Fichte: l’incontro-scontro con Kant

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Fichte: l’incontro-scontro con Kant

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Fichte

Giuseppe Bailone

Fichte nasce il 19 maggio 1762 a Rammenau, in Sassonia, primogenito di un tessitore. L’estrema povertà della famiglia chiude la sua esistenza a guardia di oche. Il piccolo Fichte è, però, particolarmente sensibile ai deboli spiragli di luce culturale offertigli dalla vita religiosa domenicale. E questa sensibilità gli apre la strada degli studi, che poi egli saprà percorrere fino ai livelli più alti. All’età di otto anni, ha, infatti, l’occasione di ripetere alla perfezione il sermone domenicale al barone di Rammenau, Von Miltitz, che, malato, non ha potuto assistere alla funzione religiosa. Il suo ingegno stupisce il barone, che gli offre l’opportunità di entrare in un collegio scolastico. I primi sorprendenti risultati inducono il barone a iscriverlo nel 1780 alla facoltà teologica dell’università di Iena. Con la morte prematura di questo protettore, però, il giovane Fichte perde il suo sostegno economico. Per proseguire gli studi, deve, allora, dare lezioni private di giorno e studiare la notte, con grave pregiudizio della salute.

Nel 1780, frequentando anche dei corsi all’università di Lipsia, incontra il pensiero di Spinoza, che, in quegli anni, filosofi autorevoli come Lessing e Jacobi, propongono al dibattito filosofico, anche in funzione antilluministica.

Nel 1783 s’iscrive all’Università di Wittemberg.

Nel 1785, abbandonati gli studi per mancanza di mezzi, va a fare il precettore a Zurigo, dove incontra personalità della cultura locale, legge l’Emilio di Rousseau e le opere di Montesquieu, stringe amicizia con Pestalozzi e si avvicina ai problemi della pedagogia. A Zurigo conosce Johanna Rahn, che poi sposa. Nel 1788 si laurea.

Nel 1790, a Lipsia, deve spiegare, come precettore, una filosofia che non conosce ancora. È quella di Kant. Comincia a studiarla. I suoi studi universitari, spesso interrotti per difficoltà economiche, l’hanno costretto a completare la sua formazione da autodidatta. Non ha quindi difficoltà ad avventurarsi nel nuovo pensiero. Poco dopo le prime lezioni private, scrive: “Mi sono sprofondato nella filosofia kantiana, all’inizio per necessità: dò una lezione sulla Critica della ragion pura; dopo, da quando conosco la Critica della ragion pratica, per autentico gusto”.1

È il primato della ragion pratica che desta subito il suo interesse per Kant.

Nel 1791, avendo accettato un altro posto di precettore a Varsavia, Fichte decide di raggiungere Königsberg per far visita a Kant. Vi arriva in luglio e vi si ferma fino a ottobre. Non viene ricevuto “in modo particolare” da Kant, ma, come molti visitatori colti, si ferma per seguire le sue lezioni. Kant non lo entusiasma, gli sembra “sonnolento”. Non si aspettava molto da quelle lezioni: “I suoi collegia – scrive – non sono utili quanto i suoi scritti. Il suo corpo debole è stanco di ospitare uno spirito così grande. Kant è già molto fragile e la memoria inizia ad abbandonarlo”.

Non sapendo come combinare un’altra visita, decide di “lavorare a una critica di ogni rivelazione”, che scrive in sei settimane e fa avere a Kant.

“Una mattina – scrive Borowski, uno dei primi biografi di Kant – [Fichte] portò quel manoscritto a Kant, gli si raccomandò con la propria modestia, lo prego di dargli un giudizio e, nel caso che avesse considerato quello scritto degno di stampa, di aiutarlo a trovare, benché ignoto in città, un editore; Kant gli promise di fare tutto quanto era possibile. Lo stesso giorno, verso sera, incontrai Kant alla passeggiata. Per prima cosa mi disse: «Lei mi deve aiutare, aiutare subito, per procurare a un giovane senza pane nome e anche denaro; occorre ottenere la buona disposizione di suo cognato (il libraio Hartung); veda, quando avrà letto il manoscritto che le mando oggi stesso di convincerlo a pubblicarlo»”.

Benché Kant pensasse che il manoscritto fosse buono abbastanza per essere pubblicato (dopo aver letto fino al terzo paragrafo), Fichte lo rivede e lo fa leggere anche a Borowski e a Schulz. Il libro, ultimato presto, è pubblicato, per ritardi dovuti alla censura, solo per la fiera libraria di Pasqua a Lipsia del 1792. L’aiuto di Kant è molto importante per Fichte, anche perché la Critica di ogni rivelazione, pubblicata per caso anonima dall’editore di Kant, viene subito attribuita a Kant. Questi reagisce con una “rettifica” di fine luglio dello stesso anno, facendo notare di non aver avuto “né per scritto né oralmente la minima parte nel lavoro di quest’uomo di talento” e che l’autore era “il candidato in teologia signor Fichte”, aggiungendo che era suo “dovere lasciare intatto l’onore a colui cui spettava”.

Naturalmente la dichiarazione di Kant rende subito famoso Fichte e ne fa il principale tra i tanti kantiani del momento.

“Si può sostenere – scrive Manfred Kuhen – che Fichte avrebbe avuto un impatto molto minore se il libro fosse uscito a suo nome. Kant aveva anche altri motivi per assicurarsi che esso non fosse considerato opera sua. Benché la Critica di ogni rivelazione inizi da una prospettiva kantiana, affermando che la moralità viene prima della religione e che ciò ci rende ricettivi alla rivelazione, attribuiva, però, alla religione e alla rivelazione un’importanza maggiore di quanto Kant fosse disposto a riconoscere. Per Fichte, la religione doveva rispondere al problema di come «le proposizioni ammesse per la determinazione della nostra volontà hanno effetto su di noi dal punto di vista pratico». Per Kant questa non era una domanda aperta e, benché sarebbe stato d’accordo sul fatto che «l’idea di Dio come legislatore per mezzo della legge morale in noi si fonda […] su un’alienazione di qualcosa di soggettivo in un essere fuori di noi» e che «tale alienazione è il vero principio della religione», non l’avrebbe posta in questi termini. In un certo senso, Kant segnava una distanza tra le proprie posizioni e quelle di Fichte; erano kantiane, ma non erano Kant”.2

Fichte, adesso, si pensa e si presenta come filosofo kantiano. Presto si pensa come più kantiano di Kant stesso: convinto che la rivoluzione copernicana di Kant non sia stata portata a termine dal suo autore, lavora intensamente a questo compito. Lavora con la convinzione che il pensiero, che va elaborando febbrilmente, possa essere lo sviluppo completo e coerente, finalmente unitario e sistematico, del pensiero di Kant.

Spostando il centro della sua filosofia dall’oggetto del pensiero al soggetto, la rivoluzione copernicana kantiana ha liquidato la vecchia metafisica dogmatica, tesa fin dall’antichità alla ricerca di un archè, di un principio primo, a partire dal quale organizzare il sistema della realtà. Intendendo quel primo principio sempre come oggetto del pensiero e, quindi, sempre come un dato assunto non criticamente, un dato che spiega tutto, ma non se stesso, la vecchia metafisica si è impigliata in un dogmatismo insuperabile. Si pensi ad esempio all’atto puro di Aristotele, che è la ragione immobile di tutti i movimenti, ma sta lì come un postulato, un dato assunto per necessità logica, un principio alla base di tutte le deduzioni possibili, ma non dedotto da se stesso. Anche l’idea tradizionale, di origine biblica, di Dio ha lo stesso limite: Dio ha creato dal nulla tutte le cose, ma sta lì come un dato che viene pensato per spiegare tutte le cose come cose create, ma che non offre la spiegazione di se stesso. Il primato kantiano della ragion pratica, invece, secondo Fichte, operando, anche in campo etico, una rivoluzione copernicana, aprirebbe una nuova strada. Ma, Kant vi si sarebbe fermato sul limite d’ingresso: Kant, infatti, avrebbe trovato nel soggetto umano l’assoluto, la libertà senza condizioni, ma non avrebbe sviluppato fino in fondo le decisive conseguenze che ne deriverebbero.

Kant, pensa Fichte, è arrivato alla soglia della nuova metafisica, non dogmatica, critica, ma non l’ha varcata. Non ha costruito sull’esperienza interiore della libertà morale il nuovo sistema metafisico: ha costruito, invece, tre mondi della soggettività umana, quello del soggetto conoscente, quello del soggetto morale e quello del soggetto riflettente; ma non li ha ricondotti ad unità; non ha cercato ciò che sta alla base delle tre diverse unità.

Servendoci della metafora della trinità divina, potremmo dire che è arrivato al triteismo senza approdare alla loro unità trinitaria. Avrebbe potuto, in virtù del primato della ragione pratica, spiegare quelle tre soggettività come articolazioni di un solo soggetto libero, assoluto. Invece, in Kant le tre soggettività razionali sono rimaste radicalmente diverse tra loro. In particolare, l’io penso rimane una funzione puramente formale e l’idea di anima è frutto di un paralogismo. Kant ha sì stabilito l’assolutezza del dovere, ma, senza arrivare all’assoluto che ne è alla base. Avrebbe potuto avvalersi dell’intuizione intellettuale, intesa anch’essa in armonia con la rivoluzione copernicana, intendendola, cioè, non come intuizione intellettuale di un oggetto, ma, della stessa soggettività.

Fichte s’impegna a portare a compimento la rivoluzione copernicana di Kant: avvalendosi del primato della ragion pratica, varca la soglia che Kant non ha varcato, va oltre l’io penso di Kant e arriva all’Io assoluto, che, ponendo se stesso, dissolve ogni residuo dogmatico e diventa il principio unitario per spiegare sia l’azione morale che la conoscenza dell’oggetto, rimuovendo quel macigno dogmatico che nel sistema kantiano è la “cosa in sé”.

Si tratta di andare oltre l’imperativo categorico e di accedere al soggetto libero, assoluto, che lo produce. Cosa che Fichte ritiene di poter fare avvalendosi dell’intuizione intellettuale.

“Chiamo – scrive Fichte – intuizione intellettuale questo intuire se stesso che si pretende dal filosofo nel compiere l’atto per il quale l’io gli si genera. Essa è la coscienza immediata che io agisco, e di che cosa faccio nell’agire: è ciò in grazia di cui io so qualche cosa perché lo faccio. Che si dia una tale facoltà dell’intuizione intellettuale non può dimostrarsi per concetti, come non può ricavarsi dai concetti cosa essa sia. Ognuno deve trovare immediatamente in se stesso tale facoltà – in caso contrario non la conoscerà mai. La richiesta che essa debba essergli provata col procedimento dimostrativo è molto più stravagante di quanto sarebbe quella di un cieco nato che gli si spieghi, senza che egli abbia bisogno di vedere, cosa sono i colori.

È però possibile far capire a ciascuno, e in quell’esperienza che egli stesso ammette, che tale intuizione si presenta in ogni momento della sua coscienza. Non posso fare un passo, né muovere mano o piede, senza l’intuizione intellettuale della mia autocoscienza in queste azioni; soltanto in grazia di questa intuizione so che io lo faccio, soltanto per essa io distinguo il mio agire, e me in esso, dall’oggetto dell’agire, in cui m’imbatto. Chiunque si attribuisca una attività si richiama a questa intuizione. In essa è la fonte della vita, e senza di essa c’è la morte”.3

È, però, nell’esperienza morale che questa intuizione intellettuale approda alla certezza della nostra libertà assoluta. È lì, infatti, che viene evocata “la presenza in noi della legge morale, nella quale l’io viene rappresentato stagliantesi sublime, in grazia di lei, sopra tutte le modificazioni originarie, nella quale viene presunto in lui un agire assoluto, fondato assolutamente in lui e proprio in nient’altro; per cui l’io viene caratterizzato come un assolutamente attivo. Nella coscienza di questa legge, la quale, senza dubbio, non è ricavata da altro, ma è una coscienza immediata, è fondata l’intuizione dell’autoattività e della libertà; io vengo dato a me, mediante me stesso, come qualcosa che deve essere attivo in un certo modo, vengo dato quindi a me, mediante me stesso, come attivo in generale; ho la vita in me, e la ricavo da me. Soltanto in grazia di questo medium che è la legge etica io mi vedo; e se mi vedo così, mi vedo necessariamente come autoattivo; e così sorge in me, in una coscienza che altrimenti sarebbe soltanto la coscienza di una successione di mie rappresentazioni, l’ingrediente completamente allotrio che è la causalità reale di me stesso”.4

L’intuizione intellettuale, che per Kant non è una possibilità umana, è, invece, per Fichte fondamentale.

“L’intuizione intellettuale – scrive Fichte – è l’unico punto fermo per ogni filosofia. Muovendo da esso è possibile spiegare tutto ciò che si presenta alla coscienza; ma anche da esso soltanto. Senza autocoscienza non c’è coscienza; l’autocoscienza però è possibile soltanto nel modo che si è indicato: io sono soltanto attivo. Non posso essere spinto al di là di questo punto fermo; la mia filosofia diventa qui interamente indipendente da ogni arbitrio, diventa un prodotto della ferrea necessità, nel senso in cui si può parlare di necessità per la ragione libera: prodotto, cioè, della necessità pratica. Non posso andar oltre questo punto perché non mi è consentito di andar oltre; in questo l’idealismo trascendentale si mostra come l’unico atteggiamento mentale in filosofia che sia conforme al dovere, l’atteggiamento mentale nel quale la speculazione e la legge morale si congiungono intimamente. Nel mio pensare ho il dovere di prendere le mosse dal puro io, e di pensarlo assolutamente autoattivo; non determinato dalle cose, ma determinante le cose”.5

Un greco antico non avrebbe mai scritto queste cose. Gli dei greci sono sì dotati di grandi poteri ma non sono onnipotenti: anche loro devono fare i conti con ciò che è. A maggior ragione deve tenerne conto l’uomo.

Il dio biblico, invece, ha davanti a sé solo il nulla, non è “determinato dalle cose, ma determinante le cose”. L’uomo di Fichte ne è la riproduzione a livello antropologico. Ma, quest’uomo non è quello di Kant, che è invece segnato da limiti insuperabili e costitutivi.

Fichte aspetta il riconoscimento di Kant, che non può arrivare. Kant, infatti, dopo la dichiarazione del 1792, tace. Passano sette anni dalla quella prima dichiarazione e, nell’agosto del 1799, sulla “Gazzetta letteraria universale”, ne compare un’altra, di natura ben diversa. Con essa, Kant segnala la sua distanza abissale da Fichte.

Kant non si lascia impressionare dall’accusa di non essersi liberato del tutto dal dogmatismo. Per lui la porta che Fichte ha varcato per dissolvere i residui dogmatici del kantismo è un’illusione: l’uomo è un essere limitato ed ha, per conoscere, solo l’intuizione sensibile; la “cosa in sé” è ineliminabile; l’intuizione intellettuale di cui Fichte si avvale è un chiudersi in un’operazione puramente logica, spacciata per accesso all’archè, al principio metafisico primo. È Fichte il vero dogmatico.

“Dichiaro – scrive Kant – con la presente che considero la Dottrina della scienza di Fichte un sistema totalmente insostenibile. Infatti, la pura dottrina della scienza non è niente di più, o niente di meno, che mera logica, la quale coi suoi principi non attinge il materiale della conoscenza, ma, in quanto logica pura, astrae dal suo contenuto”.

E, sulla pretesa fichtiana di aver portato a compimento la sua filosofia, scrive:

“Con l’occasione debbo ancora rilevare che è per me inconcepibile pretendere con arroganza di imputarmi il proposito di aver voluto fornire soltanto una propedeutica alla filosofia trascendentale e non il sistema di questa filosofia. Un simile proposito non mi sarebbe mai potuto venire in mente, poiché io stesso ho reputato che l’aver compiutamente esposto la filosofia pura come un tutto unitario nella Critica della ragion pura costituisse il contrassegno migliore della sua verità”.6

Per Kant, naturalmente, la sua filosofia è compiutamente sviluppata e la pretesa di Fichte di portarla a compimento unitario e sistematico va addebitata al fraintendimento che ne fatto, vedendoci ciò che in essa non c’è.

Fiche risponde sulla stessa rivista, negando che la sua filosofia sia pura logica e, in una lettera all’amico Schelling scrive che, se la filosofia di Kant non va intesa come egli la intende, è un “totale non senso”.

Solo interpretata e completata da Fichte, la filosofia di Kant avrebbe senso.

Se, per Kant, la sua rivoluzione copernicana comporta la rinuncia alle pretese conoscitive della metafisica tradizionale e la serena accettazione dei limiti umani, per Fichte, invece, essa, spostando la centralità dall’oggetto al soggetto, ha scoperto il perno su quale costruire finalmente quel sapere saldissimo che la vecchia metafisica non è mai riuscita a realizzare.

C’è in questo scontro di fine secolo uno dei tanti riflessi di quel profondo conflitto che si sta aprendo fra il secolo dei lumi e quello romantico; in sede filosofica, tra la filosofia dei limiti e quella dell’infinito.

Torino 24 novembre 2015

Note

1 Ricavo questa citazione, come le seguenti notizie sulla visita di Fichte a Königsberg, da Manfred Kuhen, Kant. Una biografia, Il Mulino 2011, pp. 517-8.

2 Ib. pp. 528-9.

3 Seconda introduzione alla dottrina della scienza, § 5, in Fichte, Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, a cura di Claudio Cesa, Laterza 1999, pp. 44-45.

4 Ib. pp. 47-48.

5 Ib. p. 48.

6 Ho tratto queste dichiarazioni di Kant da Fulvia de Luise, Giuseppe Farinetti, Lezioni di storia della filosofia B, Zanichelli editore 2010, pp. 773-74.

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 09-02-2016