d'amore. La divinità non è altro che l'unione di tre cerchi o sfere, di cui il meno significativo è il terzo. (1) Il secondo cerchio, infatti, è quello del Figlio, la figura umana per eccellenza (né Dio né lo Spirito sembrano avere alcunché di "umano", in quanto l'uno è "puro spirito" e l'altro una semplice evanescenza, un soffio vitale, un alito, una specie di fuoco che spira da entrambi gli arcobaleni, in misura uguale). Ma il Cristo che cos'ha di "umano"? Dante, qui, non ha alcun rapporto diretto con lui; anzi, per descriverlo usa addirittura un'immagine grafico-geometrica: l'umano in rilievo viene percepito come dipinto dello stesso colore dello sfondo del cerchio, per cui si "confonde" (vv. 124-132). Ai vv. 133-138 Dante ammette essere impossibile distinguere la forma in rilievo dallo sfondo, avendo entrambi lo stesso colore: è come trovare - lo dice espressamente - la quadratura del cerchio. Usare questo famoso e irrisolto problema geometrico per spiegare il mistero della divinoumanità, è un procedimento analogo a quello giottesco, volto a superare l'iconografia bizantina, la cui profondità spirituale, non più percepita come tale, venne sostituita con una tipo spaziale-volumetrico. I suoi mezzi intellettuali non sono sufficienti per risolvere l'arcano: il Dante "occidentale" sembra essere approdato al misticismo orientale. Ma qui non c'è alcun trasporto emotivo: c'è soltanto una descrizione astratta di fenomeni fisici e fisiologici, incorniciati da considerazioni teologico-formali, che racchiudono il tutto in un alone di paranormalità. Anzi, poiché sin dall'inizio l'approccio alla visione era stato di tipo intellettualistico, la comprensione del mistero, quando non è esprimibile in maniera "chiara e distinta", viene lasciata all'intuizione, che beneficia di un improvviso lampo di luce (vv. 139-141), una sorta di buddistica "illuminazione interiore" intorno alla quale però egli non può dire assolutamente nulla, se non riferendosi a un generico "amor che move il sole e l'altre stelle" (vv. 142-145). Eppure di parole ne ha dette tante e tutte di tipo razionalistico. Al suo posto Wittgenstein avrebbe detto che "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Note (1) L'idea di sempiternus circulus è stata presa dallo Pseudo-Dionigi (De divinis nominibus), quella del grafico geometrico dai Dialoghi di Pietro Alfonso e quella dei cerchi di tre colori dal Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore. Fonti
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