Fichte: I tratti fondamentali dell’epoca presente

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Fichte: I tratti fondamentali dell’epoca presente

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Fichte

Giuseppe Bailone

Tra il 1804 e il 1805, Fichte tiene diciassette lezioni di filosofia “popolare” su “I tratti fondamentali dell’epoca presente”, che pubblica nel 1806.

Egli è convinto di vivere un momento storico particolarmente importante, intenso e di transizione. Si tratta, infatti, del tempo della rivoluzione americana, della rivoluzione francese, dell’impresa napoleonica, che hanno cambiato il volto della storia e impresso una forte accelerazione al suo corso.

Nella prima lezione, tenuta la domenica del 4 novembre 1804, fissa i concetti fondamentali della sua filosofia della storia.

Fichte, filosofo rigorosamente sistematico, comincia con il precisare che cosa intende per “quadro filosofico dell’epoca attuale”.

È “filosofica solo quella visione che riconduce un molteplice esistente dell’esperienza all’unità del principio uno e comune, e di nuovo spiega e deduce esaustivamente da questa unità quel molteplice”.1

Ci sono due modi radicalmente diversi di parlare del proprio tempo, quello del “cronista” e quello del filosofo.

Il cronista è un empirista, che raccoglie e narra “taluni fenomeni rilevanti nel modo in cui gli si presentano nell’osservazione contingente, senza poter mai esser sicuro di averli colti nella loro interezza, e senza poter mai indicare una connessione dei medesimi diversa da quella in cui essi sono ora raccolti proprio in un solo e medesimo tempo”. Il filosofo del proprio tempo, invece, “cercherà un concetto dell’epoca indipendente da ogni esperienza, che in quanto concetto non può comparire in alcuna esperienza, ed esporrà i modi in cui questo concetto compare nell’esperienza, in quanto fenomeni necessari di quest’epoca; in questa esposizione poi egli avrà esaurito dal punto di vista concettuale i fenomeni, avendoli dedotti tra loro nella necessità della loro connessione mediante il concetto fondamentale a loro comune”.

Il cronista si ferma al contingente, il filosofo arriva alla “necessità”. Il primo registra i fatti e cerca di farne una composizione d’insieme, il secondo parte dall’unità concettuale. Entrambi compiono un’analisi e una sintesi, ma il filosofo lo fa a partire dal principio unitario, che orienta sia l’analisi sia la sintesi; il cronista si limita a raccogliere i singoli elementi nella loro particolarità senza vederli come parte di un tutto, e poi costruisce un tutto come messa insieme di quegli elementi, facendo operazioni che non possono, pertanto, mai essere esaustive. La differenza la fa l’elemento a priori, fondamentale nel lavoro del filosofo, assente in quello del cronista.

Fare filosofia, per Fichte, significa non limitarsi ai fatti così come si presentano nell’esperienza, ma approfondirne il significato, riconducendoli a quell’unità concettuale a priori che li sistema in un ordine necessario.

Per capire filosoficamente il proprio tempo, però, questo non basta: il proprio tempo è solo una parte del tempo tutto, un elemento della totalità temporale.

S’impone, quindi, la necessità filosofica di coglierlo nel suo rapporto necessario con la totalità temporale di cui è parte. Anche qui, però, non ci si può fermare al contingente, come fa il cronista. Bisogna poter contare su una comprensione unitaria dell’avventura umana, su una filosofia della storia.

“È chiaro pertanto che, per caratterizzare correttamente sia pure una singola epoca e, se ne ha intenzione, il filosofo deve aver compreso semplicemente a priori e penetrato nell’intimo l’intero tempo e tutte le sue possibili epoche.

Questa comprensione dell’intero tempo ne presuppone, al pari di ogni comprensione filosofica, un concetto unitario, il concetto di un compimento predeterminato quantunque progressivo di questo tempo, nel quale ogni successivo anello è condizionato da quello antecedente; o, volendo esprimere ciò più concisamente e nella maniera usuale, essa presuppone un piano universale, di cui si possa chiaramente intendere l’unità e da cui si possano dedurre appieno e vedere in maniera distinta le epoche capitali della vita umana sulla terra, così nella loro origine come nella loro reciproca connessione. Il primo, vale a dire quel piano, è il concetto unitario dell’intera vita dell’uomo sulla terra; le ultime, ovvero le epoche capitali di questa vita, sono i concetti unitari di ogni epoca particolare, or ora menzionati, da cui devono essere nuovamente dedotti i suoi fenomeni.

Abbiamo quanto segue: anzitutto, un concetto unitario dell’intera vita, che si scinde in differenti epoche intelligibili solo l’una assieme all’altra e mediante l’altra; indi, ognuna di queste epoche particolari è di nuovo concetto unitario di una particolare era e si manifesta in molteplici fenomeni”.

Compaiono subito con nettezza, in questi passi citati dalla prima lezione, i due tratti, l’unilinearità e la necessità, dell’idea di progresso storico destinata ad affermarsi ampiamente nell’Ottocento e oltre.

Il primo fondamentale concetto, “la prima pietra dell’edificio da costruire”, è il senso unitario e necessario della vicenda umana sulla terra.

Lo scopo della vita dell’umanità sulla terra è di istituirvi con libertà tutti i rapporti secondo ragione”.2

La ragione che si realizza progressivamente e unilinearmente nella storia non è quella facoltà umana limitata di cui parlavano i filosofi illuministi: è la ragione assoluta, che si realizza, di volta in volta, nelle realtà umane finite e determinate, ma non si esaurisce in esse.

La storia umana è opera di un principio infinito, divino, che si fa umanità concreta e ne determina il cammino storico.

Fichte, aggrappandosi all’imperativo categorico e alla ragion pratica assoluta di Kant, è andato molto oltre la concezione illuministica della ragione: la ragione di cui parla in queste lezioni è Dio stesso, inteso come Provvidenza storica. È questo il vero e unitario soggetto della storia umana.

Colto il senso unitario della storia tutta, questa può essere studiata nelle sue articolazioni: la storia, infatti, è una, ma è fatta di parti e va quindi divisa.

La prima divisione della storia è da farsi in due “capitali epoche ed ere”.

C’è una prima grande epoca, “in cui il genere vive ed è, senza aver ancora istituito con libertà i suoi rapporti secondo ragione”; e una seconda, in cui il genere umano “realizza con libertà questa istituzione secondo ragione”.

Fichte spiega e precisa: “Dal fatto che il genere umano non ha ancora istituito con libero atto i suoi rapporti secondo ragione, non ne consegue che questi rapporti in generale non si indirizzino verso quest’ultima, e perciò insieme alla prima cosa non si deve assolutamente asserire la seconda. Sarebbe possibile che la ragione, per se stessa e per forza propria, abbia determinato e ordinato i rapporti dell’umanità, senza alcun concorso della libertà umana. E così, poi, è realmente. La ragione è la legge fondamentale della vita di una umanità come di ogni vita spirituale; e in questo e in nessun altro modo andrà assunto in queste conferenze il termine «ragione». Senza l’efficacia di questa legge un genere umano non può affatto venire all’esistenza, o, se potesse venirvi, non può persistervi un attimo in assenza di essa. Di conseguenza, là dove non può ancora operare tramite la libertà, come nella prima epoca, la ragione opera come legge e come forza naturale; tuttavia in maniera tale da sopravvivere e mostrarsi all’opera nella coscienza, senza però cognizione dei principi e pertanto nel sentimento oscuro (così designiamo infatti la coscienza priva della cognizione dei principi).

Detto in breve e con linguaggio ordinario: la ragione opera come oscuro istinto là dove non può operare tramite la libertà”.3

È del tutto evidente che il cronista della storia, col suo affidarsi all’accertamento empirico dei fatti, non può assolutamente arrivare a cogliere in questi il manifestarsi della ragione assoluta come “oscuro istinto”. Ci vuole da subito un avvio aprioristico, come solo il filosofo è in grado di fare.

La storia la fa la ragione, prima e dopo l’affermarsi progressivo della libertà.

In questa filosofia fichtiana della storia l’umanità è sempre considerata come genere, nel suo insieme, senza fermarsi ai diversi individui umani.

Una seconda articolazione della storia prospetta cinque grandi epoche, che Fichte presenta sinteticamente più volte, quasi sempre negli stessi termini, nelle prime lezioni.

  1. “L’epoca del dominio incondizionato della ragione mediante l’istinto: stato di innocenza del genere umano.

  2. L’epoca in cui l’istinto di ragione è mutato in un’autorità esercitante una costrizione esteriore: l’età dei sistemi di dottrina e di vita positivi, che mai risalgono ai principi ultimi e per questo non sono capaci di convincere, ma hanno brama di costringere, esigendo fede cieca e obbedienza incondizionata: stato dell’incipiente peccato. [Nella quinta lezione c’è, nella definizione di quest’epoca, un elemento in più, che la rende meglio: “Quella in cui questo istinto, che è divenuto più debole e si esprime ancora solo in pochi eletti, viene trasformato da costoro in un’autorità esteriore costrittiva per tutti”]

  3. L’epoca della liberazione, immediatamente dall’autorità imperante, mediatamente dall’egemonia dell’istinto di ragione e della ragione in generale, in tutte le sue forme: l’età dell’assoluta indifferenza verso ogni verità e dell’assoluta sfrenatezza senza un filo conduttore: stato della completa peccaminosità. [Nella quinta lezione: “Quella in cui questa autorità, e con essa la ragione nell’unica forma in cui essa è finora esistita, sono rigettate”]

  4. L’epoca della scienza della ragione: l’età in cui la verità viene riconosciuta come ciò che è supremo e viene amata nel modo più elevato: stato della nascente giustificazione.

  5. L’epoca dell’arte della ragione: l’età in cui l’umanità con mano sicura e infallibile si erige essa stessa nella copia precisa della ragione: stato della compiuta giustificazione e santificazione”.4

“L’intero cammino – continua Fichte – che secondo questa enumerazione l’umanità ha percorso quaggiù non è altro però che un ritorno al punto in cui già si trovava in principio, e non si propone che di far ritorno alla propria origine. Solo che l’umanità deve compiere questo cammino con le proprie gambe: affidandosi alle proprie forze, essa deve fare nuovamente da sé ciò che è stata senza alcun apporto da parte sua; e per questo motivo essa doveva cessare di essere tale. Se non potesse fare di sé in prima persona ciò che è in se stessa, l’umanità non sarebbe precisamente una vita in atto; e in generale, poi, nessuna vita sarebbe effettivamente divenuta, ma tutto sarebbe perdurato in un essere morto, immobile e rigido. In Paradiso – per servirmi di una nota immagine – nel Paradiso del retto agire e dell’esser retto senza sapere, sforzo e arte, l’umanità si desta alla vita. Appena ha preso l’ardire di rischiare la propria vita, giunge l’angelo armato di spada di fuoco che [/] costringe a esser giusto, e la caccia dalla sede della sua innocenza e della sua pace. Senza requie e fuggitiva, l’umanità va errando ora per i desolati deserti, a stento azzardandosi a fissare dimora, per paura che ogni suolo sprofondi sotto i suoi passi. Divenuta più audace per la necessità, essa s’insedia infine miseramente, e col sudore della sua fronte dissoda il suolo dalle spine e dai cardi dell’imbarbarimento per coltivare l’amato frutto della conoscenza. Il piacere che le procura le apre gli occhi e rende ferma la sua mano, ed essa si costruisce da sé il suo Paradiso a immagine di quello perduto; cresce per lei l’albero della vita, essa tende la sua mano verso il frutto, e mangia, e vive nell’eternità”.5

La storia umana è un viaggio di ritorno. Il suo punto d’arrivo è dato dal suo inizio, che va riguadagnato con un lungo percorso della coscienza, intesa come progressiva comprensione dell’ordine razionale, necessario, divino, che eternamente governa il mondo. E la libertà è da intendersi come coscienza di questa necessità. Il percorso è preordinato: le grandi epoche della storia sono cinque, aprioristicamente dedotte; non ce ne sono altre.

Questo percorso, come già abbiamo notato, riguarda l’umanità come genere. Gli individui di una stessa epoca possono trovarsi in posizioni diverse: non tutti “sono realmente prodotti del proprio tempo e nei quali questo tempo si esprime nel modo più chiaro. Qualcuno può essere in ritardo sulla propria epoca, perché nel corso della propria formazione non è mai venuto a contatto con una massa sufficiente dell’individualità universale, mentre la cerchia ristretta in cui si è formato è ancora un residuo del tempo passato. Un altro può essere in anticipo sulla propria epoca e recare già in petto l’esordio del tempo nuovo, mentre tutt’intorno domina il tempo per lui passato, ma in verità effettivo, presente ed attuale”.6

All’inizio della seconda lezione, Fichte ripete la sua idea di storia: “La vita del genere umano non dipende dal cieco caso, né è dappertutto uguale a se stessa, come spesso si lascia percepire in superficie, talché sempre sarebbe stata e sempre rimarrà com’è ora; bensì essa compare e avanza secondo un piano stabilito che deve necessariamente essere conseguito, e perciò lo sarà di sicuro”.7 Poi, ripetute anche le cinque epoche storiche, passa a parlare di quella attuale, la terza, quella che “si libera dall’istinto di ragione impostole con una costrizione imperiosa”.

Precisa subito che in quest’epoca non colloca “tutti gli individui viventi, ma solo quelli che sono prodotti del tempo e nei quali la loro epoca si esprime in maniera chiara e pura”. E fa per le nazioni un’analoga puntualizzazione: “Chiaramente, si può giudicare e conoscere un’epoca solo in quelle nazioni che si trovano al culmine della cultura; ma poiché la cultura è passata da un popolo all’altro, anche una medesima epoca potrebbe facilmente passare con questa cultura da un popolo all’altro, restando invariabilmente la stessa nel suo principio, malgrado ogni mutamento del clima e del suolo, e, dunque, in virtù del fine di unificare tutti popoli in una grande comunità, il tempo potrebbe arrestarsi nel medesimo luogo per un considerevole tratto del tempo cronologico e costringere per così dire all’immobilità il corso del tempo. In particolare, potrebbe verificarsi con un’epoca come quella che abbiamo da descrivere in cui dei mondi affatto avversi si scontrino e si combattano tra loro, sforzandosi di raggiungere lentamente un equilibrio e con ciò di ottenere l’estinzione spontanea del tempo antico”.8

Ecco allora la massima di coloro che si collocano pienamente nell’epoca attuale: “Non ammettere assolutamente nulla come esistente e vincolante, se non quanto si comprende e si concepisce chiaramente”.9

Gli uomini, in un primo tempo guidati dall’istinto della ragione, poi dall’autorità di pochi individui, si liberano, adesso, di ogni autorità e guida. Diventano maggiorenni, autonomi; ma, per Fichte, quest’autonomia è ancora immatura e produce scetticismo generalizzato.

In questa terza epoca, infatti, l’umanità, avendo imparato a servirsi della ragione, lo fa imponendo il suo punto di vista particolare. Genera così una babele caotica di posizioni e di teorie. Avviene, cioè, che gli uomini, avendo imparato a fare qualche passo da soli, si liberano di ogni autorità e si perdono nel vuoto.

“In quanto avversaria dichiarata di ogni cieco istinto di ragione e di ogni autorità, questa terza epoca – sostiene Fichte nella quinta lezione – ha eretto a massima di non accordare semplicemente a null’altro validità che a quanto essa concepisce – va da sé – immediatamente con il sano intelletto dell’uomo, già esistente ed ereditato senza sforzo e lavoro da parte sua. […]

La ragione, quale che sia la forma in cui si presenta, se in quella dell’istinto o in quella della scienza, si volge sempre alla vita del genere in quanto tale; eliminata e soppressa che sia la ragione, null’altro resta che la semplice vita personale dell’individuo; di conseguenza, alla terza epoca, che si sbarazza della ragione, non resta altro che quest’ultima vita; ovunque essa si sia manifestata realmente in se stessa e sia giunta a coerenza e chiarezza, non resta null’altro che il mero egoismo puro e nudo; da ciò segue allora in maniera del tutto naturale che l’innato e saldo intelletto della terza epoca non possa assolutamente essere né contenere nient’altro che l’accortezza di promuovere il proprio vantaggio personale.

I mezzi per la conservazione e il benessere della vita personale possono essere rinvenuti unicamente attraverso l’esperienza, poiché né l’istinto animale, come nella bestia, né la ragione che ha per scopo soltanto la vita del genere, sono istruttivi in proposito; e di qui deriva, come un tratto caratteristico di una tale epoca, la magnificazione dell’esperienza come unica fonte del sapere. […]

In breve, la fondamentale proprietà permanente e il carattere di tale epoca è di fare solo per sé e per il suo proprio utile ogni autentico prodotto della medesima, tutto quel che essa pensa e fa; allo stesso modo che il principio opposto di una vita conforme a ragione è consistito nel fatto che ognuno sacrifica la propria vita a quella del genere, o – poiché si è trovato in seguito che il modo in cui la vita del genere è entrata nella coscienza ed è diventata forza e impulso nella vita dell’individuo si chiama idea – nel fatto che ognuno pone la sua vita personale e ogni forza e ogni piacere della medesima a servizio delle idee. […]

Anzitutto, è nella differenza indicata, secondo che la vita sia posta unicamente al servizio di ciò che è personale e vi sia assorbita, o sia sacrificata all’idea, che risiede in generale la differenza tra la vita contraria e quella conforme alla ragione; e per ciò che riguarda l’ultima non fa qui alcuna differenza se quest’idea si manifesti interiormente come oscuro istinto nella prima epoca, o se sia suscitata dall’esterno con autorità imperiosa nella seconda, o se sia presente nella scienza in maniera limpida e chiara nella quarta, o domini con uguale chiarezza, in quanto arte della ragione, nella quinta. A questo riguardo, la terza epoca non si oppone affatto a una delle restanti in particolare, ma, assolutamente contraria alla ragione quanto al contenuto, si oppone a tutto il resto del tempo ugualmente conforme alla ragione quanto al contenuto, solo ogni volta sotto un’altra forma esteriore”.10

La storia è governata dalla ragione prima e dopo l’epoca attuale, quella della “compiuta peccaminosità”. Questa, tuttavia, è un momento necessario perché si affermi consapevolmente e liberamente la ragione nella storia.

La critica all’illuminismo, come età della critica, dell’individualismo, dei diritti individuali, dell’egoismo e dell’utilitarismo, non poteva essere più radicale: esso è il momento della perdita di ogni rapporto con la ragione, con l’idea, dello smarrimento dell’umanità nel particolarismo empirico; ma questo, come la notte, prepara il nuovo giorno della storia umana. Fiche, formatosi in ambiente culturale illuministico, ne prepara il superamento, che è, nello stesso tempo, un recupero del passato e della tradizione in forma nuova.

Nell’epoca presente domina il concetto, in assenza dell’idea.

Fiche usa qui il termine “concetto” con un significato riduttivo, per distinguerlo dall’idea. Distingue, infatti, “i concetti che possono venire nell’intelletto dell’uomo meramente sensibile per via dell’esperienza, e le idee che, senza il minimo concorso dell’esperienza, si infiammano in colui che è ispirato grazie alla vita in se stessa autonoma”.11

Sostiene di aver “storicamente provato che da sempre si è vissuto nelle e mediante le idee, e che tutto ciò che di grande e di buono si trova adesso nel mondo è prodotto di questo modo di vita”.12

L’epoca presente, invece, si presenta sì come l’epoca della scienza, ma di una scienza costruita solo con concetti. È quindi un’epoca che della scienza ha solo la forma vuota, “dato che le difetta del tutto ciò per mezzo del quale soltanto la scienza riceve un contenuto: l’idea”.13

Infatti, “l’idea, là dove essa prende a vivere, dona una forza e un’energia incommensurabili, e da essa soltanto scaturisce forza; pertanto, un’epoca che faccia a meno delle idee sarà un’epoca debole e molle, e tutto quel che ancora fa e in cui dà segni di vita lo attuerà in modo fiacco e malsano”.

Ecco, allora, che le comunicazioni scientifiche di quest’epoca “somigliano a della sabbia lanciata in aria, in cui ogni granello è precisamente per sé anche un tutto, e tutti non son tenuti assieme che dall’aria vuota. Una trovata magistrale per l’esposizione di un’epoca simile sarebbe se si riuscisse a presentare le scienze secondo l’ordine alfabetico”.14

Ecco colpita e affondata, come in un gioco a battaglia navale, l’impresa più significativa della cultura illuministica, l’Enciclopedia!

Ben diversa è la comunicazione delle idee.

“Non è così per chi ha da comunicare delle idee e viene spinto da esse alla comunicazione. Non è lui stesso che parla, ma è l’idea che parla o scrive in lui servendosi di tutta la forza insita in essa; e buona è solo quella conferenza in cui non è l’oratore a voler presentare la cosa, ma la cosa stessa si esprime e si configura in parole attraverso l’organo dell’oratore. Che almeno un tempo vi siano state conferenze simili, e che da sempre non si sia evitato di infervorare il lettore e l’ascoltatore, lo provano gli scritti che ancora ci restano dell’antichità classica, di cui la terza epoca, se è carente, cercherà di abolire lo studio, e di far passare di moda l’apprendimento delle loro lingue, perché essa soltanto abbia il pregio e l’onore nelle sue opere.

L’idea, e solo l’idea, riempie, appaga e vivifica l’animo; pertanto, un’epoca priva delle idee deve necessariamente avvertire un gran vuoto, che si manifesta come noia infinita, da cui non ci si può mai sollevare a fondo e che sempre ritorna; essa deve tanto provare quanto procurare noia. Presa da questo spiacevole sentimento, tale epoca cerca di ricorrere a quel che le appare come l’unico antidoto: l’arguzia”. Questa, però, le rimane negata, “perché solo chi è capace di idee è anche capace di fare dello spirito”.15

Gli uomini si perdono nella “compiuta peccaminosità”, ma questa non è la fine del mondo e della storia: la fortissima tensione etica, che l’ha sempre sostenuto, porta Fiche a pensare che, toccato il fondo, l’uomo si rialza, che il peccato è la condizione del riscatto morale. Anche e soprattutto perché la storia non la fa l’uomo con i suoi limiti, ma la ragione assoluta, che in quei limiti si cala per realizzarsi.

Manca ancora mezzo secolo alla pubblicazione dell’idea di Darwin, ma, Fichte, nella nona lezione, si presenta già nettamente contrario a un’antropologia che non ponga una distanza radicale tra l’uomo e gli altri animali. Respinge, infatti, la collocazione che Linneo fa dell’homo sapiens nell’ordine dei primati e i tentativi dei naturalisti legati all’impresa dell’Enciclopedia di spiegare, anche con il soccorso dei racconti di esploratori sulle condizioni dei popoli ancora molto lontani dalla civiltà europea, la nascita progressiva della cultura a partire dallo stato selvaggio umanità:

“Le travagliate ipotesi che si sono […] accumulate nei resoconti di viaggio, sono, a nostro avviso, fatica e lavoro sprecati. Da nulla si guardino maggiormente sia la storia che una certa semi-filosofia che dalla fatica completamente irrazionale e ognora vana di innalzare alla ragione la sragionevolezza attraverso una progressiva diminuzione del suo grado, e – se si concede loro una serie sufficiente di millenni – di far discendere infine da un orangutan un Leibniz o un Kant!”.16

L’ottimismo e il provvidenzialismo, che caratterizzeranno molte filosofie della storia ottocentesche, sono già ben presenti in queste lezioni.

“Una tale epoca del puro e semplice concetto di esperienza – scrive Fichte all’inizio dell’ottava lezione – e del mero sapere formale provoca, già per la sua essenza, il contrasto con sé, e reca in se stessa il fondamento della propria reazione contro se stessa”. Nel male stesso c’è il suo antidoto: “Non può invero mancare che singoli individui, o perché avvertono l’arida desolazione e la terribile vacuità dei risultati del principio stabilito, o per semplice desiderio di avviare qualcosa di assolutamente nuovo – desiderio che abbiamo finanche rinvenuto tra i tratti fondamentali dell’epoca – non può mancare, dico, che questi individui, rovesciando, addirittura il principio dell’epoca, additino appunto come la rovina e come la fonte dei suoi errori la pretesa di voler concepire tutto”.

Rovesciando, però, un principio sbagliato si trova sì un rimedio simmetrico opposto, ma altrettanto sbagliato: infatti, continua Fichte, costoro erigono “a proprio principio l’inconcepibile in quanto tale e in nome della sua inconcepibilità, come l’unico di cui vi sia bisogno, come la vera fonte di ogni guarigione”. 17

Affermare questo principio non apre affatto l’epoca nuova, la quarta, “poiché questa non biasima affatto quella massima della concepibilità in sé e per sé, dato che la riconosce piuttosto come sua, ma biasima solo il concetto cattivo e inadeguato che è posto a fondamento di questo concepire e di cui si fa il criterio di ogni validità”. Infatti, “quel principio dell’inconcepibilità contraddice la forma della scienza ancor più immediatamente di quanto faccia il principio della concepibilità di ogni cosa attraverso il semplice concetto sensibile di esperienza. Infine, questo principio dell’inconcepibilità, in quanto tale, non è nemmeno un’eredità del passato. […] L’assolutamente inconcepibile dell’antichità pagana e giudaica – il Dio che procede arbitrariamente, che non si può mai prevedere ma sempre temere, con cui non ci si poteva che affidare alla buona sorte – si imponeva loro contro il loro volere, ben lungi dal fatto che essi l’avessero cercato e volentieri ne sarebbero stati liberati. L’inconcepibile della Chiesa cristiana fu stabilito invece come verità, non perché era inconcepibile, ma – senza riguardo al fatto che era riuscito in qualche modo inconcepibile – perché poggiava nella parola scritta, nella tradizione e nei canoni ecclesiali. Mentre la massima che noi abbiamo introdotto stabilisce tout court l’inconcepibile in quanto tale, e precisamente in nome della sua inconcepibilità, come ciò che vi è di supremo; e per tale ragione è un fenomeno del tutto nuovo della terza epoca”.18 E, così, anche questo fenomeno “per quanto sembri essere apertamente contrario alla terza epoca, rientra tuttavia tra i fenomeni necessari di quest’epoca e non deve andar perduto di vista in una compiuta caratteristica della medesima”.

Per completare il quadro della terza epoca, Fichte, nella nona lezione, prende in considerazione lo Stato. Egli è, infatti, convinto che “i restanti tratti e le determinazioni caratteristiche di ogni epoca poggiano sulla natura della condizione sociale e più in particolare dello Stato, e vi vengono determinati”.19 Avvalendosi della filosofia della storia, si tratta di “esporre come s’è realizzato tra gli uomini il concetto razionale dello Stato e in quale stadio di sviluppo dello Stato assoluto si trovi la nostra epoca”.20

Ma, che cos’è lo Stato assoluto per Fichte?

“A nostro avviso, lo Stato assoluto – scrive nella decima lezione – è, nella sua forma, un istituto artificiale, volto a indirizzare tutte le forze individuali alla vita del genere e a fondervele, dunque a realizzare e a rappresentare esteriormente negli individui la forma dell’idea sopra descritta”.

Ci sono ancora elementi del contrattualismo, ma, si sta approdando a un’altra concezione, quella organicistica dello Stato.

Nello Stato, “l’individualità di tutti è interamente e assolutamente assorbita in questa costituzione, nel genere di tutti; e ognuno riottiene quel che ha dato in contributo per la forza generale, rafforzato dalla forza generale di tutti gli altri. Lo scopo dell’individuo isolato è il proprio piacere, ed egli adopera le sue forze come suo mezzo; lo scopo del genere è la cultura e la dignitosa sussistenza ne è la condizione. Nello Stato ognuno non impiega le proprie forze immediatamente per il proprio piacere, ma per lo scopo del genere; ed egli ne riottiene l’intero stato culturale in cui si trova il genere e in più la sua dignitosa sussistenza personale”.

Lo Stato “non è i singoli ma il permanente rapporto dell’uno con l’altro, di cui il lavoro dei singoli – quali esistono nello spazio – è il fattore di sopravvivenza e di trasformazione”.21

La piena e consapevole realizzazione dello Stato assoluto richiede che si affermi l’epoca della ragione delle due ultime epoche. Nelle epoche precedenti la realizzazione di questo fine è affidato all’«arte della natura», cioè all’azione della ragione assoluta che opera, nella prima epoca, attraverso l’istinto e, nella seconda, mediante l’autorità.

Fichte vede nel tempo presente, soprattutto in Germania, i segni di un movimento progressivo verso la realizzazione dello Stato assoluto o perfetto, che, per lui, è del tutto coincidente con la destinazione finale del genere umano.

“Lo scopo dello Stato – scrive nell’undicesima lezione – non è altro che quello dello stesso genere umano: che tutti i suoi rapporti vengano istituiti in base alla legge della ragione. Ora, lo Stato non si figurerà con chiara coscienza questo scopo che dopo l’epoca della scienza della ragione, nell’epoca dell’arte della ragione. Fino a quel momento esso continua a promuoverlo senza che lo sappia o che lo voglia in maniera ponderata, spinto dalla legge naturale dello sviluppo del nostro genere, e avendo di vista tutt’altro scopo; uno scopo, il suo, a cui la natura ha indissolubilmente legato quel primo che riguarda l’intero genere”.22

Il compito di realizzare la destinazione dell’umanità, che il Fichte di formazione illuministica affidava agli individui, passa adesso a quelle soggettività complesse e organiche che sono le formazioni politiche. Il saggio su Machiavelli del 1707 e la valorizzazione della ragion di Stato e, poi, i Discorsi alla nazione tedesca, iniziati nel dicembre del 1707, portano a maturazione il particolarissimo nazionalismo tedesco fichtiano.

Torino 11 gennaio 2016

Note

1 Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, a cura di Antonio Carrano, ed. Guerini e Associati, Milano 1999, p. 82.

2 Ib., p. 85.

3 Ib., p. 86.

4 Ib., p. 89.

5 Ib., pp. 89-91.

6 Ib. p. 92.

7 Ib. p. 96.

8 Ib. p. 99

9 ib. p.100.

10 Ib. pp. 151-53.

11 Ib. p. 154.

12 Ib. p.155.

13 ib. p.157.

14 ib.p.159.

15 Ib. pp. 159-160.

16 Ib. p. 233.

17 Ib. pp. 281-82.

18 Ib. pp. 206-7.

19 Ib. p. 295.

20 Ib. pp. 242-43.

21 Ib. pp. 246-49.

22 Ib. p. 266.

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

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Aggiornamento: 09-02-2016