LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

(a.2.3) Genesi ed evoluzione del capitalismo

Nonostante la profonda diversità che li divide dunque, si può dire che il feudalesimo, con i suoi caratteri eterogenei e contradditori, fu la fucina stessa del capitalismo, ciò che lo rese possibile. Non a caso esso è – al pari, o quasi, del capitalismo stesso – una forma di organizzazione sociale ed economica pressoché esclusivamente europea. L’unica eccezione a questa affermazione è costituita dalla storia del Giappone, alla quale l’autore dedica una lunga Nota a fine libro, e di cui parleremo avanti.

Senza soffermarsi sulle molte e complesse fasi evolutive della società capitalista, Pellicani sceglie di dividere un tale argomento in due parti: la prima inerente l’esperienza dei comuni e delle signorie medievali, la seconda inerente invece la storia successiva, con particolare riguardo alla formazione degli stati nazionali e alle loro differenze e somiglianze rispetto agli stati dispotici orientali.

Interessante è anche la trattazione, pur molto sintetica, che egli fa delle origini e del significato storico dell’Unione Sovietica: una realtà che, al tempo in cui questo libro fu scritto (1988), era ancora viva e vitale. Anche a tale argomento dedicheremo un breve paragrafo.

-- Comuni e Signorie: la struttura e l’evoluzione politico-economica delle città-stato medievali --

Come già abbiamo detto, l'elemento distintivo delle città europee medievali rispetto a quelle del vicino mondo orientale e di quello greco-romano, consisté nella loro sostanziale indipendenza da poteri politici e militari esterni.

A tale proposito ci eravamo posti la seguente domanda: se il commercio è per sua natura la molla dello sviluppo capitalistico, tenendo presente che esso fu una costante non solo delle città medievali ma più in generale di tutte le realtà urbane, come mai solo le prime poterono effettivamente avviare una rivoluzione di tipo capitalista?

Nel caso delle città inglobate negli stati dispotici, l'elemento che frenò un tale tipo di evoluzione fu di solito la “lunga mano” dello stato, capace come si è detto di requisire gli utili derivanti dalle attività commerciali nel caso essi divenissero eccessivi e i loro possessori quindi economicamente e socialmente troppo influenti. In questo modo, lo stato impedì la formazione del capitale di base, ovvero di quell’“accumulazione originaria” su cui tanto aveva ragionato Marx, che costituisce una precondizione necessaria per il dispiegamento di un’economia capitalista.

Nel caso delle città antiche, invece, le ragioni di questo mancato sviluppo furono di natura più squisitamente economica: esse difatti esistevano in continuità con le circostanti zone rurali, le quali costituivano la base economica dello stato, così come le città ne costituivano quella politica e decisionale. E anche quando (per i greci a partire soprattutto dal periodo della grande colonizzazione e per i romani dalla fine della seconda guerra punica) iniziarono effettivamente a svilupparsi vasti traffici internazionali, le attività di carattere mercantile rimasero comunque una componente tutto sommato minoritaria nell’organizzazione economica complessiva della società, ancora legata in grande misura a una produzione di consumo. Solo Atene, secondo Pellicani, costituì un'eccezione a questa regola generale.

Al contrario, le città-stato medievali – e qui sta appunto la loro peculiarità – non furono sottoposte né all'influenza economica delle vicine campagne (che rientravano infatti nel dominio feudale e come tali conducevano rispetto a esse una vita fondamentalmente separata), né a quella di poteri politici e militari a esse estrinseci, in grado di limitarne le attività commerciali o di accampare diritti sulle ricchezze da esse derivanti.

Se i politai o i civites del mondo antico furono, prima che abitanti o comunque frequentatori dei centri urbani in quanto sedi delle attività politiche, proprietari terrieri che dai propri campi e dal proprio bestiame ricevevano la maggior parte del fabbisogno alimentare, al contrario i civites medievali furono per la maggior parte – soprattutto nei primi periodi della rinascita cittadina – mercanti o artigiani di professione, la cui sussistenza era garantita solo dai guadagni derivanti dalle proprie attività di mercato. (“Il civis, a differenza del polites, non era né poteva esserlo almeno nella prima fase della sua esperienza storica, un possessor, bensì un mercator, il cui negotium era la pratica economica, finalizzata alla massimizzazione del profitto”, pag. 193).

La città medievale dunque, non ebbe come quella greco-romana, una natura innanzitutto pubblica e politica, cui si aggiunse più tardi una componente commerciale e affaristica. Al contrario, essa ebbe sin dall’inizio una natura prima di tutto economica, e finalità essenzialmente di mercato.

Il fatto poi, che le città medievali riuscissero a conservare nel corso del tempo la propria autonomia politica e istituzionale, pose i presupposti del loro successivo avanzamento anche nelle campagne circostanti, fino ad allora dominio esclusivo della nobiltà terriera d’impronta feudale. Se, infatti, nei primi secoli della rinascita urbana la ricchezza delle città era stata tutta essenzialmente di origine mercantile, legata in particolare all'importazione di prodotti esotici e rivolta a un pubblico altolocato, e, un po’ più tardi, all’artigianato specializzato, in un secondo momento i ricchi borghesi, grazie ai proventi delle loro attività, iniziarono a estendersi anche nelle vicine campagne. Divenuti di loro proprietà, i terreni acquistati venivano coltivati, in consonanza con i loro stili economici, in base a criteri intensivi e al fine di commercializzare ciò che veniva prodotto. Fu quello, l’inizio di un lungo processo di conversione della produzione agricola alla logica del mercato, ovvero di estensione del capitalismo anche alle zone rurali. Ebbe inizio così il lungo percorso di trasformazione della società occidentale in senso capitalistico, con la nascita di un’economia integralmente basata sui mercati.

Né è inutile ricordare una volta di più come, in ultima analisi, la radice di tutte queste trasformazioni economiche risiedesse nel fatto che – per la prima volta nella storia – le forze economiche urbane non fossero per così dire ingabbiate, limitate da poteri politici estrinseci e, quantomeno in un certo grado, ostili, bensì supportate da un’organizzazione istituzionale che nella libera iniziativa individuale trovava il suo stesso presupposto. E che in assenza di tali presupposti – politici – un tale tipo di evoluzione – economica – non avrebbe potuto avere luogo.

Quanto all’evoluzione politica di tali organismi, Pellicani ricorda giustamente che quella democratica o repubblicana non fu che una prima fase della storia delle città-stato medievali, coincidente con l’epoca dei Comuni. In tale fase, non si erano ancora sviluppate grandi differenze economiche tra i cittadini, fattore che favoriva tra loro una sostanziale condizione di parità politica. Inoltre, la necessità imprescindibile per il comune (al tempo realtà ancora debole e precaria) di difendersi dall’invadenza di poteri militari esterni, imponeva ai suoi abitanti una solidarietà di tipo orizzontale, esemplificata tra l’altro nel contratto della conjuratio (pag. 195).

Tuttavia, in un secondo momento, la formazione di grandi capitali e di imprese di carattere sempre più internazionale portò il divario tra ricchi e poveri a divenire sempre maggiore. Finì per formarsi così “una oligarchia plutocratica, di fronte alla quale – anzi sotto alla quale – c’era il popolo minuto formato da una massa di artigiani, piccoli commercianti e lavoratori non qualificati” (pag. 197). Né può sfuggire del resto, come una tale separazione preludesse a quella tra haves e not haves, ovvero tra capitalisti e proletari, che avrebbe caratterizzato le epoche successive.

Una simile trasformazione in senso plutocratico inoltre, ebbe enormi implicazioni anche a livello istituzionale, comportando la trasformazione dei comuni in Signorie. Mentre dapprima infatti, si cercò di contenere le spinte centrifughe venutesi a creare tanto verticalmente (tra poveri e ricchi) quanto orizzontalmente (tra grandi famiglie mercantili) istituendo una sorta di figura super partes, il podestà, che doveva garantire un arbitrato tecnico tra le diverse fazioni che si contendevano il potere, in seguito, visto che anche una tale figura non bastava a mantenere l’ordine, se ne affermò un’altra (peraltro originariamente sorta per bilanciare il potere dello stesso podestà) il cui ruolo non era mediare ma di comandare. Tale personaggio era chiamato Signore del popolo e la sua esistenza coincise appunto con la fase signorile (ovvero non democratica) della storia delle città-stato.

Tutto questo ci dimostra come la società comunale, superata una prima fase sostanzialmente egualitaria e democratica, avesse alla fine “prodotto una nuova gerarchia e un nuovo sistema di sfruttamento, non più basato sull’onore, la nascita e la ricchezza fondiaria, ma sul principio acquisitivo e la ricchezza mobiliare.” Ma, osserva ancora l’autore, c’era comunque “una differenza fondamentale tra il mondo feudale e il mondo capitalistico: quest’ultimo aveva istituzionalizzato un modo di produzione dinamico ed autopropulsivo, capace di far lievitare miracolosamente la ricchezza sociale; aveva, in altre parole, messo in moto la macchina dello sviluppo che avrebbe trascinato l’Europa fuori dalle secche dell’economia di sussistenza e verso l’affluent society” (pag. 202).

Finora ci siamo soffermati sui fattori politici alla base delle prime società capitaliste (o proto-capitaliste) e sulla loro evoluzione politica interna. Vi è però un altro aspetto molto importante, che abbiamo per ora solamente sfiorato: ovvero le implicazioni sociali e culturali del dinamismo economico che caratterizzò questi nuovi organismi. Tali implicazioni furono tanto trasversali, con la nascita di rivalità e conflitti tra diversi centri di potere economico-politici; quanto verticali, con l’insorgere della lotta di classe; quanto infine individuali, dal momento che la competizione economica e in genere il principio del libero apporto individuale alla vita sociale, davano a ogni individuo la possibilità di emergere socialmente, ovvero di accedere a un rango superiore a quello d’origine, così come di retrocedere a uno di minore prestigio.

È da notare inoltre (mi permetto di osservare io, anche se credo che una tale affermazione non entri in contrasto con le opinioni dell’autore) come tutti questi fenomeni (conflitti tra macro-poteri, lotta tra classi sociali portatrici di differenti interessi, possibilità di riscatto o degradazione individuale) non siano affatto esclusivi delle moderne società capitaliste. Particolarità di queste ultime è piuttosto il fatto che essi ruotino in massima parte attorno alla competizione economica, in particolare alla conquista dei mercati e all’accumulazione della ricchezza monetaria: cosa che ovviamente non poteva accadere, quantomeno in modo altrettanto cospicuo, in società ‘a economia ingabbiata’ o in cui comunque la dimensione politica detenesse ampie capacità di condizionamento delle attività economiche.

La libertà economica del resto, fin dall’inizio dato fondante e irrinunciabile della vita della società moderna, costrinse le istituzioni statali a svilupparsi tenendo conto dei cittadini e dei loro diritti, tanto individuali quanto collettivi (libertà di associazione), permettendo in tal modo che la cosiddetta società reale (ovvero quel complesso di istituti sorti dal basso, cioè dalle libere attività e decisioni della popolazione, anziché dall’iniziativa dei suoi dirigenti e amministratori politici) assumesse una dimensione e una solidità altrove impensabile. A tale proposito, l’autore inserisce all’inizio del quinto capitolo un brano di Gramsci estremamente pertinente in cui si legge: “In Oriente lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro la quale stava una catena di fortezze e casematte” (pag. 151). Se dunque determinati fattori politici legati all’assetto del mondo feudale avevano “creato” questa prima società del (libero) mercato, quest’ultima aveva in seguito a sua volta ri-creato la dimensione politica in una forma nuova rispetto a tutti gli altri tempi e luoghi, una forma rispettosa tanto del mercato stesso quanto dei suoi portati sociali e culturali.

Quanto alle implicazioni culturali dei mercati, Pellicani dedica a questo tema davvero cruciale un intero capitolo (Il mercato come agente di secolarizzazione culturale), nel quale mostra come essi abbiano sempre svolto – a partire, ad esempio, dai tempi della Grecia antica con la nascita della filosofia, fino e ben oltre la moderna Rivoluzione industriale – un prezioso ruolo di liberazione della società dai legacci del pensiero tradizionale di impronta magico-religiosa, e di incoraggiamento allo sviluppo di una mentalità aperta e di una visione razionale e laica del mondo. Lo stesso rigoglio scientifico, tecnologico e finanziario conosciuto dal mondo europeo a partire dal tardo medioevo e nel periodo rinascimentale, nonché infine nel periodo della rivoluzione industriale, si giustifica appunto come il prodotto della temperie culturale razionalista e libertaria, introdotta dalle classi mercantili nell’antica società feudale, religiosa e conservativa.

Per dirla con il Weber della maturità insomma, che questo tema aveva forse messo a fuoco meglio dello stesso Marx, si può affermare che “il mercato è stato il grande agente di secolarizzazione e l’istituzione grazie alla quale la “ratio” è nata e ha potuto “lavorare” la società occidentale, razionalizzandone le forme di vita” (pag.  243).

In conclusione di questo lungo discorso, mi pare di poter affermare che, secondo il bilancio di Pellicani, il capitalismo sia, tra le diverse forme di organizzazione economica, la prima e l’unica capace di influenzare pesantemente la dimensione politica e decisionale della società. In questo aveva dunque visto giusto Marx, quando sosteneva che, all’interno del moderno mondo capitalista, la politica non fosse che una sovrastruttura o riflesso (peraltro, a sua volta molto importante e influente) dell’economia. Il suo errore era stato tuttavia, quello di estendere in modo indebito una tale preminenza sia alle epoche a esso precedenti, sia alla genesi stessa del capitalismo – il quale invece, come si è appena visto, trovò la sua origine ultima in una serie di fattori assolutamente non economici, bensì politico-istituzionali.

Né va in ogni caso dimenticato come la politica possieda, anche nel sistema capitalistico, forti capacità di influenzare l’economia, e di conseguenza grandi responsabilità sui suoi sviluppi.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014