L'ultimo Canto del Paradiso

L'ULTIMO CANTO DEL PARADISO
Due eresie e un principio di ateismo

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,

tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'etterna pace
così è germinato questo fiore.

Qui se' a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ' mortali,
se' di speranza fontana vivace.

Donna, se' tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre
sua disianza vuol volar sanz'ali.

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s'aduna
quantunque in creatura è di bontate.

Or questi, che da l'infima lacuna
de l'universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l'ultima salute.

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co' prieghi tuoi,
sì che 'l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.

Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l'orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l'etterno lume s'addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s'invii
per creatura l'occhio tanto chiaro.

E io ch'al fine di tutt'i disii
appropinquava, sì com'io dovea,
l'ardor del desiderio in me finii.

Bernardo m'accennava, e sorridea,
perch'io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l'alta luce che da sé è vera.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual è colui che sognando vede,
che dopo 'l sogno la passione impressa
rimane, e l'altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.

O somma luce che tanto ti levi
da' concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,
ch'una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.

Io credo, per l'acume ch'io soffersi
del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.

E' mi ricorda ch'io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
l'aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond'io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

Nel suo profondo vidi che s'interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.

La forma universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.

Un punto solo m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la 'mpresa,
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;

però che 'l ben, ch'è del volere obietto,
tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch'è lì perfetto.

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.

Non perché più ch'un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch'io mirava,
che tal è sempre qual s'era davante;

ma per la vista che s'avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom'io, a me si travagliava.

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;

e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer "poco".

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle.

"Vergine e Madre, figlia del tuo figlio,
la più umile e la più nobile di ogni creatura,
fine prescelto da Dio fin dall'eternità,

tu hai nobilitato così tanto il genere umano,
che il suo creatore non disdegnò
di farsi creatura dell'uomo.

Nel tuo ventre si riaccese l'amore divino,
per il calore del quale ha potuto germogliare
questo fiore, la rosa dei beati in paradiso.

Qui sei per noi fiaccola di carità,
che splende come sole a mezzogiorno,
mentre sulla Terra una fonte di viva speranza.

O Signora, sei tanto grande e potente,
che chiunque voglia ottenere una grazia
e non ricorre a te, vola senz'ali.

La tua bontà non solo aiuta chi la invoca,
ma molte volte, per tua volontà,
previene la richiesta d'aiuto.

In te misericordia, pietà, generosità,
in te si raccolgono tutte le migliori qualità
presenti nelle creature.

Ora costui, che dalla profondità dell'inferno
è giunto qui, vedendo tutte le condizioni
in cui possono trovarsi le anime dei morti,

ti supplica, per grazia divina, di concedergli
tanta virtù quanta ne occorre per poter
innalzare il proprio sguardo verso Dio.

E io, che non ho mai desiderato così tanto
quanto ora desidero per lui, spero che le mie
preghiere non siano insufficienti,

e che tu possa liberarlo da ogni impaccio
con le tue preghiere a Dio,
in modo che a lui si manifesti il sommo piacere.

E ti prego ancora, o regina, tu che puoi ciò che
vuoi, di conservare sani e puri i suoi intenti,
anche dopo la visione beatifica.

La tua vigilanza vinca le passioni umane:
guarda Beatrice e quanti beati ti pregano,
affinché tu accolga la mia supplica!"

Gli occhi di Maria, amati e venerati da Dio,
fissi su Bernardo che aveva parlato,
ci mostrarono quanto gradisse le anime devote;

li rivolse quindi verso la luce eterna,
nella quale solo lo sguardo di Maria
può arrivare del tutto limpido.

E io, che m'avvicinavo alla mia meta,
com'era naturale che facessi,
raggiunsi il culmine del mio desiderio.

Bernardo mi sorrideva e mi faceva cenno
di guardare verso l'alto; ma io avevo già
iniziato a farlo da solo:

sicché la mia vista, divenendo limpida,
entrava sempre di più nel raggio di quella luce,
che è vera per sua essenza.

D'ora in poi la mia facoltà visiva fu maggiore
di quanto possa spiegare con le parole,
poiché dinnanzi a quella viene meno la memoria.

Come chi vede qualcosa in sogno,
e quando si risveglia ha solo una sensazione
ma non riesce a ricordare quasi nulla,

così mi trovo io, privo di un ricordo nitido
di quella visione, anche se ne sento ancora
in cuore la dolcezza.

Come la neve si scioglie al sole;
così, scritto sulle foglie, si disperdeva poi
al vento il responso della Sibilla.

O somma luce, che sei tanto al di sopra
di ogni mente umana, alla mia memoria
concedi ancora un poco di quella tua visione,

e rendi la mia lingua tanto potente
che almeno una scintilla della tua gloria
possa lasciare ai posteri;

poiché, se riuscissi a ricordare un poco
la tua visione e a tradurla in questi versi,
il tuo valore potrà meglio comprendersi.

Credo che per l'intensità di quella luce viva, che affrontai, sarei potuto rimanere abbagliato
se avessi distolto gli occhi da essa.

Ricordo che fui pertanto più tenace,
nel sostenerne l'intensità, tanto che raggiunsi
con i miei occhi l'infinito valore di Dio.

Oh immensa grazia, in virtù della quale
osai fissare lo sguardo nella luce eterna di Dio,
tanto che lo sguardo stesso si consumò!

Nel profondo di quella luce vidi internarsi,
come rilegato con amore in un unico volume,
tutto ciò che è disperso per l'universo:

sostanze, accidenti e le loro relazioni,
quasi fusi insieme, in modo che le mie parole
possono solo vagamente descrivere.

La forma universale di questo insieme
credo d'aver visto allora, perché sento
che ne rallegro proprio mentre ne parlo.

Un solo attimo della visione provoca in me
una dimenticanza che supera i venticinque secoli
trascorsi dall'impresa degli Argonauti.

Allo stesso modo la mia mente, tutta assorta,
guardava immobile ed attenta
e desiderava sempre di più contemplare Dio.

Di fronte a quella luce divina si diventa tali
ch'è impossibile volgere lo sguardo altrove
per contemplare qualcos'altro;

poiché il bene, oggetto della volontà, è tutto
raccolto in essa, e al di fuori di quella luce
è imperfetto ciò che in lei perfetto.

Le mie parole sono più incerte,
anche rispetto a quel poco che ricordo,
di quelle di un bambino allattato dalla madre.

Non perché nella viva luce divina vi fosse
più di un solo e semplice aspetto,
essendo essa sempre uguale a se stessa;

ma per il fatto che la vista aumentava
man mano che contemplavo, quell'immagine,
mutandomi io, cambiava ai miei occhi.

Nell'infinita e luminosa essenza divina
m'apparvero tre cerchi di tre differenti colori
ma di una stessa dimensione;

e l'uno nell'altro parevano riflessi come tra
arcobaleni, mentre il terzo cerchio sembrava
un fuoco che spirava uguale dagli altri due.

Oh quanto sono deboli le parole rispetto a ciò
che vorrei dire! Neanche dicendo poco
riuscirei a dire minimamente ciò che provai.

Oh luce eterna, che ti basi solo su te stessa,
e solo tu ti conosci e conoscendoti rivolgi a te
il tuo amore e la tua luce!

Quel cerchio di luce che sembrava generato
dal primo come una luce riflessa,
dopo essere stato a lungo da me osservato,

dentro di sé, disegnata nel suo stesso colore,
mi sembrò contenere l'immagine di un uomo:
sicché la contemplavo intensamente.

Come il matematico, che s'impegna intensamente
per fare quadrare il cerchio, senza trovare
alcuna soluzione soddisfacente,

così, davanti a quella straordinaria visione,
cercavo di capire come si adattasse al cerchio
quell'immagine umana e come vi trovasse posto;

ma le mie capacità erano inadeguate all'impresa:
finché, all'improvviso, la mia mente fu colpita
da una bagliore che fece esaudire il suo desiderio.

Le mie forze, a questo punto, vennero meno;
il desiderio di sapere e la volontà parevano mossi
come una ruota di moto uniforme,
che è l'amore che muove l'intero universo.

Generalmente i "dantisti" s'interessano poco di teologia, essendo più presi da questioni storico-letterarie e linguistiche nell'analisi della Commedia. Eppure nell'ultimo Canto del Paradiso Dante non ha avuto dubbi nell'accettare due evidenti eresie della chiesa romana: quella dell'Immacolata concezione della Vergine, ratificata definitivamente nel 1854, sotto pressione gesuitica, dal papa Pio IX, che ne proclamò il dogma con la bolla Ineffabilis Deus, e quella molto più antica (risalente a sant'Agostino) e molto più grave, del Filioque, la madre di tutte le eresie cattoliche, come diceva Fozio, quella che permise di stringere un patto di ferro tra il papato e i Franchi di Carlo Magno.

La prima è piuttosto visibile nella preghiera che san Bernardo rivolge a Maria, anche se, di primo acchito, sembrano essere presenti solo i due dogmi della verginità perpetua e della maternità divina; la seconda nella descrizione che viene fatta dell'immagine trinitaria, in modo particolare al v. 120, in cui viene detto che lo Spirito Santo "spirava ugualmente" dal Padre e dal Figlio.

Dante non è nuovo a queste cose, avendo già mostrato di non avere alcuna difficoltà ad accettare altri due theologumena del suo tempo, su cui i dibattiti erano ancora accesi: il Limbo e il Purgatorio. Il primo cominciò a essere discusso da Pietro Lombardo (1100 – 1160 circa), trovando ulteriori chiarificazioni nel XIII sec.; invece la dottrina del Purgatorio, strettamente connessa a quella delle indulgenze (che farà scatenare la protesta luterana), venne definita nel secondo Concilio di Lione (1274), quello stesso Concilio in cui i cattolici cercarono di ricomporre lo scisma con gli ortodossi imponendo loro, invano, l'accettazione del Filioque.

Dante non poteva non conoscere i famosi trattati polemici contro il fozianesimo scritti da sant'Anselmo di Canterbury (1033-1109), De processione Spiritus Sancti (1107), e da Ugo Eteriano (1143-1180), teologo italiano che visse alla corte del basileus Manuele Comneno e che scrisse De minoritate et aequalitate Filii hominis ad Deum Patrem. Anche il fratello più giovane di Ugo, Leone, intorno al 1175 pubblicò un trattato su quelle che per i cattolici venivano considerate "eresie dei Greci", il De haeresibus et praevaricationibus Graecorum, collegato alla produzione teologica di Ugo. D'altra parte lo stesso Tommaso d'Aquino, il teologo preferito da Dante, scrisse il suo Contra errores Graecorum, utilizzando il precedente Thesaurus di Bonaccorso da Bologna e il Libellus de fide Trinitatis di Nicola da Durazzo. Questo per dire che quando Dante parla dello Spirito Santo in questo Canto, lo fa in linea con la teologia latina ufficialmente accreditata.

Nell'inno dossologico e nella supplica rivolta alla Deipara, Dante fa dire a san Bernardo di Chiaravalle delle cose che, in vita, difficilmente avrebbe sostenuto. Egli infatti usa degli appellativi, per qualificare la grandezza della Vergine, che si addicono soprattutto a una divinità: Gesù s'incarnò in lei solo perché era perfetta, la più nobile di tutte le creature, "termine fisso d'etterno consiglio" (v. 3), cioè predestinata a essere scelta; Maria è considerata talmente grande e potente che l'essere umano che volesse ottenere una grazia e non ricorresse a lei, resterebbe inascoltato (vv. 13-15), quindi è intermediaria d'eccezione, assolutamente privilegiata, nel rapporto tra l'umanità e la divinità. Che abbia capacità divine è dimostrato anche dal fatto che è in grado di "prevenire" (precorrere) qualunque richiesta d'aiuto (v. 18). Di più: lei è in grado di concedere quella "grazia divina" (v. 25) che permetterà a Dante di "vedere Dio". Lei è la sola autorizzata a sostituirsi alla libera volontà umana, che non sa essere pura neppure volendolo: è lei infatti che deve sciogliere Dante da ogni impaccio terreno. Maria è infinitamente più grande di san Bernardo, che per Dante è il maggiore dei mistici (vv. 28-33); solo lei "può ciò che vuole", potrà cioè conservare "puro" Dante dopo la visione beatifica e il ritorno sulla Terra, ove la beatitudine è impossibile senza sostegno divino (vv. 34-39).

In pratica nella sua orazione san Bernardo sta chiedendo alla Theotokos ciò che non potrebbe fare neanche volendo, ovvero di violare la libertà di coscienza, inducendo Dante a restare "santo" dopo la visione beatifica che l'attende. La vigilanza di lei dovrà vincere gli impulsi negativi di lui, quelli tipici della condizione umana. Solo lei infatti, che non deve compiere alcuna preventiva purificazione, non ha difficoltà di sorta a guardare il volto di Dio, al quale "lo sguardo di nessuna creatura può arrivare tanto limpido come il suo" (vv. 40-45).

In realtà proprio Bernardo di Chiaravalle (1091 - 1153), il Doctor mellifluus (come fu chiamato), che fece condannare come eretici Enrico il Monaco, Pietro di Bruys, Gilberto Porretano e Abelardo, si era opposto decisamente alla celebrazione della festa del concepimento immacolato di Maria, in quanto riteneva quest'ultima identica a tutti gli altri esseri umani, schiavi del peccato originale, che si trasmette - secondo i cattolici - attraverso il rapporto sessuale (per via ereditaria, in un certo senso). L'unico esente non poteva essere che il Cristo, concepito dallo Spirito divino, che avrebbe compiuto l'opera redentiva anche nei confronti della stessa Vergine.

L'abate cistercense arrivò ad ammettere, diplomaticamente, e con lui l'Aquinate, che Maria poteva essere stata "santificata" al momento della nascita, ma non poteva esserlo stata al momento del suo concepimento, come invece sostenevano Duns Scoto, Pietro Lombardo e Ugo di san Vittore.

Su una controversia, per noi oggi così assurda, si accapigliarono con grande livore francescani (favorevoli a dogmatizzare il privilegio mariano e quindi a fare della Vergine la quarta persona della Trinità) e domenicani (nettamente avversi), senza trovare, nella fase iniziale, alcuna soluzione di compromesso. Ci vorrà ancora molto tempo prima che l'Università di Parigi, approfittando del parere favorevole del Concilio di Basilea del 1439, decida di dare il titolo di "dottore" solo a chi era favorevole alla tesi francescana. Mezzo millennio dopo si arriverà, inevitabilmente, a formulare un altro assurdo dogma relativo all'Assunzione, in anima e corpo, della Vergine, la quale, essendo una divinità, non poteva certo essere stata sepolta dopo morta (Pio XII, Munificentissimus Deus, 1950).

Ma proseguiamo ora coi versi del Canto. Ricevuta la grazia da parte della Vergine, il problema principale che si pone Dante è quello di cercare di ricordare ciò che sta per vivere, al fine di poterlo comunicare ai suoi lettori. Essendo un intellettuale, egli è convinto che la salvezza degli uomini possa in qualche modo dipendere da quanto lui è in grado di descrivere: cosa che poi alla fine del Canto ammetterà di non poter fare, nonostante egli non abbia dubbi, contrariamente alla teologia apofatica, nel far coincidere "fonte" e "raggio di luce", cioè essenza ed energia. Secondo la teologia catafatica - come noto - la luce divina è "vera per essenza" (v. 54), cioè s'impone da sé.

La questione della dinamica della visione è trattata in molte terzine e in una maniera alquanto curiosa, poiché proprio nel momento culmine della propria esperienza religiosa, Dante sembra voler far capire al lettore una cosa a dir poco sconvolgente, e cioè che della realtà divina non si può dir nulla di concreto, di tangibile! Persino il lato umano della divinità riesce a scorgerlo a malapena e solo dopo aver attentamente osservato il cerchio di luce.

Ai versi 76-78 dichiara che la luce divina è opposta a quella solare, poiché se avesse distolto il suo sguardo da essa, si sarebbe sentito perduto, smarrito, nel senso che per essere pienamente se stesso, egli aveva bisogno di non smettere di guardare il "vivo raggio". Voleva guardare dio a tutti i costi, poiché era questo lo scopo supremo del suo viaggio. Doveva quindi fare violenza a se stesso, credere per forza in ciò che vedeva (vv. 79-91). Tuttavia - e già questo è paradossale - non vedeva ciò che osservava (la luce eterna di Dio), in quanto la vista (la "veduta") s'accecava ("vi consunsi"). Quindi - viene da pensare - in Dio si può credere solo per fede, non per esperienza. Lui che "osò" fissare lo sguardo, non vide nulla da poter ricordare, nulla da poter esprimere (vv. 82-84).

Questo congiungere il proprio sguardo con l'essenza divina finisce col negare valore all'essenza stessa, la quale, proprio in quanto essenza, dovrebbe restare, in ultima istanza, impenetrabile, irraggiungibile a un congiungimento totale. Il fatto che Dante "presunse" di "ficcar lo viso per la luce etterna" (vv. 82-83) è una contraddizione in termini, in quanto l'osare non può, in alcun caso, esser frutto di una volontà personale più di quanto non sia concesso dall'altrui volontà. Nessuno può contemplare la "profondità" di chicchessia.

Anche astraendo dal fatto che non esiste alcun dio, la posizione che qui Dante esprime, e che rispecchia in modo tipico la cultura cattolico-romana del suo tempo, risulta essere fortemente limitativa di un qualunque rapporto umano. E questo a prescindere dal fatto che sulla base di questo suo argomentare la teologia latina possa approdare a posizioni ateistiche.

Ci spieghiamo in altre parole. Dante - se lo si legge in maniera non convenzionale - sembra essere arrivato all'ateismo per via catafatica, mentre i bizantini potevano arrivarci solo per via apofatica. Cioè mentre quest'ultimi, portando all'estremo le loro teorie, potevano arrivare a dire che se dio è inaccessibile, allora può anche non esistere, i teologi latini invece, portando sempre all'estremo le loro opposte teorie, potevano arrivare alle medesime conclusioni, e cioè che se dio è perfettamente accessibile all'uomo, allora può non essergli così superiore. In entrambi i casi l'unico vero dio è l'essere umano.

La differenza dove sta? Sta nell'atteggiamento con cui si vuole affrontare il problema dell'essere, che nei latini è presuntuoso, arrogante, in quanto vogliono dimostrare le cose razionalmente, non limitandosi a contemplare la distanza che separa l'essere dal dover essere, l'obiettivo dal compito.

Lo si vede anche dall'approccio esistenziale che Dante ostenta nei confronti di questa sua concezione della divinità. La sua theosis (divinizzazione) è il prodotto di una illuminazione proveniente dall'esterno (ad extra), non è una metamorfosi sgorgante dall'interno (ab intra). Dante non s'illumina d'immenso perché trasfigurato, ma gode quando il suo intelletto può capire come nella profondità dell'essenza divina si riassume ciò che nell'universo è disperso (vv. 85-90). Appare qui come Archimede quando pronuncia il suo Eureka!

Nei versi 91-93 Dante asserisce d'aver visto l'idea essenziale che tiene unito l'universo ("la forma universal di questo nodo", v. 90), cioè il fatto che sostanza, accidenti e le loro reciproche relazioni (secondo il modo d'esprimersi della metafisica aristotelico-tomistica) sono fuse insieme (o quasi) in un'unica legge universale, quella dell'amore, che unisce il tutto, ma ciò dicendo lascia il fianco scoperto a interpretazioni tutt'altro che "teologiche", come qualche secolo dopo farà Spinoza quando, col suo principio "Deus sive Natura", lascerà implicitamente intendere che la natura poteva essere vista come una divinità.

Questo perché Dante, nella sua visione mistica, non vede "persone", ma idee forme essenze... e la sua soddisfazione è pura sì, ma come può esserlo quella di un intellettuale. La sua non è stata un'esperienza del cuore, un incontro con la persona, ma un osservazione estatica di tipo mistico-intellettuale: è la sua "mente" (v. 97) ad essere assorta fissa immobile attenta... Il desiderio è di contemplare una verità, una logica eterna e immutabile (vv. 94-99), una teofania astratta. Siamo lontanissimi dalla trasfigurazione taboritica descritta dai Sinottici. Paradossalmente egli crede d'aver visto la chiave che tiene unito l'universo e si rammarica di non poterla spiegare con parole adeguate, come se la spiegazione potesse aggiungere qualcosa al fascino dell'universo legato in un "volume" (vv. 86-87).

La pretesa dei teologi latini (soprattutto quelli della Scolastica) sta appunto in questo, nel voler dimostrare, coi sillogismi aristotelici, che il bene s'impone da sé, a prescindere dalla libertà di coscienza: la verità è un'evidenza (vv. 100-105). Dante si rende conto di non poter dimostrare con le sue parole il fondamento della verità che ha contemplato (vv. 106-108), poiché ciò va al di là di qualunque parola, però si arrischia a dire una cosa che avrebbe fatto sobbalzare qualunque teologo apofatico, e cioè che l'essenza divina (che di per sé è immutabile) si trasforma in rapporto alla visione umana. Il che, detto altrimenti, voleva dire che Dante non aveva contemplato dio ma la rappresentazione che della divinità lui s'era fatto (vv. 109-114). Lo stesso dirà il De Sanctis: "Dante pensa Dio, non lo vede. E però dice d'averlo veduto, ma di aver dimenticata la visione" (in Opere, V, Torino 1955, p. 520).

Inutile precisare, in tal senso, come fanno molti dantisti, che il poeta non intendeva affermare una qualche trasmutazione divina, ma solo del proprio intelletto. E' proprio l'idea di una fissità astratta del divino che porta Dante a identificarlo col suo proprio pensiero.

E la tipologia di tale rappresentazione, che è poi quella latina, ancorata - come più sopra si diceva - all'eresia filioquista o binitaria, viene anche spiegata ai versi 115-123: Padre e Figlio sono posti uno a fianco dell'altro, senza vera distinzione di ruoli (se non quella, apparente, di paternità e filiazione, contraddetta, nella sostanza, dalla prevaricazione del Figlio, che nega al Padre la specifica diversità proprio nella processione ab utroque), sicché da entrambi procede lo Spirito, nella stessa forma, modalità e misura, essendo mero simbolo del loro rapporto d'amore. La divinità non è altro che l'unione di tre cerchi o sfere, di cui il meno significativo è il terzo. (1)

Il secondo cerchio, infatti, è quello del Figlio, la figura umana per eccellenza (né Dio né lo Spirito sembrano avere alcunché di "umano", in quanto l'uno è "puro spirito" e l'altro una semplice evanescenza, un soffio vitale, un alito, una specie di fuoco che spira da entrambi gli arcobaleni, in misura uguale).

Ma il Cristo che cos'ha di "umano"? Dante, qui, non ha alcun rapporto diretto con lui; anzi, per descriverlo usa addirittura un'immagine grafico-geometrica: l'umano in rilievo viene percepito come dipinto dello stesso colore dello sfondo del cerchio, per cui si "confonde" (vv. 124-132). Ai vv. 133-138 Dante ammette essere impossibile distinguere la forma in rilievo dallo sfondo, avendo entrambi lo stesso colore: è come trovare - lo dice espressamente - la quadratura del cerchio. Usare questo famoso e irrisolto problema geometrico per spiegare il mistero della divinoumanità, è un procedimento analogo a quello giottesco, volto a superare l'iconografia bizantina, la cui profondità spirituale, non più percepita come tale, venne sostituita con una tipo spaziale-volumetrico.

I suoi mezzi intellettuali non sono sufficienti per risolvere l'arcano: il Dante "occidentale" sembra essere approdato al misticismo orientale. Ma qui non c'è alcun trasporto emotivo: c'è soltanto una descrizione astratta di fenomeni fisici e fisiologici, incorniciati da considerazioni teologico-formali, che racchiudono il tutto in un alone di paranormalità. Anzi, poiché sin dall'inizio l'approccio alla visione era stato di tipo intellettualistico, la comprensione del mistero, quando non è esprimibile in maniera "chiara e distinta", viene lasciata all'intuizione, che beneficia di un improvviso lampo di luce (vv. 139-141), una sorta di buddistica "illuminazione interiore" intorno alla quale però egli non può dire assolutamente nulla, se non riferendosi a un generico "amor che move il sole e l'altre stelle" (vv. 142-145). Eppure di parole ne ha dette tante e tutte di tipo razionalistico. Al suo posto Wittgenstein avrebbe detto che "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere".

Note

(1) L'idea di sempiternus circulus è stata presa dallo Pseudo-Dionigi (De divinis nominibus), quella del grafico geometrico dai Dialoghi di Pietro Alfonso e quella dei cerchi di tre colori dal Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore.

Fonti

  • Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, ed. A. Mondadori, Milano 2005
  • Dante Alighieri, Tutte le opere, ed. Newton, Roma 1993
  • E. Pistelli, Il Canto XXXIII del Paradiso, Firenze 1904
  • L. Tondelli, Il libro delle Figure, Torino 1953
  • Pancrazio Perrone, Ugo Eteriano e la controversia del filioque al XII secolo, Napoli 1951
  • S. Bulgakov, Il Paraclito, EDB 1971
  • Enrico Guarneri, Il XXXIII Canto del Paradiso (estratto da Annali del Liceo classico Garibaldi di Palermo, 1997-2000).

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019