DANTE ALIGHIERI, TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE

DANTE ALIGHIERI

I - II

TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare. 4
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare. 8
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova: 11
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

La Vita Nuova (1292-4) fu scritta quando Dante era già sposato con Gemma Donati dal 1285. Il matrimonio era stato combinato dalle rispettive famiglie: Dante aveva solo 12 anni e Gemma apparteneva a una delle famiglie guelfe più illustri di Firenze.

Dante non dedicò mai una rima o una parola alla propria moglie e non sappiamo niente delle successive vicende della coppia e tantomeno della vita di Gemma. Nel 1329 essa reclamò presso le autorità fiorentine la parte di dote dai beni confiscati al marito. In un atto notarile del maggio 1332 Gemma è ricordata come già defunta. Da Gemma Dante ebbe almeno quattro figli.

Quando al secondo verso parla di "donna mia" egli può riferirsi a Beatrice (Bice di Folco Portinari) solo poeticamente, non solo perché entrambi erano già sposati coi relativi consorti ma anche perché Beatrice era già morta di parto nel 1290, a soli 24 anni.

Figlia di un banchiere molto ricco, si era imparentata con un'altra famiglia di grandi banchieri, i Bardi, andando in sposa ancora giovanissima, appena adolescente, a Simone, detto Mone.

Nella Vita Nuova Dante dice di aver visto Beatrice solo due volte: a nove e a diciotto anni. Quando lei morì, lui, disperato, si mise a studiare filosofia e si rifugiò nella lettura di testi latini, scritti da uomini che, come lui, avevano perso una persona amata. La fine della sua crisi coincise con la composizione della Vita Nuova (intesa come "rinascita").

Nella Divina Commedia Beatrice subisce un processo di spiritualizzazione e viene riconosciuta come creatura angelica (secondo gli ideali stilnovistici): rappresenta la fede che accompagna Dante nel paradiso.

Che Beatrice sia stata per buona parte il frutto della fantasia di Dante è documentato anche da un Canto di un poeta provenzale vissuto, prevalentemente in Italia, circa un secolo prima di Dante: Raimbaut de Vaqueiras. Il canto è Kalenda maia, la penultima strofa inizia così:

"Tanto gentile sboccia, / per tutta la gente
Donna Beatrice, e cresce / il vostro valore;
di pregi ornate ciò che tenete / e di belle parole, senza falsità;
di nobili fatti avete il seme;
scienza, / pazienza / avete e conoscenza;
valore / al di là di ogni disputa
vi vestite di benevolenza.
Donna graziosa, / che ognuno loda e proclama
il vostro valore che vi adorna, / e chi vi dimentica, poco gli vale la vita..."

Dante, che conosceva il provenzale e i poeti provenzali, quasi cento anni dopo scrive di Beatrice: "Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia ...". L'incipit è identico, il sentimento che muove i poeti è lo stesso, gli echi stessi che il canto di Raimbaut sembra evocare si possono ritrovare nei versi di Dante. Raimbaut canta Beatrice del Monferrato, sorella di Bonifacio I del Monferrato, che serviva come trovatore e cavaliere.

Ma vediamo la lirica suddetta, che è la più famosa della Vita Nuova. Il sonetto è talmente pieno di contraddizioni da risultare del tutto inventata la situazione descritta.

Lei saluta gli altri (nel secondo verso vien detto che lo fa per prima) e gli altri non possono risponderle, perché non si sentono "gentili e onesti" come lei. Non osano neppure guardarla perché vorrebbero farlo con malizia, ma vedendola così gentile e onesta si vergognano. Quindi se un uomo avesse dovuto innamorarsi di qualcuna chi avrebbe scelto? Una di facili costumi?

Se quando una donna onesta saluta un uomo, e questi non ha il coraggio di risponderle ("ogni lingua divien, tremando, muta"), allora si deve pensare che nella normale vita quotidiana, si è abituati a un tale odio nei rapporti interpersonali da rendere innaturali anche i sentimenti più semplici, anche quelli che riguardano la buona educazione (quella che occorre per rispondere a un saluto).

Ma se si è abituati a questo, davvero non si ha il coraggio di guardare una donna gentile e onesta? O forse la si considera semplicemente un'ingenua? una che non ha capito niente della vita?

Lei va in giro vestita d'umiltà in una città di egoisti e prepotenti. E chi potrebbe lodarla per questo? Certamente non il popolo grasso, che non avrebbe neppure interesse a guardarla, se non per compatirla, visto che è così umile, onesta e gentile. Forse il popolo minuto, ma dovrebbe essere sicuro che l'umiltà di lei è davvero genuina e non un atteggiamento forzato, manierato, indotto da tradizioni non contadine.

E poi come si può lodare una che non si riesce neppure a guardare perché ci si vergogna di farlo? La contraddizione aumenta con l'aumentare delle strofe: nella prima nessuno la può guardare, nella seconda la lodano, nella terza la osservano e nella quarta gli uomini sospirano.

All'inizio non si ha il coraggio di guardarla per possederla, alla fine si ha il coraggio di guardarla proprio pensando di possederla. Cioè è proprio guardandola che vien voglia d'amarla. Addirittura Dante ha l'impressione che dalla labbra di lei esca un sospiro d'amore che invita a possederla, ad amarla appassionatamente. Cosa che però il poeta sa che non si può fare, per cui non resta che "sospirare".

Sembra di avere a che fare con una finta ingenua: una che ha capito che in mezzo all'odio ci si può fare strada usando la finzione dell'onestà, della gentilezza, dei modi cortesi.

Il poeta si sente diverso dagli altri, è un intellettuale. Gli altri sono affaristi, venali: non potrebbero che guardarla in maniera strumentale, appunto per possederla. Lui invece, da sognatore, sarebbe disposto ad amarla solo se lei fosse consenziente, rispettando la sua libertà. Un sì che spera d'ottenere proprio facendo leva sulla sua abilità letteraria.

Ma la donna non è già sua? o lo è solo metaforicamente, nel puro desiderio poetico? Andava forse a passeggio con lei, mettendosi e mettendola in mostra, come un proprio trofeo? E segretamente godeva quando gli altri, al vederla, potevano soltanto avere invidia di lui, e sospirare di poterla possedere nell'inconscio? Quindi il poeta l'aveva sposata perché lei era onesta e gentile, e la stava usando con fare tutt'altro che onesto e gentile?

La critica ha visto in Beatrice una donna angelicata. Avrebbe anche dovuto vedere un intellettuale che stava sognando una città diversa da quella in cui viveva. Una città i cui valori dominanti non fossero quelli del denaro, della carica prestigiosa, del successo personale, ma appunto dell'onestà, della gentilezza, dell'umiltà, che al massimo potevano incarnarsi in una donna, ancora cristiana, certo non in un uomo, divenuto borghese.

Un intellettuale che non sa trovare il modo per migliorare i rapporti borghesi della sua città se non proponendo a modello una donna semplice, umile, che paradossalmente dovrebbe continuare ad avere ideali del mondo rurale pur essendo figlia e moglie di uomini dell'alta borghesia. Qui Beatrice assume le sembianze di Arrigo VII, un'altra utopia in cui ingenuamente credeva il Dante politico.

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Aggiornamento: 10-02-2019