LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

(b.2) Le ragioni della particolarità europea

Vorrei infine occuparmi di un altro aspetto, secondo me criticabile, della trattazione di Pellicani. Il suo saggio difatti, pur occupandosi con grande dovizia di osservazioni e di distinzioni delle ragioni della nascita del capitalismo, ovvero (il che è poi lo stesso) della particolarità della storia europea rispetto al resto del pianeta, non va a mio avviso del tutto al fondo del problema.

Coerentemente con la metodologia “istituzionalista” che ha scelto infatti, Pellicani considera sempre la conformazione delle società umane come il risultato (seppure indiretto e involontario) di una determinata situazione politico-istituzionale che le ha precedute. Del pari, egli distingue essenzialmente la società europea, caratterizzata fin dai tempi più remoti da istituzioni ‘deboli’, conciliabili quindi con la libera iniziativa personale, da quella asiatica, in cui lo stato ha al contrario una natura tendenzialmente onnipervasiva e assoluta. Quello che tuttavia, stranamente, egli non cerca nemmeno di spiegare è la ragione di questa differenza di fondo.

Egli dà insomma per acquisito il fatto che l’Europa sia stata caratterizzata sin dai periodi più remoti, da un assetto politico-istituzionale fondamentalmente diverso rispetto alle altre civiltà mondiali (tra cui, ad esempio, quelle vicino-orientali, quella cinese o quella indiana), senza tuttavia cercare di rendere conto di un tale fatto.

In tutto questo si può scorgere il limite principale del suo metodo di ricerca, strutturalmente incapace di andare oltre il livello istituzionale, ovvero di vederne gli aspetti di complementarietà e interazione rispetto a ciò che lo circonda e da cui inevitabilmente è influenzato, influenzandolo. È strano ad esempio, che egli non accenni nemmeno alle profonde differenze di carattere geografico che distinguono l’Europa dalla maggior parte del mondo orientale ed extraeuropeo in genere.

A questo proposito, ad esempio, osservava Gustave Glotz in un saggio sull’antico mondo egeo, come

“quel che stupisce altrove, nei grandi paesi dell’Oriente, è l’enorme nell’uniforme: nella produzione, nella potenza, nella bellezza stessa, in tutto impera la quantità.

Nell’Egeide, il continuo variare della natura non lascia possibilità in nessun luogo a grandi agglomeramenti né di piante, né di animali, né di uomini. In ogni campo, nella politica come nell’arte, è impossibile aggiungere indefinitamente il medesimo al medesimo. Qui trionfano l’autonomia e l’individualismo, e i doni naturali si sviluppano liberamente, senza altro ostacolo che la necessità di un’organizzazione armoniosa.”

Egli osservava cioè come le profonde differenze geografiche dei rispettivi territori avessero potentemente diversificato l’organizzazione sociale, economica, politica e in genere la predisposizione culturale dei popoli egei rispetto a quelli vicino orientali, caratterizzandone l’evoluzione in un senso pressoché opposto. Tuttavia, di un simile tipo di osservazioni – per la verità molto comuni – non vi è alcuna traccia nel testo di Pellicani.

Eppure esse sarebbero tanto più interessanti in quanto contribuirebbero a porre l’attenzione su un fattore estremamente importante per la comprensione dell’evoluzione della storia umana: cioè la maggiore dipendenza delle società primitive rispetto a quelle più avanzate dai fattori geografici, dipendenza che col tempo (con lo sviluppo di tecniche produttive sempre più sofisticate) finirebbe con l’attenuarsi. Al tempo stesso, poi, tali osservazioni contribuirebbero a sottolineare come categorie astratte quali “organizzazione economica”, “strutture politiche”, “istituzioni”, ecc. siano spesso indissolubilmente intrecciate a fattori ben più concreti quali appunto il clima, la conformazione geografica dei territori, ecc. contribuendo infine a mostrare come separare un aspetto della vita sociale (quale che sia) da tutti gli altri conferendogli un valore genetico assoluto sia un’operazione per lo meno discutibile!

Non intendo con questo dire che la differenza dello sviluppo europeo rispetto a quello delle altre regioni mondiali debba ascriversi interamente ed esclusivamente a ragioni di carattere orografico o climatico, ma è certo comunque che queste ultime abbiano giocato (soprattutto nei periodi più antichi) un ruolo per nulla secondario nell’indirizzare tali sviluppi in un senso piuttosto che in un altro.

(Per inciso, credo si possa dire che una delle caratteristiche della civiltà europea, rispetto ad altre caratterizzate in modo simile dal punto di vista geografico e/o economico, fu il fatto di riuscire a mantenere la propria indipendenza amministrativa nei confronti delle regioni vicine. In tal modo, essa poté coniugare gli arricchimenti derivanti dai frequenti contatti con le aree circostanti, con il vantaggio di una sostanziale autodeterminazione politica e culturale. Anche, o forse soprattutto, per tale ragione, la società europea – diversamente da altre a forte vocazione mercantile – poté portare fino alle estreme conseguenze i presupposti istituzionali che la caratterizzavano, dando in tal modo i natali a quella società aperta, razionalistica e capitalistica, che è oggetto del presente saggio.)

(b.3) Alcune osservazioni sul mondo di oggi

Alcune osservazioni in merito al mondo di oggi, così diverso da quello nel quale questo interessantissimo saggio fu scritto (l’edizione SugarCo è del 1988), mi sembrano d’obbligo.

A questo proposito, voglio soffermarmi sulle profonde trasformazioni conosciute negli ultimi due decenni dal mondo asiatico (ex-socialista) in direzione del capitalismo, della modernità e dell’industrializzazione.

Più volte, nelle parti finali del suo libro, Pellicani afferma che la Rivoluzione socialista fu da una parte un tentativo di conservazione dell’antica società premoderna, ostile al cambiamento e al dinamismo sociale e culturale, dall’altra e parallelamente un tentativo di promozione dello sviluppo industriale all’interno di paesi fondamentalmente separati dall’area politica e culturale europea. Proprio per questo i sistemi socialisti, se da una parte tesero a espungere sistematicamente il (libero) mercato, in quanto portatore del seme stesso del dinamismo e della modernità, dall’altra fecero della moderna conoscenza tecnico-scientifica, foriera tanto di miglioramenti degli standard di vita della popolazione quanto di un notevole potenziamento delle capacità di dominio esterno e interno degli stati, uno dei loro punti di forza e di sviluppo.

Essi intrattennero quindi con l’Occidente e con la cultura europea in generale un rapporto ambivalente, da una parte rifiutandone qualcosa, dall’altra facendone proprio qualcos’altro. Dal punto di vista politico e culturale, in ogni caso, essi rimasero fondamentalmente fedeli alle loro precedenti tradizioni, di matrice statalista e assolutista. Nel complesso perciò, la rivoluzione socialista costituì per Pellicani una sorta di “rinnovamento conservativo” di un mondo caratterizzato da una storia, da consuetudini e da convinzioni profondamente diverse da quelle europee, e ostile all’idea di un loro cambiamento!

Personalmente, non ho molto da eccepire a questo discorso. Osservo tuttavia, come i tempi attuali dimostrino come tra mentalità e tradizioni politiche asiatiche (di cui Cina e Russia, prime tra tutte, sono chiara espressione) e sistemi capitalistici avanzati esista un’incompatibilità solo relativa. Ciò mi porta a pensare che, allo stato attuale, i Paesi ex-comunisti siano riusciti in un’operazione ulteriore rispetto ai loro predecessori, quella cioè di conciliare, quantomeno in una certa misura, il capitalismo – ovvero il libero mercato – con le proprie antiche tradizioni politiche.

Tutto ciò potrebbe apparire contraddittorio rispetto a quanto si è detto fin qui, ma a uno sguardo più profondo ci si accorge che non lo è. La visione che considera capitalismo e democrazia come due realtà che si richiamano a vicenda e quasi ‘consustanziali’ (e che in questo testo viene spesso adombrata) è difatti palesemente errata. Ciò si dimostra facilmente sia ragionando brevemente sul significato di questi due diversi termini, sia ripercorrendo le principali tappe della storia politica dell’Europa moderna.

Quanto al capitalismo, ovvero a un sistema di organizzazione economica fondato essenzialmente sulla libera concorrenza di mercato, penso che esso contenga due “vettori” opposti tra loro: un primo vettore che inclina verso l’apertura sociale, l’eguaglianza e il dinamismo (che rende quindi tale sistema compatibile con la democrazia, ovvero con un’organizzazione politica fondata sull’uguaglianza di diritti dei cittadini); un altro al contrario di natura profondamente elitaria, come tale ostile a istanze di carattere democratico.

Il primo vettore è ovviamente il prodotto, seppure indiretto, della natura competitiva e liberale di un tale tipo di società (un aspetto questo, su cui Pellicani si sofferma molto spesso, in particolare nell’ultimo capitolo del libro, in cui parla del passaggio Dalla società chiusa alla società aperta). L’altro, di carattere in un certo senso secondario in quanto prodotto della successiva formazione di grandi capitali (peraltro necessari al funzionamento di questo tipo di organizzazione nella sua fase industriale e matura), implica quantomeno, attraverso la nascita e l’affermazione di una aristocrazia del danaro, una sostanziale elisione degli aspetti precedenti.

La storia della civiltà europea mi pare confermi ampiamente questo bilancio. Si pensi alla graduale trasformazione politico-sociale dei comuni italiani, con l’assottigliarsi della componente repubblicana e con l’emergere al loro interno di sempre più marcate disparità economiche e giuridiche, e di altrettanto profondi conflitti sociali.

Meccanismi simili si possono poi vedere in atto nella formazione degli stati nazionali, dove l’alleanza tra Stato (re) e borghesia fu la base del loro emergere a spese sia dell’antica aristocrazia del sangue, sia delle fasce più povere della popolazione cui – come si è già accennato – vennero sottratti diritti e garanzie a vantaggio degli interessi delle classi emergenti. Tutto ciò si vede con particolare chiarezza qualora si pensi al Mercantilismo, ovvero a quel periodo storico (su cui peraltro il presente libro si sofferma ampiamente) in cui le politiche statali si posero come principale obiettivo quello di favorire l’emergere della ricchezza borghese, in quanto base della potenza politica e militare degli stati stessi.

È anche vero, d’altronde, che la democrazia rappresentativa sarebbe rinata alcuni secoli dopo, come risultato di una lunga serie di fattori, tra cui l’affermazione di principi illuministici di eguaglianza universale. E tuttavia, mi pare, non per questo la democrazia può essere definita una caratteristica strutturale delle società capitalistiche, per altri versi effettivamente classificabili come “aperte”.

Oggi, la trasformazione di stati a tradizione dispotica e centralista – molti dei quali peraltro ancora legati, anche formalmente, a tradizioni non democratiche – pone il seguente interrogativo con rinnovato vigore: è il capitalismo una forma di organizzazione economica e sociale che inclina necessariamente verso l’eguaglianza dei diritti e la democrazia? A ben vedere, infatti, tali stati hanno avuto buon gioco a utilizzare le proprie precedenti strutture burocratiche e politiche al fine di incoraggiare l’emergere di una ricca classe borghese, cosa che – in modo simile a quanto accadde nell’Europa del periodo mercantilistico – è avvenuta a scapito delle fasce più deboli della popolazione.

I decenni che verranno ci mostreranno se, e in che misura, il trionfo del libero mercato a livello mondiale abbia implicato anche quello di strutture politiche e culturali, in altri termini di società, aperte e democratiche. Ci dirà insomma, se tra Capitalismo e Democrazia sussista davvero un legame inscindibile, o se, e in che misura, questi due termini possano procedere separati.

Milano, 30/11/2009


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 12-09-2014