Spinoza: filosofia e religione

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Spinoza: filosofia e religione

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Spinoza distingue nettamente la filosofia dalla religione.

“Tra la fede, ossia la teologia, e la filosofia non c’è alcuna relazione, ovvero affinità, cosa che chiunque conosca lo scopo e il fondamento di queste due discipline non può ignorare. Lo scopo della filosofia, infatti, non è altro che la verità, mentre quello della fede, come abbiamo abbondantemente dimostrato, non è altro che l’ubbidienza e la pietà. Inoltre i fondamenti della filosofia sono le nozioni comuni, sicché essa deve essere ricavata dalla sola natura. Quelli della fede, invece, sono le storie e la lingua, ed essa deve essere ricavata dalla sola Scrittura e rivelazione”.[1]

Fede religiosa e filosofia sono distinte per il fine e per il fondamento.

Fermiamoci un momento sul diverso fondamento.

“La nostra mente, per il solo fatto che contiene in sé obiettivamente la natura di Dio e di essa partecipa, ha la potenza di formare alcune nozioni che spiegano la natura delle cose e insegnano la pratica della vita”.[2]

La mente umana è capace di arrivare alla verità e di orientare al bene.

Infatti, per questo “possiamo a buon diritto stabilire che la natura della mente, concepita in quanto tale, è la causa prima della rivelazione divina. Tutte quelle cose che intendiamo chiaramente e distintamente, infatti, ci sono dettate dall’idea e dalla natura di Dio, non a parole, ma in modo assai più eccellente e del tutto conforme alla natura della mente, come ha potuto sperimentare in se stesso chiunque abbia gustato la certezza dell’intelletto”.

Quanti sono, però, gli uomini che sperimentano e, quindi, apprezzano “la certezza dell’intelletto”? Pochi, molto pochi.

“Infatti, le cose che conosciamo con il lume naturale dipendono dalla sola conoscenza di Dio e dai suoi eterni decreti. Ma, poiché tale conoscenza naturale è comune a tutti gli uomini – si basa, infatti, su fondamenti comuni a tutti gli uomini – per questo è tenuta in poco conto dal volgo, il quale aspira sempre a cose insolite ed estranee alla natura e disprezza i doni naturali, e perciò, quando parla di conoscenza profetica, vuole che sia esclusa la conoscenza naturale”.[3]

Ci sono due tipi di rivelazione, quella della mente e quella profetica.

La prima è naturale, diretta e certa. E’ comune, universale, come lo sono le verità matematiche. Ogni uomo, cioè, potrebbe averla se liberasse la sua ragione dalle passioni, così come le verità matematiche sono a disposizione di tutti coloro che si mettono in condizioni di capirle.

La seconda è insolita, eccezionale, indiretta, si serve di parole e d’immagini ed è condizionata dai limiti culturali dei profeti e adattata a quelli dei destinatari. E’ particolare, non universale: vale per coloro che sono interni ai limiti culturali in cui nasce.

In una lettera del 1665 scrive:

“Dico che la Scrittura, poiché si adatta specialmente al popolo e ad esso serve, parla sempre con linguaggio umano: il popolo è infatti incapace di capire le cose sublimi, e questa è la ragione del perché io mi sia convinto che tutte le cose, che Dio rivelò ai profeti essere necessarie alla salvezza, siano scritte sotto forma di leggi; e per questo motivo i profeti composero intere parabole, ossia, in primo luogo, hanno rappresentato Dio come Re e Legislatore, giacché rivela i mezzi per giungere alla salvezza o alla perdizione, delle quali è anche causa, chiamando questi mezzi, che non sono altro che le cause della salvezza e della perdizione, col nome di leggi e redandole al modo delle leggi; presentando la salvezza e la perdizione, che non sono altro che gli effetti che seguono necessariamente da quei mezzi, come il premio e la pena, e adeguarono il discorso più alla forma di tale parabola che non alla verità; e foggiarono Dio a immagine dell’uomo, ora adirato, ora misericordioso, ora desideroso di un certo avvenire, ora preso dalla collera e dal sospetto, e persino ingannato dal Diavolo. Al punto che i filosofi, e come loro tutti quelli che sono sopra la legge, cioè che seguono la virtù non come una legge ma per amore, perché essa è il meglio, non hanno bisogno di offendersi per tali parole.”[4]

I limiti della rivelazione religiosa, imposti dalle limitate capacità dei suoi destinatari, sono evidenti già nelle prime pagine della Bibbia.

“Adamo, al quale per primo Dio si rivelò, ignorò che Dio è onnipresente e onnisciente: infatti, egli si nascose a Dio e cercò di scusare il suo peccato davanti a Dio, come se avesse davanti un uomo: perciò anche a lui Dio si rivelò secondo le sue capacità. […] Anche a Caino Dio si rivelò secondo le sue capacità, e cioè come un ente ignaro delle cose umane, né a Caino era necessaria, per pentirsi del proprio peccato, una più elevata conoscenza di Dio. […] Anche Abramo ignorò che Dio è in ogni luogo e che ha la prescienza di tutte le cose. […] Anche Mosè non percepì a sufficienza che Dio è onnisciente e che dirige soltanto col suo decreto tutte le azioni umane. […] Infine Mosè credette che Dio avesse la sua dimora nei cieli, opinione assai diffusa tra i pagani. […] Gli Israeliti non conobbero quasi nulla di Dio, sebbene Egli si fosse loro rivelato, cosa che essi dimostrarono abbondantemente quando, pochi giorni dopo, resero a un vitello d’oro l’onore e il culto che a Lui spettavano, e ravvisarono in esso quegli dei che li avevano condotti fuori dall’Egitto. Né è da credere che uomini abituati alle superstizioni degli Egiziani, rozzi e prostrati da una durissima schiavitù, abbiano inteso qualcosa di retto intorno a Dio, o che Mosè abbia loro insegnato qualcosa di più che un modo di vivere: e non come filosofo, in modo che finalmente fossero costretti a vivere bene dalla libertà dell’animo, ma come legislatore, in modo che fossero spinti a vivere bene dal comando della legge”.[5]

La filosofia, che è frutto della “libertà dell’animo”, cioè della ricerca e del pensiero liberati dalle passioni, costringe a vivere bene, cioè indica con rigore e necessità razionale il bene; la religione lo comanda ai più, incapaci di arrivare alla filosofia.

“Mosè – continua Spinoza – comandò loro di amare Dio e di osservare la sua Legge […]; inoltre li atterrì con minacce se avessero trasgredito quei precetti, e, per converso, promise loro molti beni se li avessero osservati. Egli li educò dunque nello stesso modo in cui i genitori sono soliti educare i fanciulli del tutto privi dell’uso della ragione”.[6]

La rivelazione profetica, pertanto, non può essere presa alla lettera. Va interpretata alla luce del suo contesto culturale. Essa, infatti, si attuò secondo la predisposizione d’animo, la capacità immaginativa e le opinioni dei profeti, adattandosi inoltre alle possibilità ricettive del popolo. E non solo: l’interpretazione deve anche tener sempre presente il suo fine pratico, morale, teso non a rendere gli uomini filosofi, ma giusti e capaci di amarsi.

La rivelazione religiosa non insegna la verità ma spinge al bene.

Molta parte del Trattato teologico-politico è dedicata all’interpretazione biblica secondo questo criterio. Tuttavia, Spinoza non esanima “tutti i luoghi della Scrittura che sono stati scritti ad hominem, ossia in conformità alle capacità di qualcuno, e che vengono interpretati, non senza grave danno per la filosofia, come dottrina divina”. Vuole essere breve, toccando solo alcuni punti e lasciando al “lettore interessato” il modello per continuare da sé l’esame del resto.[7] Dedica, però, non poche pagine a interpretare l’elezione divina del popolo ebraico soltanto nel senso della sicurezza sociale e dello Stato.

E’ vero che dalla Bibbia non risulta “che le altre nazioni abbiano avuto tanti profeti quanti ne ebbero gli Ebrei, anzi, che nessun profeta dei Gentili sia stato inviato espressamente da Dio alle nazioni”, ma ciò non ha alcuna importanza, perché gli Ebrei si curarono soltanto di scrivere la loro storia e non quella delle altre nazioni”.[8]

“Dio è ugualmente benevolo, misericordioso ecc. verso tutti”. Tutte le nazioni hanno, quindi, avuto profeti che le hanno dirette al bene. Il dono della profezia non fu, pertanto, “riservato ai Giudei”.[9]

L’elezione degli Ebrei fu solo in rapporto allo Stato, non in assoluto né eterna.

“Perciò oggi gli Ebrei non hanno proprio niente da potersi attribuire al di sopra delle altre nazioni. Quanto poi al fatto che essi siano sopravvissuti per tanti anni dispersi senza Stato, ciò non meraviglia affatto, dal momento che si sono separati da tutte le altre nazioni a tal punto da attirare contro di sé l’odio di tutte, e ciò non solo per i riti esterni, contrari a quelli di tutte le altre nazioni, ma anche per il segno della circoncisione, che conservano con il massimo scrupolo. E che sia appunto l’odio delle nazioni a mantenere gli Ebrei, ci viene insegnato ormai dall’esperienza. […] Ritengo che il segno della circoncisione abbia a questo riguardo un’importanza tale da persuadermi che solo esso sia in grado di conservare per sempre gli Ebrei; anzi, se i fondamenti della loro religione non rendessero debole il loro animo, crederei senz’altro che all’occasione, data la mutabilità delle vicende umane, essi un giorno ristabiliranno di nuovo il loro Stato e che Dio li eleggerà di nuovo”.[10]

La Bibbia va, quindi, letta con libero spirito critico.

Si deve “credere ai profeti soltanto in ciò che costituisce il fine e la sostanza della rivelazione”, cioè di esortare alla virtù e alla vera vita.

La filosofia ha bisogno della libertà come suo respiro. Anche la fede, però, ha bisogno di libertà, per essere autentica, per non scadere nella superstizione e nell’idolatria della parola scritta, analoga a quella del vitello d’oro.

“Il volgo (soggetto alla superstizione e incline ad amare le reliquie del tempo più della stessa eternità) adora i libri della Scrittura piuttosto che la stessa parola di Dio”.[11]

Ci vuole la leggerezza del pensiero per liberare le pagine bibliche dalla rigidità dell’idolatria del libro.

“La fede, dunque, lascia a ognuno la massima libertà di filosofare, in modo che tutti possano pensare ciò che vogliono su qualsiasi cosa senza empietà: essa condanna come eretici e scismatici soltanto coloro che insegnano opinioni per indurre alla ribellione, agli odi, alle contese e all’ira, e, al contrario, considera credenti soltanto coloro che, in proporzione alla forza della loro ragione e alle loro possibilità esortano alla giustizia e all’amore”.[12]

Pensare la religione significa riflettere sulla sua natura, totalmente diversa da quella della filosofia: la fede si valuta dalle opere, la filosofia dalle idee.

“La fede richiede non tanto dogmi veri quanto dogmi pii, tali cioè che muovano l’animo all’obbedienza, anche se ce ne sono molti che non hanno nemmeno l’ombra della verità; a condizione, tuttavia, che colui che li accoglie ignori che sono falsi, altrimenti sarebbe necessariamente un ribelle. Come può accadere, infatti, che uno che cerca di amare la giustizia e di obbedire a Dio adori come divino ciò che sa essere estraneo alla natura divina? Ma, per la semplicità d’animo, gli uomini possono errare, e la Scrittura, come abbiamo già mostrato, non condanna l’ignoranza, ma soltanto la disobbedienza”.[13]

La filosofia cerca la verità, la religione promuove dogmi “che confermino l’animo nell’amore verso il prossimo, a motivo del quale soltanto (per parlare come Giovanni) ciascuno è in Dio e Dio è in ciascuno”.[14]

Filosofia e religione vanno, dunque, rigorosamente distinte.

“Coloro che non sanno separare la filosofia dalla teologia discutono se debba essere la Scrittura a servire alla ragione o, al contrario, la ragione alla Scrittura; cioè, se il senso della Scrittura debba essere adattato alla ragione, oppure la ragione debba essere adattata alla Scrittura: quest’ultima tesi è sostenuta dagli scettici, per i quali la ragione non può avere certezze, l’altra, invece, dai dogmatici. Ma che gli uni e gli altri siano del tutto in errore, risulta dalle cose già dette. Infatti, qualunque delle due opinioni si segua, è giocoforza corrompere o la ragione o la Scrittura. Abbiamo, infatti, mostrato che la Scrittura non insegna cose filosofiche, ma soltanto la pietà, e che tutte le cose che in essa si trovano sono state adattate alle capacità e alle opinioni preconcette del volgo. Chi, dunque, la vuole adattare alla filosofia, attribuirà ai profeti cose cui questi non pensarono nemmeno per sogno, e interpreterà in maniera sbagliata il loro pensiero. Chi, invece, rende la ragione e la filosofia serve della teologia, costui è obbligato ad ammettere come cose divine gli antichi pregiudizi del volgo e a riempire la mente, accecandola, di questi pregiudizi. Perciò, sia l’uno sia l’altro – l’uno senza ragione, l’altro con la ragione – saranno dissennati”.[15]

Quindi, Spinoza critica Maimonide, che volle adattare la Scrittura alla ragione, e il rabbino Alfakhar, che cadde nell’errore contrario. Costui ritenne vere cose che ripugnano alla ragione: che Dio è geloso, che discese sul monte Sinai, che ha dimora e trono in cielo, ecc..

“Perciò noi respingiamo tanto questa opinione quanto quella di Maimonide, e stabiliamo come punto fermo che né la teologia deve essere messa al servizio della ragione, né la ragione della teologia, ma ognuna possiede il proprio territorio. E cioè, come abbiamo già detto, la ragione possiede il territorio della verità e della sapienza, la teologia quello della pietà e dell’ubbidienza. Infatti, la potenza della ragione, come abbiamo già mostrato, non si estende fino al punto da poter stabilire che gli uomini possono essere beati per la sola ubbidienza senza l’intelligenza delle cose. La teologia, d’altra parte, non prescrive altro che questo, e non comanda nient’altro che l’ubbidienza, e non vuole né può niente contro la ragione, poiché determina i dogmi della fede tanto quanto basta per l’ubbidienza, mentre lascia alla ragione, che è davvero la luce della mente – senza la quale questa non vede altro che sogni e finzioni –, il compito di determinare in che modo essi debbano essere intesi in rapporto alla verità”.[16]

Spinoza critica anche chi ritiene indispensabile un lume soprannaturale per interpretare la Scrittura.

“Che il lume naturale sia insufficiente risulta essere falso sia dal fatto che nessuna difficoltà nell’interpretazione della Scrittura nasce dall’incapacità del lume naturale, ma soltanto dalla pigrizia (per non dire dalla malizia) degli uomini, i quali hanno trascurato di apprestare, pur potendolo fare, la storia della Scrittura; sia anche dal fatto che (come tutti, se non sbaglio, ammettono) questo lume soprannaturale è un dono divino concesso solo ai credenti. Ma i profeti e gli apostoli erano soliti predicare non solo ai credenti, ma soprattutto ai non credenti e agli empi, i quali, pertanto, erano capaci d’intendere il loro pensiero; altrimenti i profeti e gli apostoli avrebbero dato l’impressione di predicare a bambini e lattanti, non a uomini dotati di ragione, e invano Mosè avrebbe prescritto leggi se esse avessero potuto essere intese solo dai credenti, che non hanno bisogno di alcuna legge. Perciò coloro che esigono un lume soprannaturale per intendere il pensiero dei profeti e degli apostoli, sembrano del tutto privi del lume naturale”.[17]

Il lume naturale aiuta a capire la rivelazione e a tenere distinte, separate, la filosofia e la religione.

La religione deve lasciare libertà di ricerca alla filosofia, ma anch’essa ha bisogno della libertà di pensiero e d’espressione per liberarsi dei molti elementi di superstizione che la devastano.


[1] Trattato teologico-politico, 14, 4 in Tutte le opere, Bompiani 2010, p. 985.

[2] Ibi. 1, 4, p. 655.

[3] Ib. 1,2, p. 653.

[4] Lettera 19, p. 1905.

[5] Trattato teologico-politico, 2, 14-15, in Tutte le opere, Bompiani 2010, pp. 695-703.

[6] Ib. 2, 15, pp. 695-703.

[7] Ib. 2, 19, 707.

[8] Ib. 3, 8, pp. 721-723.

[9] Ib. 3, 8, p. 721.

[10] Ib. 3, 12, p. 733.

[11] Ib. Prefazione, 10, p. 647.

[12] Ib. p. 985.

[13] Ib. 14, 8, pp. 977-979.

[14] Ib. 14, 8, p. 979.

[15] Ib. pp. 985-987.

[16] Ib. pp.993-995.

[17] Ib. 7, 19, pp. 845-847.

Torino 19 novembre 2012

Giuseppe Bailone

Fonti

www.fogliospinoziano.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015