LA GENESI DEL CAPITALISMO E LE ORIGINI DELLA MODERNITA'

di Adriano Torricelli

(a.2)  La libertà individuale come variabile distintiva tra le diverse società

Il discorso ‘positivo’ di Pellicani si fonda tutto su una distinzione di fondo, quella tra due diversi tipi di società: le società aperte (capitalistiche) e le società chiuse (precapitalistiche). Nelle prime prevarrebbero l’iniziativa privata e la libertà di pensiero, nelle seconde invece la pianificazione politica e la tradizione.

Queste ultime tuttavia, non sono affatto equiparate tra loro, quasi potessero essere messe tutte in uno “stesso contenitore”. Al contrario, nel corso del saggio l’autore dimostrerà come esse abbiano spesso caratteri non solo diversi ma perfino opposti tra loro.

Pellicani parte, nell’esposizione della sua personale teoria sulla genesi del capitalismo, da una distinzione geopolitica preliminare, risalente ancora al pensiero degli antichi greci: quella tra Occidente (da questi identificato con il mondo ellenico, ma per noi moderni comprendente sia l’Europa che, per estensione, gli stati del nord America) e Oriente (termine che, in sostanza, rimanda al complesso delle restanti civiltà, senza rilevanti implicazioni geografiche).

Di una tale antichissima distinzione peraltro, l’autore riprende – seppure criticamente – una variante ben precisa, quella di modo di produzione asiatico, una categoria storica formulata per la prima volta da Marx ed Engels e successivamente ripresa e sviluppata tra gli altri dal Weber della maturità. Una categoria che demarca efficacemente la profonda differenza esistente, sul piano sia economico che politico, tra le civiltà europee e quelle extraeuropee.

(a.2.1) Il Dispotismo asiatico

Pellicani inizia dunque il suo lungo percorso esplicativo, dall’analisi delle società orientali (da lui definite “ad economia ingabbiata”) la cui struttura socio-economica fu – come appena detto – lucidamente compresa e descritta per la prima volta dai due fondatori del materialismo storico, i quali nel loro carteggio privato parlarono di una specifica strada asiatica e non occidentale allo sviluppo statale, da essi chiamata appunto “modo di produzione asiatico”.

Il discorso dei due filosofi tedeschi si basava sull’idea che, al di fuori della tradizione statale europea e occidentale, gli stati trovassero il loro fondamento non in forme di governo collettive ma dispotiche, ovvero in un’unità politica quasi trascendente, dotata di poteri dirigistici pressoché illimitati su una serie di centri produttivi locali o  villaggi, distribuiti all’interno dei propri territori. Tale unità, rappresentata da un Sovrano o comunque da un potere autocratico e supremo (coadiuvato nella sua azione da vasti apparati burocratici, religiosi e militari), godeva secondo la loro analisi tanto della proprietà dei mezzi produttivi quanto – e conseguentemente – della possibilità di pianificare dall’alto le attività economiche svolgentisi nei propri confini.

Questa forma di organizzazione politico-giuridica aveva inoltre un preciso corrispettivo sul piano economico. Le singole comunità locali infatti, sacrificando la propria autonomia in favore dell’autorità del sovrano, ottenevano in cambio la possibilità di una gestione centralizzata e quindi più efficiente dei lavori di pubblica utilità (ad esempio, quelli di canalizzazione e di irregimentazione delle acque tipici delle società medio-orientali) da cui ricavavano poi notevoli vantaggi. Secondo la visione di Marx ed Engels dunque, l’esigenza delle singole unità locali di consorziarsi tra loro per aumentare la propria efficienza produttiva aveva costituito la molla primaria di quel lungo e tormentato processo – segnato per forza di cose anche da sanguinose vicende militari – che aveva portato alla nascita di tali stati.

In altre parole, per i due fondatori del materialismo storico, il “modo di produzione asiatico” (ovvero l’organizzazione economica centralizzata che abbiamo appena descritto, essenzialmente finalizzata ai public works) doveva essere considerato come la scaturigine più profonda del “dispotismo asiatico” (ovvero di un’organizzazione politica fondata sullo strapotere del sovrano sulla società civile). Una tesi questa, che conferma una volta di più la natura economicistica del loro pensiero, basato come noto sul principio – squisitamente economico – che vede nella ricerca di una sempre maggiore efficienza produttiva il motore ultimo del divenire storico, e nelle trasformazioni politiche un epifenomeno di quelle economiche.

Il modo di porsi di Pellicani nei confronti di questo discorso mi pare senza dubbio ambivalente. Se da una parte infatti egli mostra di ammirare la lucidità della teoria marxista (la cui veridicità comprova in più di un capitolo attraverso l’analisi di alcune delle principali civiltà extraeuropee), dall’altra ne rigetta però i presupposti economicistici.

Egli condivide insomma i principali pilastri della teoria di Marx – vale a dire, in sintesi: a) lo strapotere politico (ovvero il dispotismo) del Sovrano come base dello stato asiatico; b) l’assenza in esso del concetto, tipicamente europeo, di proprietà privata, intesa come diritto personale sacro e inviolabile da parte di qualsiasi ente terzo, compreso lo stato; c) i lavori di pubblica utilità come principale missione economica dello stato, oltre che come legittimazione materiale del suo potere sui sudditi –, ma al tempo stesso ne contesta l’idea secondo la quale un tale dispotismo sarebbe il risultato (seppure indiretto) di un’esigenza economica generalizzata di coordinamento e potenziamento in materia di public works.

Egli afferma difatti che, almeno in linea di massima, una lettura dei fatti priva di pregiudizi dimostrerebbe proprio una tesi opposta a questa. Essa mostrerebbe cioè come gli stati dispotici siano innanzitutto il risultato di una fortunata serie di campagne militari che unificano territori in precedenza indipendenti sotto un’unica autorità politica.

A questa prima fase, di carattere puramente militare, ne seguirebbe un’altra in cui il sovrano, preoccupato dal pericolo di una disgregazione dello stato neonato, impegnerebbe i sudditi delle varie regioni nella costruzione di gigantesche opere collettive: grandiosi monumenti (come le piramidi egizie o la grande muraglia cinese) privi di vere e proprie implicazioni pratiche, il cui vero scopo sarebbe quello di celebrare l’autorità divinizzata del re, rafforzando allo stesso tempo lo spirito di collaborazione tra le popolazioni che vi partecipano.

Solo in una terza fase, afferma Pellicani, prenderebbe piede l’idea di usare le corvé del popolo come mezzi per la costruzione di strade, canalizzazioni, dighe, ecc. – ovvero per quei lavori di pubblica utilità di cui parlavano Marx ed Engels.

Il modo di produzione asiatico insomma, costituirebbe secondo una tale concezione una derivazione dei fattori politici e militari, i quali invece – loro sì – costituirebbero la molla primaria alla base della formazione dello stato stesso. Una tesi questa, che ribadisce una volta di più l’ipotesi metodologica alla base del suo saggio: quella secondo cui la sfera politico-istituzionale verrebbe prima, essendone inoltre la causa, di quella economica.

Ma il discorso di Pellicani sulle società asiatiche non si riduce a questo. Esso si estende infatti anche a quello che è l’argomento centrale del libro, ovvero al capitalismo in senso proprio. A tale proposito, egli si pone la domanda sul perché negli stati asiatici, anche peraltro nei casi (e sono la maggior parte) in cui si sia sviluppata una vasta e florida classe mercantile, non sia emersa e non si sia affermata anche un’economia di carattere propriamente capitalistico.

Per comprendere la risposta che egli dà a tale domanda, bisogna però preliminarmente chiarire un concetto cui si è finora appena accennato. Per Pellicani il capitalismo, in quanto coincidente con il libero mercato, non può essere altro che uno sviluppo del mercato stesso, risultato della sua liberazione dalla pressione e dai vincoli che su di esso normalmente esercitano le altre sfere della società – in primis quella politica. Una liberazione dovuta peraltro alla crescita esponenziale dei suoi profitti e – di conseguenza – della sua capacità di influenzare gli altri aspetti della vita sociale. (Su questi concetti però, tornerò più avanti…)

Alla luce di questa idea, è facile capire la ragione per cui il capitalismo non possa, secondo il nostro autore, svilupparsi autonomamente all’interno degli stati dispotici, anche laddove – come si è detto – siano presenti vaste e floride classe mercantili. I poteri statali sono difatti, in tale tipo di realtà, tanto vasti e onnipervasivi da impedire il libero sviluppo dei mercati e dell’iniziativa privata, per forza di cose imprigionata nelle maglie della burocrazia e del dirigismo delle caste funzionariali e clericali. È insomma, la presenza di quella che Mumford definì la Megamacchina, ovvero dell’enorme ed esigente macchina amministrativa e militare dello stato dispotico, il fattore che impedisce alle attività di mercato di seguire quel naturale percorso di crescita (basato sul circolo virtuoso di investimento e crescita dei profitti) che di per sé porterebbe invece alla genesi di un’economia basata sul libero mercato, ovvero appunto (secondo la visione di Pellicani) al capitalismo in senso proprio.

In particolare, è l’assenza della proprietà privata intesa in senso occidentale il fattore che impedisce alla classe borghese di conservare e quindi reinvestire le ricchezze guadagnate attraverso i propri traffici, rendendo impossibile in tal modo la formazione del capitale originario necessario a sviluppare mercati sempre più vasti. Laddove infatti, si formino ricchezze private notevoli e ‘abnormi’, i poteri statali hanno facilità, attraverso i propri apparati amministrativi e militari, a requisirle e a convertirle in ricchezza pubblica (cioè dello stato e del sovrano), impedendo così il meccanismo basilare di ogni economia capitalistica: quello cioè del reinvestimento costante dei profitti privati ai fini di un loro accrescimento indefinito.

In alternativa, sempre in presenza di aziende capaci di profitti inusuali, lo stato può decidere di assorbirle trasformandole in imprese pubbliche, premiando magari gli imprenditori di successo con una posizione di riguardo nelle proprie gerarchie, ma trasformandoli al tempo stesso da liberi imprenditori in funzionari, come tali sottoposti alla sua autorità dirigistica. Anche in questo modo, il predominio della sfera pubblica su quella privata viene dunque ribadito, il politico prevalendo ancora una volta sull’economico – cosa che, come si sarà capito, costituisce la migliore garanzia contro la possibilità di una deriva capitalistica della società.

In base al bilancio di Pellicani quindi, sarebbe la stessa conformazione istituzionale degli stati asiatici – tanto cioè la presenza di vasti apparati statali, estremamente invasivi nei confronti delle attività economiche svolgentisi nei suoi confini, quanto l’assenza di rigorose garanzie giuridiche per la proprietà privata – il principale fattore di impedimento allo sviluppo di un’economia capitalistica al loro interno.

Se è vero quindi (come il nostro autore dimostra ampiamente) che la stragrande maggioranza degli stati al di fuori dell’Europa ha un carattere fondamentalmente dispotico, all’origine del loro mancato sviluppo capitalistico non vi sarebbero tanto fattori di natura economica (i mercati difatti, base e scaturigine del capitalismo, sono una realtà ampiamente sviluppata in quasi tutte le società asiatiche), bensì piuttosto fattori di natura politica e istituzionale che impedirebbero un pieno e libero dispiegamento della logica del mercato e del profitto privato.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12-09-2014