Fichte sul Principe di Machiavelli

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Fichte sul Principe di Machiavelli

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Fichte

Giuseppe Bailone

Nel mese di giugno del 1707, a Königsberg, Fichte pubblica un saggio su Machiavelli, nel primo numero di Vesta, una neonata rivista d’ispirazione patriottica e antifrancese, soppressa il primo dicembre 1707 dallo stesso governo prussiano per adeguarsi alla proibizione napoleonica subito scattata.

Il momento è particolarmente drammatico per la Germania: la vittoria di Jena apre a Napoleone la strada per la conquista di Berlino e la corte prussiana si ritira a Königsberg, che così torna capitale. Fichte si trasferisce anche lui a Königsberg e si mette a disposizione delle autorità, per servire la patria in pericolo. Il saggio su Machiavelli approfondisce la svolta culturale e politica che egli sta maturando da qualche tempo. La sua adesione giovanile agli ideali illuministici, incardinati sui diritti individuali e orientati in senso umanitario e cosmopolitico, cede alla scoperta e all’apprezzamento dei valori nazionali, dell’etica dello Stato, e a una visione dei rapporti di forza fra gli Stati ispirata a Machiavelli.

“Il principio fondamentale della politica machiavelliana – e, aggiungiamo senza timore, anche della nostra, e, a nostro avviso, di ogni dottrina dello Stato che sia cosciente di sé – è racchiuso in queste parole di Machiavelli: «… è necessario a chi dispone di una Repubblica (o, in generale, uno Stato), ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi, e che gli abbino sempre usare la malignità dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione…». Non è qui necessario mettersi a discutere se gli uomini siano o no come li presenta quella proposizione; in una parola: è lo Stato, quale istituzione coercitiva, che li presuppone necessariamente così, e solo questa presupposizione fonda l’esistenza dello Stato. […] O per ricorrere ad altra espressione: lo Stato, come istituzione coercitiva, presuppone la guerra di tutti contro tutti, e il suo scopo è quello di produrre per lo meno l’apparenza esteriore della pace, e, anche se nel cuore perdurassero per così dire l’odio di tutti contro tutti e il piacere di avventarsi gli uni sugli altri, di evitare almeno che quest’odio e questo piacere si traducano in atto”.1

I precetti di Machiavelli riguardano sia il rapporto del sovrano con i sudditi che quello con gli altri Stati. Fichte apprezza e ritiene ancora molto attuali i secondi. Infatti, per lui, l’attuale situazione interna degli Stati e, in particolare, della Germania, rende superata “tutta quella parte dei precetti di Machiavelli riguardante il modo di sottomettere inizialmente un popolo recalcitrante al giogo della legge”. Invece, la parte dei precetti “riguardante i rapporti con gli altri Stati, lungi dall’essere superata, viene comprovata e più energicamente raccomandata dalle molteplici esigenze dei tre secoli passati, grazie alle quali è maturata, sviluppandosi da allora con un vigore e una pienezza del tutto nuove, la storia, nonché da una filosofia più profonda”.

Fichte vive il suo cambiamento come un approfondimento della sua filosofia, in linea con la convinzione di aver portato a compimento la rivoluzione di Kant e con la sua concezione lineare e progressiva della storia.

“Si è sicuramente al riparo – scrive – da ogni errore nel valutare il reciproco rapporto tra gli Stati se anche ad esso si pone a fondamento il principio riportato all’inizio, e si suppone che ognuno coglierà ogni occasione per danneggiare l’altro tutte le volte che crederà di scorgervi il proprio vantaggio.

Anche qui non ci si deve mettere a discutere, se gli uomini abbiano o no simili intenzioni; di questo non si è discorso, ne è questo il luogo per farlo. Abbiamo soltanto detto che si devono fare i propri calcoli sulla base di questo presupposto. Infatti, dal momento che è pur sempre possibile che uno agisca in quel modo, se l’hai previsto, e si verifica, sei al riparo; mentre, se non ti fossi premunito e ciò tuttavia si verificasse, ti troveresti indifeso e diventeresti sua preda; se ciò non si verifica, tanto meglio per te, che puoi impiegare a tuo vantaggio, in altra maniera, le forze preparate per resistere.

Pur senza presupporre in uno Stato la benché minima malvagità, è tanto più inevitabile che tra gli Stati si debba arrivare a questo rapporto di continua belligeranza, dal momento che non può mai vigere tra loro, come tra i cittadini di uno Stato circoscritto e ordinato, un diritto certo e sicuro. Certamente, si possono delimitare dei confini territoriali, ma non soltanto sul tuo territorio si estende il tuo diritto e si fonda la tua sicurezza, bensì anche sui tuoi alleati naturali e, in generale, su tutto ciò su cui puoi estendere la tua influenza e grazie a cui puoi ingrandirti in seguito. Inoltre, ogni nazione vuole diffondere quanto più ampiamente può ciò che ha di buono e, per quanto sta in lei, incorporarsi l’intera umanità, seguendo un impulso radicato da Dio negli uomini e sul quale si fondano le comunità dei popoli, i loro reciproci dissidi e il loro perfezionamento. Dato che tutti i popoli vogliono questo, essi vengono inevitabilmente a conflitto, fossero pure tutti retti da spiriti puri e perfetti; e la soluzione del problema, se questi sia l’alleato tuo o del vicino e dove devono essere posti i confini dell’influenza che vi spetta, raramente avrà la sua premessa nella ragione.

Così, lo spirito puro, che guidasse, per così dire, la nazione francese, sosterrà che tutto dipende dal fatto che la mentalità chiarificatrice e ordinatrice della propria nazione, s’estenda all’intero genere umano; che, perciò, davanti alla sua influenza ogni altro debba ritirarsi. Lo spirito puro che guida i Tedeschi dirà, al contrario, che quella forma mentis è vuota e che tutto dipende piuttosto dal fatto che il contenuto tedesco e la tranquilla, pur se non vivace, profondità del suo carattere si diffondano universalmente; e quindi, farà propria quella stessa conclusione che aveva tirato il primo. Lo spirito puro russo affermerà, invece, che tutto dipende piuttosto dalla possibilità che il vigore russo ritempri le altre nazioni europee un po’ debilitate; e concluderà la sua argomentazione allo stesso modo dei primi due. Così, questi spiriti puri, dotati delle migliori intenzioni e aventi per la propria coscienza perfettamente ragione, non mancheranno di farsi guerra.

Per far sì che i nostri politici d’ora in avanti non perdano di vista nemmeno per un attimo tale realtà, né permettano il sorgere in loro al riguardo del minimo dubbio o di una qualsiasi disposizione a tollerare una sola eccezione, sarebbe da desiderare che si convincessero di questi due principi:

  1. Il mio vicino, a meno che tu non debba considerarti come suo alleato naturale nei confronti di un’altra potenza per entrambi temibile, è sempre pronto, alla prima occasione, quando potrà farlo con sicurezza, ad ingrandirsi a tue spese. Lo deve fare, se è intelligente; e non può rinunciarvi, fosse pure tuo fratello.

  2. Non è affatto sufficiente che tu difenda il tuo territorio, tieni invece costantemente d’occhio ogni fatto che possa avere influenza sulla tua situazione, non tollerare che all’interno della tua zona d’influenza qualcosa venga modificato a tuo svantaggio, e non esitare un secondo a modificarvi qualcosa a tuo vantaggio, potendolo. Puoi star certo, infatti, che l’altro farà lo stesso non appena lo potrà, ma se tu sprechi l’occasione, ti troverai in una situazione d’inferiorità rispetto a lui. Chi non s’ingrandisce quando l’altro s’accresce, s’indebolisce.

Un privato può certamente dire: «Ho abbastanza, e non voglio niente più». Con questa sua moderazione, infatti, non corre il rischio di perdere anche quello che ha, dato che, se qualcuno minacciasse la sua vecchia proprietà, sa di poter rivolgersi al giudice. Al contrario, lo Stato che disdegna di appropriarsi delle nuove forze che gli si offrono per la difesa di ciò che già possiede, se viene in ciò minacciato, magari con quelle stesse forze, la cui acquisizione ha sprecato, non trova alcun giudice a cui poter denunciare la privazione. Uno Stato che praticasse abitualmente questa rinunciataria moderazione, dovrebbe essere o molto favorito dalla sua posizione o una preda di scarsa attrattiva, a meno che poco dopo non gli fosse tolto ciò di cui modestamente si accontentava, e non risultasse che le parole: «Io non voglio niente di più», volessero in realtà significare: «Io non voglio proprio niente, nemmeno esistere». È chiaro, del resto, che qui il discorso riguarda unicamente gli Stati di prim’ordine, aventi un peso autonomo nel sistema statale europeo, non certo gli Stati dipendenti.

Da ciò si ricavano due regole fondamentali. La prima – appena presentata insieme al secondo principio – suona: senza perder tempo, si colga ogni occasione per rafforzarsi all’interno della propria sfera d’influenza, e si sradichi immediatamente, sul sorgere, ogni pericolo che ci minacci all’interno di tale sfera, senza lasciargli il tempo di svilupparsi. Su questo argomento riferiamo più avanti le parole di Machiavelli, e, perciò, non ci soffermeremo qui più a lungo. La seconda: non ci si fidi mai della parola dell’altro, se si può estorcere una garanzia. Se, però, sull’istante ciò non dovesse essere possibile, da quel momento sia nostra massima cura procurarci quella garanzia, in modo che la caparra della semplice parola duri il minor tempo possibile. Ci si mantenga sempre nella situazione di poter estorcere fedeltà e fiducia; ciò presuppone che si continui ad essere il più forte, non in assoluto, ciò che non dipende sempre da noi, ma all’interno dei nostri confini, intesi in quel significato estensivo qui sufficientemente definito; in quanto chi, a questo proposito, ha cessato di essere il più forte, è sicuramente perduto. Non si receda assolutamente da questo vincolo della garanzia e, se si è in armi, non si depongano per nessun motivo, se prima non la si è ottenuta”.

Questi principi sono, secondo Fichte, salutari per gli Stati e per la stessa pace in Europa.

“Non si creda che se tutti i principi la pensassero in questo modo e agissero secondo le regole qui esposte, in Europa le guerre non cesserebbero mai. Niente affatto: dato che nessuno pensa di iniziare una guerra, se non può ricavarne dei vantaggi, mentre tutti stanno sempre molto attenti a non concedere ad alcuno un qualsiasi vantaggio, una spada terrà in pace l’altra e ne conseguirà una pace duratura, che potrebbe venir interrotta soltanto da eventi accidentali, come le rivoluzioni, le lotte di successione e simili.

Più di metà delle guerre che si sono fatte, sono state causate da gravi errori politici degli aggrediti, che hanno dato all’aggressore la speranza di un esito favorevole, e non avrebbero avuto luogo se si fossero evitati quegli errori politici”.

Fichte, poi, pensando ai rischi di riduzione dell’attitudine alla guerra che la pace comporta, ha pronto il rimedio: la missione storica delle conquiste coloniali (anche in Europa), che l’Ottocento e il Novecento praticheranno con intensità e brutalità crescente.

“Così pure, dato che la pratica della guerra non può sparire se non si vuole che l’umanità s’infiacchisca e si renda del tutto inabile per le possibili guerre future, ci sono, già nella stessa Europa, ma ancor più nelle altre parti del mondo, a sufficienza barbari che devono essere, presto o tardi, incorporati con la forza al mondo della cultura. Nelle lotte contro questi si tempri la gioventù europea, mentre nella stessa patria comune nessuno oserà sguainare la spada, perché ovunque vedrà opporglisi spade altrettanto valide.

Dalla superiore prospettiva dei rapporti del principe con il suo popolo e con l’intera umanità, nonché dal punto di vista della ragione, queste regole sono confermate, rafforzate e trasformate in obbligo sacro. I popoli non sono certo proprietà del principe, così che egli possa considerare il loro benessere, la loro autonomia, la loro dignità, la loro missione all’interno della totalità del genere umano come un affare privato, e commettere errori a piacere, e dire, se va male: «Ebbene, ho sbagliato; e allora? Il danno è mio e ne accetto le conseguenze»; così come, in qualche modo, potrebbe consolarsi il proprietario di un gregge, parte del quale fosse perita per sua incuria. Il principe appartiene alla propria nazione così pienamente e completamente come a lui appartiene la nazione, la cui missione, racchiusa all’interno del consiglio divino, è affidata alle sue mani ed egli ne è il responsabile. Non gli è per nulla permesso allontanarsi ad arbitrio dalle eterne regole che intelletto e ragione esigono nell’amministrazione degli Stati. Se, per esempio, avesse trascurato, con danno della propria nazione, la seconda regola, appena enunciata, non gli sarebbe permesso farsi avanti e dire: «Io ho creduto nell’umanità, ho creduto nella fedeltà e nella sincerità». Così può parlare il privato che, se va in rovina, è lui che se ne va in rovina. Così non può parlare il principe, perché non è lui che se va in rovina, né ci va da solo. Creda nell’umanità, se vuole, nei suoi affari privati; se si sbaglia, suo è il danno; ma non metta a repentaglio sulla base di questa fede la nazione. Non è giusto, infatti, che questa, e con essa forse altri popoli e con loro forse le più nobili conquiste che l’umanità ha ottenuto con una lotta millenaria, siano gettati nella polvere, semplicemente perché si possa dire di lui che ha creduto negli uomini. Nella vita privata il principe è tenuto, al pari del più umile dei suoi sudditi, a osservare le leggi universali della morale; nei rapporti con il suo popolo pacifico è tenuto a osservare la legge e il diritto e a trattare tutti secondo la legge vigente, pur disponendo del potere di legiferare, di perfezionare cioè lo stato giuridico; ma nei rapporti con gli altri popoli non c’è legge né diritto al fuori del diritto del più forte; e questi rapporti depongono nelle sue mani, investendo la sua responsabilità di principe, i sovrani diritti divini del destino e del governo del mondo, elevandolo, al di là dei comandamenti della morale individuale, nella sfera di un supremo ordine etico, il cui contenuto materiale è espresso dalle parole: Salus et decus populi suprema lex esto”.

L’uomo di Stato ha una morale superiore a quella degli individui privati, imposta dai suoi compiti politici e storici: a lui, è affidato il destino del suo popolo e, anche, dell’umanità intera. L’Illuminismo ha snervato questa morale e questa concezione dell’uomo di Stato.

“A nostro avviso, è ora necessario rinnovare nella nostra epoca questa visione più seria e vigorosa dell’arte di governo. La filosofia del momento, di volta in volta predominante, non manca mai, per quanto la gente del gran mondo ci si rivolti contro e per quanto stenti a riconoscerla, di arrivare ad essa per una qualsiasi strada e di trasformare anch’essa a propria immagine. Questa filosofia del momento, nella seconda metà del secolo scorso era diventata del tutto superficiale, malsana e gretta, proponendo come bene supremo una certa umanità liberalità e popolarità, supplicando soltanto di accontentarsi e poi di lasciar correre tutto; soprattutto consigliando l’aurea via di mezzo, la fusione cioè di tutte le opposizioni in un caos opaco, nemico di ogni serietà, di ogni coerenza, di ogni entusiasmo, di ogni grande pensiero e decisione, e, in generale, di ogni fenomeno che sopravanzasse anche solo di un po’ l’ampia e vasta piattezza, tutta persa invece dietro alla pace perpetua. La sua debilitante influenza si è diffusa in grado notevole anche nelle corti e nei ministeri. A partire dalla Rivoluzione francese, le teorie dei diritti dell’uomo, della libertà e dell’originaria uguaglianza di tutti – cioè i fondamenti eterni e incrollabili di ogni ordinamento sociale, contro i quali nessuno Stato deve andare, con il cui unico accoglimento però uno Stato non può essere istituito né governato – sono state trattate anche da alcuni di noi, nel calore della polemica, con un’eccessiva accentuazione e come se nell’arte del governo offrissero soluzioni più avanzate di quanto facciano in realtà, e sono stati trascurati altri aspetti che vi si riferiscono; un’esagerazione che, a sua volta, non è stata priva di qualche influenza perturbatrice. Certo, più tardi, non si è mancato di riparare agli errori; ma sembra che questi scritti, in quanto esercizi di scuola e lavori accademici, e come indegni di essere presi in mano dalle persone di mondo, non abbiano avuto diffusione. Possa allora uno che è famoso, e malfamato, risorgere dai morti e mostrare loro il giusto!”

Fichte assume la teoria politica rinascimentale di Machiavelli a fondamento della nascente idea romantica di Stato-nazione e della sua idea della missione storica della Germania, poi sviluppata nei Discorsi alla nazione tedesca.

Torino 18 gennaio 2016

Nota

1 Fichte, Clausewitz, Sul principe di Machiavelli, a cura di Gian Franco Frigo, Gallio Editori, 1990, pp. 70-71. Questo testo si trova nel capitolo “Fino a che punto la politica di Machiavelli trovi applicazione nella nostra epoca”. Da esso sono tratte anche le successive citazioni.

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 09-02-2016