LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


L’AGGRESSIONE FASCISTA ALL’ETIOPIA

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I PIANI AGGRESSIVI DEL FASCISMO ITALIANO

Verso la metà degli anni '30 le pesanti conseguenze della crisi economica mondiale e il sorgere di tensioni sul piano interno crearono nei circoli governativi fascisti la convinzione che l’unico mezzo per superare le difficoltà insorte era l’allargamento territoriale dell’Italia a spese di altri paesi e la sua trasformazione in un grande impero coloniale. La scelta del momento venne determinata dalla situazione internazionale: l’impunità dell’aggressione giapponese a carico della Cina e della politica revanscista tedesca convinse i fascisti italiani che anch’essi non avrebbero incontrato una seria resistenza.

Il programma di espansione che si era posto l’Italia fascista conteneva amplissime rivendicazioni e si estendeva in pratica a tutto il Mediterraneo. La propaganda faceva riferimento al diritto “storico” che risaliva ai tempi dell’antica Roma, quando si parlava di “mare nostrum”.

Nei Balcani, non accontentandosi dell’Albania, che di fatto era già stata posta sotto protettorato italiano, l’Italia aveva intenzione di attirare sotto la sua influenza vari altri paesi. I fascisti italiani calcolavano di rafforzare la loro influenza anche nel bacino danubiano, particolarmente in Austria e in Ungheria, e questo indirizzo spiega in parte l’opposizione manifestata dal governo di Mussolini nel 1934 all’attuazione dell’Anschluss dell’Austria da parte di di Hitler.

Tuttavia la Gran Bretagna e la Francia impedivano la formazione di un blocco balcanico filo-italiano e successivamente collaborarono alla conclusione di un altro blocco tra Jugoslavia, Grecia, Romania e Turchia l’Intesa balcanica il cui scopo dichiarato era l’opposizione a tutti i tentativi di revisione dei confini fissati dai trattati del primo dopoguerra, e di conseguenza anche indirizzato contro le aspirazioni del fascismo.

La Germania nazista era in parte disposta a sostenere le pretese italiane nel Mediterraneo e nei Balcani, ma per quanto riguardava il bacino del Danubio, gli obiettivi della politica italiana e di quella tedesca divergevano totalmente.

Per questi motivi l’espansione italiana in Europa aveva prospettive assai limitate. L’Italia fascista pose quindi al primo posto nei suoi piani aggressivi l’allargamento dei possessi coloniali in Africa. La Libia, la Somalia e l’Eritrea, conquistate in precedenza, portavano alla metropoli vantaggi insignificanti, mentre il duro regime coloniale aveva portato la popolazione indigena alla completa rovina. Le colture agricole venivano effettuate su scala modesta e soltanto in rare oasi. Industria non ce n’era quasi per nulla. Non esistevano neppure le condizioni favorevoli per una vasta immigrazione italiana. Il commercio con le colonie era assai limitato. Più dei 2/3 dell’esportazione libica e più dei 3/4 dell’importazione avvenivano con 1’Italia, e tuttavia come mercato di smercio e fonte di materie prime la Libia non rivestiva per l’Italia particolare interesse.

Maggiore importanza avevano queste tre colonie come basi militari strategiche per l’ulteriore espansione in direzione della Tunisia, dell’Egitto e dell’Etiopia. La conquista della Tunisia e dell’Egitto, che appartenevano rispettivamente alla Francia e alla Gran Bretagna, era per il momento una fantasia irrealizzabile per i fascisti italiani. Ma la conquista dell’Etiopia e una rivincita della vergognosa sconfitta subita a opera degli abissini nel 1896 a Adua erano obiettivi che entravano nel novero delle possibilità per l’Italia.

LA MILITARIZZAZIONE DELL’ITALIA

L’Italia fascista si preparava intensamente alla guerra; veniva rafforzata la flotta navale da guerra (prevalentemente incrociatori veloci e sottomarini), ampliata la rate delle basi militari navali e aeree. Grosse installazioni militari erano state costruite nell’isola di Pantelleria, in Sicilia, a Tripoli, a Tobruk, a Rodi e nelle isole del Dodecaneso. Le spese militari negli anni 193334 avevano assorbito il 18,7% del bilancio statale.

Nel settembre del 1934 venne introdotta una legge sulla preparazione militare della nazione italiana, la quale prevedeva che ogni cittadino dai 18 ai 55 anni dovesse effettuare il servizio militare nelle forme dapprima del “premilitare” (1821 anni), poi del servizio militate effettivo, successivamente di richiami per esercitazioni militari di breve durata e infine nella riserva. Anche nelle organizzazioni giovanili fasciste si dedicava una particolare attenzione alla preparazione militare, e alla gioventù venivano inculcati il culto della violenza, lo sciovinismo e il disprezzo verso gli altri popoli.

In funzione delle esigenze militaristiche veniva riorganizzata anche l’economia del paese, che aveva superato con fatica le conseguenze della crisi mondiale. La ripresa della produzione industriale cominciata nel 1934 si verificava essenzialmente nei settori militari dell’industria e in quelli collegati: industria automobilistica, delle costruzioni navali, delle fibre sintetiche, dell’alluminio, mentre la produzione dei beni di consumo veniva ridotta.

Rispondeva agli interessi della militarizzazione dell’economia italiana anche la politica dell’“autarchia” attuata a imitazione della Germania nazista. Essa richiedeva grandi investimenti di capitale e si rifletteva negativamente sull’economia nazionale, distorcendo la sua struttura tradizionale.

Veniva forzato lo sfruttamento di giacimenti di minerali e di combustibili poveri; alcuni rami dell’industria vennero convertiti per l’utilizzazione delle materie prime locali di cattiva qualità; venivano prodotti vari succedanei a caro prezzo. Gli unici a trarre benefici dall’autarchia erano i grossi monopoli che ricevevano laute sovvenzioni statali.

In questo periodo s'intensificava il processo di concentrazione e centralizzazione del capitale, mentre cresceva il ruolo del capitalismo statale monopolistico. Lo Stato pose sotto il suo controllo le grosse banche e creò nuovi organi per il finanziamento dei settori militari dell’industria. L’IRI (Istituto della ricostruzione industriale), creato nel 1933, diventò un’importante organizzazione statale monopolistica. Inizialmente rientrava nei suoi compiti la concessione di crediti statali all’industria e alle banche che si trovavano dinanzi alla minaccia di bancarotta durante il periodo della crisi. In seguito a questa politica si concentrarono nelle mani dell’IRI notevoli pacchetti azionari di vari monopoli e delle banche più influenti.

Il controllo dell’IRI, delle banche e delle società per azioni a esso collegate, create con la diretta partecipazione dello Stato, si estendeva ai maggiori cantieri navali, alle compagnie di navigazione, all’industria siderurgica e a quella meccanica, nonché alle imprese per la fabbricazione della gomma sintetica, della cellulosa, all’industria elettrica, a quella chimica ecc. In seguito il ruolo dell’IRI si ampliò, dato che gli venne affidato il compito del finanziamento della industria bellica e della realizzazione del piano di autarchia.

Ai fini della preparazione bellica l’Italia fascista accumulava scorte di materiali strategici. Questo era un compito difficile, perché il paese disponeva soltanto di 8 delle materie prime militari tra le 34 necessarie. Le deficienze di materie prime venivano coperte dall’importazione; veniva infatti importato il 7580% del carbone, il 95% del petrolio e il 99% del cotone.

La diminuzione delle riserve auree negli anni della crisi aveva ridotto le possibilità di acquisto di materie prime e di combustibili. Per questo lo Stato fascista aveva fatto ogni sforzo per aumentare l'esportazione e per ricercare altri mezzi per la copertura del valore delle materie strategiche importate.

Nel periodo della preparazione alla guerra italo-etiopica, quando il problema delle riserve strategiche divenne particolarmente acuto, venne introdotto il sistema delle licenze per l’importazione di diverse merci, e successivamente fu istituito il monopolio statale sull’importazione del carbone coke, del rame, della stagno, e venne creato un ministero nelle cui funzioni rientrava la regolamentazione del commercio estero e della circolazione valutaria.

Agli stessi fini della militarizzazione dell’economia servivano le leggi introdotte nel 1934 per consolidare lo “Stato corporativo”. L’idea del sistema corporativo, che era stata avanzata già nei primi anni del regime fascista, ricevette un ulteriore sviluppo negli anni '30, quando venne creato il consiglio nazionale delle corporazioni.

In ogni corporazione entravano i rappresentanti delle federazioni degli imprenditori, quelli dei “sindacati” (unioni professionali fasciste) dei corrispondenti settori e rappresentanti del partito fascista. Tutta l’organizzazione corporativa si trovava alle dipendenze del ministero delle corporazioni, diretto dallo stesso Mussolini.

Attorno alle corporazioni venne sollevata una chiassosa campagna allo scopo di dimostrare ch'esse assicuravano la partecipazione delle masse popolari alla direzione dello Stato e dell’economia. I fascisti affermavano demagogicamente che questo era un particolare sistema sociale “giusto” e “al di sopra delle classi”, “che univa l’iniziativa privata al controllo statale”. In realtà le corporazioni erano dirette dai finanzieri, dagli industriali e dai funzionari fascisti. I grossi monopoli ottenevano attraverso le corporazioni sovvenzioni dalle casse statali e utilizzavano il sistema corporativo per incidere sui diritti dei lavoratori. Le corporazioni dovevano favorire la preparazione ideologica alla guerra, e servire a consolidate le retrovie.

LA LOTTA DEI LAVORATORI ITALIANI CONTRO IL FASCISMO E LA MINACCIA DELLA GUERRA

Le masse popolari italiane erano contrarie alla politica reazionaria dei circoli governativi fascisti. Le attività antifasciste non erano cessate nel paese; venivano organizzate dimostrazioni, riunioni clandestine, e diffusi volantini e giornali clandestini. Gli operai si battevano contro l’offensiva del capitale, i contadini portati all’esasperazione dalle tasse e dalla mancanza di terra si sollevavano spesso in rivolte spontanee. Soltanto in pochi mesi del 1934 si registrarono in Italia decine di azioni antifasciste, che tuttavia non erano collegate e non avevano carattere di massa.

Il Partito comunista d’Italia durante gli anni del regime fascista subì gravissime perdite. A partire dal 1927, ogni settimana venivano pubblicati comunicati ufficiali sulle condanne emesse dal tribunale speciale fascista. Delle 4.671 persone condannate da questo tribunale, 4.030 erano comunisti, e tra le 10.000 inviate alle isole di confino, i comunisti erano 8.000.

Ma le leggi eccezionali e le persecuzioni della polizia segreta fascista (OVRA), il carcere e le deportazioni nei campi di concentramento non riuscirono a spezzare la volontà di resistenza dei comunisti. Nel fuoco della lotta quotidiana il partito si liberò degli opportunisti, elaborò la sua strategia e la sua tattica e divenne gradualmente il centro di attrazione delle forze democratiche italiane. All’estero venne organizzata la stampa di pubblicazioni comuniste che venivano poi introdotte in Italia con svariati stratagemmi. A Parigi veniva pubblicato un settimanale in lingua italiana, e, benché il governo francese lo vietasse di frequente, esso continuava a uscire con una testata sempre nuova. Il partito pubblicava anche una rivista teorica, “Stato operaio”, una parte delle cui copie, tirate su carta sottilissima, venivano introdotte in Italia.

Il movimento democratico di “Giustizia e libertà”, sorto nel 1929 nell’ambiente piccolo-borghese dell’emigrazione italiana in Francia, collaborava con i comunisti nella lotta antifascista. Nel 1934 anche fra socialisti e comunisti venne concluso un patto d’unità d’azione.

LA SITUAZIONE DELL’ETIOPIA

L’Etiopia si presentava negli anni '30 come uno Stato di tipo semi-feudale sottosviluppato. In seguito alle conquiste coloniali fatte in Africa da parte della Gran Bretagna, della Francia e dell’Italia, essa risultava circondata dai possedimenti di queste potenze ed era priva di sbocchi sul mare; ma le acute contraddizioni che dividevano gli imperialisti avevano ostacolato fino ad allora la sua trasformazione in colonia.

Nel 1923 l’Etiopia, con l’appoggio della Francia, era stata ammessa nella Società delle Nazioni. La popolazione, assai varia dal punto di vista etnico e linguistico, contava circa 10 milioni di persone; loro occupazione fondamentale era la agricoltura. Le enormi estensioni di terre incolte creavano condizioni favorevoli per lo sviluppo dell’allevamento del bestiame, ma l’agricoltura si trovava a un livello assai basso. I metodi di coltivazione della terra non erano quasi mutati dall’epoca preistorica e venivano ancora impiegati attrezzi primitivi (di legno, d’osso e di pietra). Assai frequente era l’utilizzazione come aratro di un semplice bastone con un chiodo di ferro al termine. I contadini consegnavano al feudatario fino a 1/3 del raccolto e la quarta parte del bestiame, e pagavano pesanti tasse a favore della Chiesa copta e dello Stato.

Accanto allo sfruttamento feudale dei contadini veniva utilizzato il lavoro degli schiavi. Questi erano essenzialmente prigionieri catturati dai signori feudali nelle guerre intestine o nelle scorrerie contro le tribù che vivevano oltre i confini del paese. Il lavoro degli schiavi veniva impiegato quasi esclusivamente nelle aziende dei signori feudali; i grossi feudatari avevano a volte fino ad alcune migliaia di schiavi.

Come livello di sviluppo industriale l’Etiopia si trovava a uno degli ultimi posti del mondo; non esisteva un’industria nazionale, a eccezione di quella domestica e della produzione artigianale. I capitalisti stranieri avevano concentrato nelle loro mani le posizioni economico-finanziarie più importanti. L’unica ferrovia del paese, le banche e le aziende commerciali più o meno grandi e le ditte industriali appartenevano a stranieri.

L’influenza delle potenze imperialiste, in primo luogo della Francia e della Gran Bretagna, era evidente anche nella sfera della politica. In molti organismi governativi prestavano servizio specialisti stranieri. Sul piano amministrativo il paese era diviso in sette province governate da “ras” (principi feudali), debolmente subordinati all’autorità centrale; il capo dello Stato era l’imperatore, che aveva il titolo di “negus neghesti” (re dei re).

Dal 1916 governava di fatto l’Etiopia il ras Tafari Makonnen, figlio del ras Makonnen, uno dei più abili capi militari dell’imperatore Menelik II, il vincitore di Adua. Inizialmente egli aveva governato in veste di reggente, ma successivamente si fece incoronare negus e nel 1930, dopo la morte dell’imperatrice Zauditu, diventò imperatore con il nome di Hailè Selassiè I.

Il negus rappresentava il gruppo dei “giovani etiopici”, che esprimevano gli interessi della nascente borghesia commerciale e di parte del signori feudali, partigiani di una trasformazione in senso moderatamente progressista. I “giovani etiopici” aspiravano al consolidamento del paese e al rafforzamento della sua indipendenza.

Nel 1931 Hailè Selassiè aveva promulgato una Costituzione, diretta sostanzialmente alla centralizzazione dell’amministrazione statale, a ridurre il frazionamento feudale e a evitare le lotte intestine, particolarmente frequenti in occasione della successione al trono.

LA PREPARAZIONE DELL’ATTACCO ALL’ETIOPIA

L’Italia fascista era attratta sia dalle risorse di materie prime dell’Etiopia che dalla sua posizione strategica. La sua conquista avrebbe infatti offerto la possibilità di creare una massa compatta delle proprie colonie nell’Africa orientale e di rafforzare così notevolmente le sue posizioni.

I possedimenti italiani sarebbero divenuti una base militare diretta contro le colonie britanniche, un cuneo che avrebbe diviso il Sudan e la Somalia britannica, nonché una minaccia per le importanti comunicazioni della Gran Bretagna dall’oceano Indiano verso il Mediterraneo.

La conquista del lago Tana, dove sono le sorgenti del Nilo Azzurro, avrebbe assicurato all’Italia il controllo su tutto il sistema d’irrigazione del Sudan e dell’Egitto, subordinando alla sua volontà lo sviluppo agricolo di questi paesi.

I fascisti italiani avevano fino ad allora mascherato i loro piani aggressivi nei confronti dell’Etiopia con dimostrazioni d’amicizia; valendosi del trattato di amicizia e di arbitrato concluso nel 1928, essi avevano creato in Etiopia una rete di propri agenti, inviando là missionari e “specialisti”, e avevano corrotto alcuni governatori delle province.

Dall’autunno del 1934 l’Italia cominciò ad agire più apertamente. Vennero inviati in Eritrea e in Somalia ingenti materiali militari, aeroplani e carri armati, furono modernizzati gli aeroporti, i porti di Massaua e di Mogadiscio, vennero eseguiti urgenti lavori per la ricostruzione della linea ferroviaria Massaua-Asmara, vennero ampliate e adattate alle necessità militari le carovaniere di montagna.

Contemporaneamente vennero provocati incidenti ai confini dell’Etiopia. Un conflitto particolarmente serio si verificò il 5 dicembre 1934 nella provincia etiopica dell’Ogaden, confinante con la Somalia italiana. In uno scontro con un reparto di truppe etiopiche gli italiani impiegarono i carri armati e l’aviazione; si ebbero decine di morti e di feriti in ambo le parti.

Il 3 gennaio 1935 l’Etiopia presentò una protesta alla Società delle Nazioni, chiedendone l’intervento. Il consiglio della Società però si limitò ad invitare le due parti a ricercare un accordo e rimandò di alcuni mesi l’esame della questione. Il “non intervento” della Società delle Nazioni era determinato dall’atteggiamento della Francia e della Gran Bretagna. In quel momento era stato definitivamente chiarito che i circoli dominanti francesi erano pronti a favorire l’espansione italiana in Africa, in cambio dell’appoggio alla politica della Francia nelle questioni europee.

Il 7 gennaio 1935, quattro giorni dopo il primo passo ufficiale dell’Etiopia alla Società delle Nazioni, il ministro degli affari esteri della Francia, Laval, firmò con Mussolini a Roma un trattato che riguardava i problemi europei (indipendenza dell’Austria, riarmo tedesco, status della popolazione italiana in Tunisia e, cosa fondamentale, le pretese coloniali dell’Italia nell’Africa orientale).

L’Italia rinunciava all’espansione in direzione del lago Ciad e dell’Africa equatoriale, cioè verso le regioni di predominante influenza francese, e la Francia concedeva all’Italia non solo un compenso territoriale nell’Africa orientale (parte della Somalia francese al confine dell’Eritrea) ma anche rilevanti vantaggi economici (il 20% delle azioni della ferrovia Gibuti-Addis Abeba), e, nocciolo della questione, anche libertà di azione nei confronti dell’Etiopia.

Il governo britannico aveva a sua volta proposto all’Italia una transazione a spese dell’Etiopia. Nel giugno del 1935 Eden, che curava allora a Londra gli affari della Società delle Nazioni, giunse a Roma e propose a Mussolini un piano secondo cui l’Italia avrebbe dovuto ottenere notevoli ampliamenti territoriali nella provincia etiopica dell’Ogaden, mentre l’Etiopia avrebbe ricevuto una “compensazione” dalla Gran Bretagna nella forma di uno sbocco al mare attraverso la Somalia britannica.

L’Italia respinse queste proposte, ritenendo, a ragione, che avrebbe potuto impadronirsi di tutta l’Etiopia. Nell’agosto del 1935 la forza numerica dell’esercito italiano nell’Africa orientale raggiunse i 270.000 uomini, mentre si trovavano sotto le armi complessivamente circa un milione di soldati.

LA GUERRA ITALO-ETIOPICA

Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane varcarono, senza che fosse stata fatta una dichiarazione di guerra, il fiume di confine Mareb e penetrarono nel territorio dell’Etiopia. Esse sferrarono l’attacco principale partendo dall'Eritrea verso le città di Adigrat-Adua-Axun, avendo come obiettivo strategico la linea Makallè-Dessiè-Addis Abeba. Questa direttrice coincideva in sostanza con la strada detta “dell’imperatore”, che andava dall’Eritrea ad Addis Abeba.

Qui vennero concentrati i 2/3 dell’esercito italiano sotto il comando del generale De Bono e più tardi del maresciallo Badoglio (che nel novembre 1935 venne nominato comandante in capo del corpo di spedizione italiano).

Nel settore sud della Somalia attaccavano le truppe del generale Graziani verso Gorrahej, Harar e Dire Daua. Questo settore, e così pure la direttrice da Assab verso Dessiè, avevano un’importanza secondaria, nel senso che in questi due settori alle truppe italiane era stato affidato soltanto il compito di impegnare le forze militari dell’Etiopia, tenendole lontane dallo scacchiere decisivo del nord.

Fin dal primo giorno di guerra, l’imperatore Hailè Selassiè emanò l’ordine della mobilitazione generale. Il popolo etiopico si preparò a combattere una giusta guerra difensiva contro la minaccia di asservimento da parte del fascismo italiano. La forza complessiva dell’esercito etiopico raggiungeva circa i 350.000 uomini, e i singoli reparti militari erano comandati dai ras. I vari reparti erano però subordinati debolmente al comando supremo imperiale, e di solito i ras si preoccupavano essenzialmente della difesa dei loro propri possedimenti.

L’approvvigionamento dell’esercito avveniva in forme primitive; gli equipaggiamenti e i rifornimenti dei guerrieri più ricchi erano portati dai loro schiavi, mentre quelli dei guerrieri poveri erano portati dalle loro donne. Debole e arretrato su un piano tecnico-organizzativo, l’esercito etiopico si apprestava a sostenere la pressione delle truppe fasciste agguerrite, bene armate e fornite di centinaia di aerei, carri armati, cannoni e di migliaia di autocarri.

Tuttavia, nonostante l'enorme superiorità tecnica, le truppe italiane non poterono ottenere la vittoria in un breve periodo di tempo. Le forze principali dell’esercito etiopico al nord, comandate da ras Seyum, erano schierate nella zona di Adua. Il ras Gugsa (genero dell’imperatore), subordinato al ras Seyum, doveva provvedere con le proprie truppe alla difesa di Makallè, principale città della provincia del Tigre.

Nella zona nordoccidentale del Tigre si trovava con le proprie truppe il ras Ayuela Burru, che doveva penetrare in Eritrea. Nel sud dell’Etiopia era schierato l’esercito dei ras Nassibu (nella regione di Harar) e Desta (a nord di Dolo).

Poco dopo l’inizio delle operazioni militari il ras Seyum abbandonò Adua, mentre il ras Gugsa, corrotto dagli italiani, passò dalla loro parte. In tal modo la linea di difesa nel nord crollò fin dai primi giorni della guerra.

Il comando etiopico tentò di correggere la situazione, ma tutti i capi militari agivano isolatamente e non si sostenevano l’un l’altro. Tuttavia le truppe etiopiche, favorite dalla natura del terreno montagnoso, opposero una tenace resistenza, effettuando imboscate, tagliando le linee di comunicazione italiane, penetrando nelle retrovie nemiche e battendosi accanitamente per ogni chilometro di territorio.

La guerra andava per le lunghe. Nel febbraio del 1936, nel quinto mese di guerra, l’esercito italiano sul fronte settentrionale era avanzato di appena 100 chilometri oltre il confine. La stessa situazione si osservava anche negli altri settori. I fascisti italiani effettuavano dure rappresaglie contro i soldati e i partigiani etiopici, e spesso anche le popolazioni inermi. Nell’intento di terrorizzare il popolo etiopico l’aviazione italiana bombardava villaggi indifesi, città e ospedali della Croce rossa.

In aggiunta a tutto questo i fascisti, violando i trattati internazionali, dettero inizio alla guerra chimica, tanto più micidiale in quanto gli abissini non possedevano maschere antigas né altri mezzi di difesa contro gli aggressivi chimici.

La tragica conclusione del conflitto venne accelerata dagli errori del comando etiopico. L’imperatore aveva rinunciato alla guerra di movimento, e alla fine di marzo scagliò circa 20.000 uomini in un disperato attacco alle posizioni italiane presso il lago Ascianghi. Questo attacco s’infranse dinanzi alla potenza dei mezzi tecnici del nemico. L’artiglieria italiana di lunga gittata sparava indisturbata sui reparti attaccanti etiopici e l’aviazione rovesciava sopra di essi bombe e sostanze tossiche. Gli abissini ebbero più di 8000 caduti, mentre le perdite italiane furono modeste. La battaglia presso il lago Ascianghi era perduta, l’esercito regolare etiopico sbaragliato e la via verso Addis Abeba aperta.

Il 5 maggio 1936 Addis Abeba venne occupata dalle truppe italiane. Qualche giorno dopo l’imperatore Hailè Selassiè lasciò il paese. Il 9 maggio il re d’Italia Vittorio Emanuele promulgò il decreto di annessione dell’Etiopia all’Italia; poco tempo dopo l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia italiane vennero riunite nell’“Africa orientale italiana”.

LA CONNIVENZA DELLE POTENZE OCCIDENTALI NELL’AGGRESSIONE ITALIANA

L’Italia fascista aveva effettuato un’aperta aggressione armata contro uno Stato pacifico sovrano, membro della Società delle Nazioni, ma questa organizzazione internazionale chiamata a difendere la causa della pace non aveva preso nessun tipo di misure concrete sia per prevenire l’aggressione fascista sia per reprimerla quando la guerra era già incominciata.

Soltanto il 4 settembre 1935, dopo nove mesi di scontri, il consiglio della Società delle Nazioni si accinse all’esame del conflitto italo-etiopico. Nel frattempo ai confini dell’Etiopia era stato già concentrato un potente esercito italiano.

Il “comitato dei Cinque”, creato dal consiglio della Società, non tentò neppure di prendere provvedimenti efficaci contro l’aggressione che andava preparandosi. Al contrario, il progetto di “regolamentazione” proposto suggeriva di fatto di liquidare l’indipendenza dell’Etiopia, con la sola differenza ch'essa non sarebbe stata una colonia dell’Italia, ma oggetto dello sfruttamento comune da parte di alcune potenze. Il progetto venne respinto dall’Italia sulla base del fatto ch'esso non prendeva in considerazione le tesi italiane basate sui “trattati e le realtà storiche”, nonché sulla “difesa delle colonie italiane e sulla missione dell’Italia in Africa”.

Il consiglio della Società delle Nazioni, sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale, fu però obbligato a riconoscere l’Italia quale Stato aggressore. L’11 ottobre l’assemblea della Società deliberò di adottare contro l’Italia “sanzioni” economico-finanziarie e affidò a un comitato di coordinamento la preparazione di proposte concrete. Secondo la decisione presa da questo comitato, i membri della Società delle Nazioni dovevano proibire l’esportazione in Italia di armi e di alcuni tipi di materie prime strategiche (gomma, piombo, stagno, cromo), porre fine alle importazioni di prodotti italiani e astenersi dal concedere all’Italia prestiti e crediti commerciali.

Tali provvedimenti limitativi non potevano esercitare un influsso decisivo sul corso degli avvenimenti, tanto più che l’Italia aveva creato a tempo debito delle riserve di materiali strategici e inoltre continuava a poter contare sull’aiuto degli Stati che non avevano aderito alle sanzioni. (Si era ampliato particolarmente in questo periodo il commercio italiano con la Germania e gli Stati Uniti).

L’embargo sul petrolio, senza la cui importazione l’Italia si sarebbe trovata in una situazione disperata, non venne applicato dalla Società delle Nazioni. Questo si spiegava in primo luogo col timore dei paesi imperialisti di scalzare il regime di Mussolini, e con l’avidità di guadagno dei più importanti monopoli petroliferi, come l’“Anglo-Iranian Oil Company”, l’americana “Standard Oil”, le compagnie romene e molti altri gruppi, che guadagnarono somme enormi con le forniture di petrolio all’Italia.

La Gran Bretagna e la Francia avrebbero potuto attuare anche un’altra efficace sanzione contro l’Italia: la chiusura del canale di Suez, tagliando così l’esercito fascista in Africa dalle sue basi, ma esse non vollero ricorrere a questa misura.

Inoltre le autorità francesi a Gibuti, con pretesti formali, fermavano le armi già acquistate dall’Etiopia, mentre l’amministrazione francese della ferrovia Gibuti-Addis Abeba si rifiutava di trasportarle.

La Gran Bretagna e la Francia ai primi di dicembre del 1935 conclusero, alle spalle dell’Etiopia, un accordo che incoraggiava gli aggressori italiani. Sotto il pretesto di ricercare delle vie per un regolamento della questione etiopica, i ministri degli esteri francese e britannico, Laval e Hoare, si accordarono per concedere all’Italia l’annessione diretta o indiretta di una notevole parte del territorio dell’Etiopia, benché in quel momento gli italiani avessero conquistato soltanto due zone ristrette di territorio etiopico. All’Etiopia veniva proposto poi un indennizzo consistente in una stretta fascia nel sud dell’Eritrea con l’accesso al mare ad Assab (un “corridoio per i cammelli”, così veniva chiamata questa striscia dai giornalisti). Il piano Laval Hoare, il cui contenuto fu pubblicato dai giornali, provocò il malcontento nell’opinione pubblica della Gran Bretagna e Hoare fu costretto a rassegnare le dimissioni.

Ma anche in seguito i circoli dominanti britannici attuarono una politica di connivenza con l’aggressione italiana. Gli stessi imperialisti statunitensi aiutarono l’Italia fascista. E' vero che la dichiarazione di neutralità approvata dal Congresso il 31 agosto 1935 impediva formalmente ad ambedue le parti belligeranti di acquistare armi negli Stati Uniti. Tuttavia, mentre l’Etiopia era effettivamente privata di questa possibilità, l’Italia, utilizzando intermediari, continuava a importare dagli Stati Uniti i materiali strategici che le erano necessari.

Soltanto l’Unione Sovietica insistette decisamente per arrestare gli aggressori. Partendo dal principio dell’indivisibilità della pace e della sicurezza collettiva, i rappresentanti sovietici alla Società delle Nazioni rilevarono che ogni guerra iniziata anche nella più lontana regione del globo terrestre era pericolosa per la causa della pace e che l’Etiopia, essendo un membro a pieno diritto della Società, doveva poter contare come ogni altro Stato sull’aiuto e l’appoggio di questa contro l’aggressore.

Il governo sovietico invitò le potenze societarie all’unità d'azione per la liquidazione del conflitto che andava maturando, e quando la guerra venne scatenata, esso fece, il 10 ottobre 1935, una dichiarazione nella quale confermava “di essere pronto ad adempiere, assieme agli altri membri della Società delle Nazioni, a tutti gli obblighi che lo statuto della Società impone a tutti senza eccezione”. E così l’Unione Sovietica partecipò alle sanzioni contro l’Italia e si batté con tenacia per la loro estensione, per l’applicazione dell’embargo sul petrolio e per la chiusura del canale di Suez.

LA LOTTA DEI COMUNISTI ITALIANI E DELL’OPINIONE PUBBLICA INTERNAZIONALE CONTRO L’AGGRESSIONE FASCISTA

I comunisti italiani si schierarono con coraggio e decisione contro l’aggressione fascista in Etiopia. Essi diffusero in Italia decine di migliaia di copie di un appello (“Salviamo il nostro paese dalla catastrofe”) lanciato dal Comitato centrale del partito nel marzo del 1935.

Nell’ottobre 1935 in un Congresso a Bruxelles i partiti comunisti e socialisti sostennero che “La guerra iniziata in Africa non è la guerra dell’Italia, ma la guerra del fascismo”. Il congresso formò un comitato d’azione che sviluppò un’attiva azione contro la guerra nei grossi centri industriali del paese, a Torino, Milano, Venezia, in quasi tutta l’Italia centrale e anche in Sardegna e in Sicilia, smascherando il carattere di conquista della guerra e la propaganda sciovinista dei fascisti. A Genova operava un’organizzazione clandestina del partito, che esercitava la sua influenza su più di diecimila portuali. I comunisti svolsero una grande attività anche tra la gioventù. L’aggressione fascista venne decisamente condannata dai più vasti settori dell’opinione pubblica internazionale.

Nel settembre del 1935 si tenne a Parigi una conferenza internazionale per la difesa del popolo dell’Etiopia, alla quale parteciparono rappresentanti di oltre 120 organizzazioni sociali della Gran Bretagna, della Francia, dell’Italia e di altri paesi. Il Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista invitò al consolidamento del fronte unico contro l’aggressione imperialista e il fascismo.

In molti paesi si ebbero scioperi di protesta. Le associazioni sindacali degli scaricatori portuali della Francia boicottarono i carichi delle navi italiane. Un analogo boicottaggio venne attuato dagli scaricatori di molti porti del Baltico, del mar Mediterraneo, delle coste americane. Varie organizzazioni sindacali della Gran Bretagna e della Francia chiesero la proibizione della produzione di merci per l’Italia. In molte città degli Stati Uniti sorsero gruppi locali della “Lega americana per la lotta contro la guerra e il fascismo” e comitati per la difesa dell’Etiopia. La Croce rossa sovietica fornì all’Etiopia ingenti aiuti materiali. Si svilupparono con grande vigore le proteste contro l’aggressione anche tra i popoli dell’Africa e dell’Asia. I comunisti dell’Egitto, della Siria, della Palestina, dell’Iraq, dell’Algeria, della Tunisia lanciarono un appello comune ai popoli dei loro paesi e ai popoli coloniali di tutto il mondo con le parole d’ordine: “Giù le mani dall’Etiopia!”. Anche l’armata rossa cinese protestò contro questa aggressione. Volontari di vari paesi si recarono in Etiopia per combattere contro gli aggressori fascisti. Nell’Unione sudafricana, nel Kenya, in Egitto si svolsero comizi e dimostrazioni di solidarietà con i popoli dell’Etiopia. Il re dello Yemen concesse il porto di Hodeida come centro di smistamento per le forniture all’Etiopia. Nelle città più importanti dell’India furono organizzati comizi di protesta e venne attuata una “giornata dell’Etiopia”.

LE CONSEGUENZE INTERNAZIONALI DELLA GUERRA ITALO-ETIOPICA

La guerra italo-etiopica portò a un ulteriore aggravarsi dei contrasti imperialisti, in particolare di quelli franco-italiani e anglo-italiani. Dopo essersi consolidata in Etiopia, l’Italia rinnovò le sue pretese sui vicini possessi coloniali francesi, cosa che portò alla fine del temporaneo avvicinamento alla Francia e dimostrò l’infondatezza dei calcoli dei circoli governativi francesi sull’“appagamento” dell’Italia.

La conquista dell’Etiopia da parte dell'Italia rafforzò in misura ancora maggiore la minaccia alle colonie africane della Gran Bretagna. Il Sudan anglo-egiziano veniva infatti a trovarsi adesso fra due colonie italiane, la Libia e l’Africa orientale italiana, mentre la Somalia britannica era a sua volta circondata da possedimenti italiani che avrebbero potuto servire da base operativa anche per l’invasione del Kenya e dell’Uganda; venivano messe inoltre in pericolo anche le comunicazioni imperiali britanniche sul mar Rosso.

In conclusione le relazioni della Gran Bretagna con l’Italia peggiorarono notevolmente, per cui il governo inglese cominciò a manifestare interesse a un avvicinamento con gli Stati del bacino del Mediterraneo che temevano l’aggressione italiana, e in particolare con la Turchia. In particolare la Gran Bretagna acconsentì ad appoggiare le richieste della Turchia sul suo diritto di fortificare gli Stretti del mar Nero.

La conferenza internazionale che si tenne nel giugno-luglio 1936 a Montreux terminò con la firma di una nuova Convenzione sul regime degli Stretti, che sostituiva la Convenzione di Losanna del 1923.

Una delle conseguenze internazionali della conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia fu anche la firma nel 1936 del trattato di alleanza anglo-egiziano, che legalizzava l’occupazione a lungo termine dell’Egitto da parte delle truppe britanniche. Il governo egiziano, che in precedenza non aveva consentito alla conclusione di tale trattato, lo accettò ora evidentemente per i timori sorti di fronte alla minaccia dell’aggressione italiana.

D’altra parte la guerra italo-etiopica favorì l’avvicinamento dei due Stati fascisti europei, l’Italia e la Germania, che si manifestò successivamente nel 1936 con il loro intervento contro la Spagna repubblicana. L’avvicinamento italo-tedesco venne realizzato sulla base di una sempre crescente subordinazione della politica dell’Italia agli interessi del nazismo tedesco. L’Italia infatti dovette rinunciare completamente a contrastare i piani tedeschi in Austria, nei Balcani, nel bacino danubiano. Questo fu il prezzo per l’aiuto economico e politico tedesco all’aggressione italiana in Africa.

Insomma la conquista coloniale attuata dall’Italia, con la connivenza delle altre potenze imperialistiche, consolidò le forze degli aggressori fascisti e risultò un nuovo decisivo passo sulla via della nuova guerra mondiale.

LA LOTTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE DEL POPOLO ETIOPICO

Dopo l’entrata delle truppe italiane nella capitale dell’Etiopia, Addis Abeba, il maresciallo Pietro Badoglio fece una pubblica dichiarazione nella quale si affermava che all’ombra della vittoriosa bandiera italiana il popolo etiopico avrebbe ottenuto la libertà, la giustizia e la prosperità. I fascisti italiani instaurarono invece in Etiopia un regime di rapina coloniale, di oppressione e di terrore. Essi crearono decine di società statali e private per lo sfruttamento delle ricchezze coloniali del paese; grossi complessi italiani quali la Fiat, la Pirelli ecc. si affrettarono ad aprire in Etiopia delle succursali.

Contemporaneamente cominciò un'appropriazione sistematica delle terra statali, di quelle dei signori feudali e della Chiesa, e degli appezzamenti dei contadini. Le autorità fasciste si proponevano di realizzare in Etiopia un'estesa colonizzazione agricola italiana, organizzando speciali insediamenti di soldati smobilitati e di contadini provenienti dalle province più povere d’Italia.

I conquistatori lasciarono sussistere nel paese gli ordinamenti feudali, e la popolazione locale venne considerata come una “razza inferiore”. Una parte degli abitanti di Addis Abeba e di altre città fu spostata dai quartieri centrali in appositi quartieri per gli “indigeni”, ai quali venne inoltre vietato di servirsi dei mezzi di trasporto pubblici.

I fascisti italiani fecero ricorso anche a dure repressioni per spezzare la volontà di resistenza del popolo etiopico. Durante gli anni della guerra e del regime coloniale in Etiopia morirono per fame, per le malattie e per i bombardamenti più di 750.000 persone; altre 275.000 furono intossicate dai gas. Il terrore si rafforzò particolarmente dopo l’attentato al maresciallo Graziani, effettuato ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937 da due giovani etiopici. Fecero le spese della repressione i rappresentanti della nobiltà etiopica, i capi militari, gli intellettuali, tutti quelli che avrebbero potuto organizzare la resistenza agli occupanti. Il numero delle vittime di queste esecuzioni in massa raggiunse (sulla base delle testimonianze oculari) circa 6.000 persone nella sola Addis Abeba, mentre nell’intero paese le vittime furono 30.000.

Per alcuni mesi dopo la conquista di Addis Abeba, il ras Desta con i suoi soldati continuò a combattere contro i conquistatori nel sud del paese, nella provincia del Sidamo, finché nel febbraio 1937 venne catturato e fucilato dagli italiani.

In occidente, nelle province del Gimma, il ras Immiru continuò a combattere fino alla fine del 1936. Più tardi, quando cessò la resistenza organizzata dell’armata etiopica, proseguirono la lotta i reparti partigiani guidati dai capi tribù. In molte province la lotta non cessò durante tutto il periodo dell’occupazione fascista, e ad essa parteciparono anche esponenti del partito comunista d’Italia, tra i quali Ilio Barontini.

Un gruppo di intellettuali etiopici organizzò un comitato per l’unità e la collaborazione nella lotta contro gli occupanti. Sotto la sua guida, nel 1938, scoppiò un’insurrezione nel Goggiam. Una grande popolarità godeva l’esercito partigiano che operava nella regione di Ankober, comandato dal giovane etiope Abebe Aregal. Questi aveva riunito i piccoli reparti partigiani in una grossa formazione che contava circa 100.000 uomini e teneva sotto una minaccia continua il territorio di Addis Abeba, effettuando improvvise incursioni contro gli occupanti e impadronendosi delle loro armi e munizioni.

I colonialisti italiani mantenevano nelle loro mani i grossi centri abitati e controllavano le strade, ma non poterono sottomettere le regioni più interne del paese. Le loro perdite durante il periodo dell’occupazione furono più rilevanti che durante lo svolgimento della guerra.

L’ITALIA DOPO LA GUERRA ITALO-ETIOPICA

La guerra del fascismo italiano contro l’Etiopia, l’intervento in Spagna, e la politica aggressiva del governo di Mussolini esaurirono l’economia del paese e provocarono altre conseguenze catastrofiche. Un certo aumento della produzione si notava soltanto nei rami direttamente o indirettamente legati con l’industria bellica.

Si ridussero invece notevolmente l’attività edilizia e la produzione di merci di largo consumo; in particolare la produzione dell'industria tessile diminuì del 18,5%. Nel complesso il volume della produzione industriale nel 1938 fu inferiore a quello del 1929.

L’Italia fascista, che rappresentava per territorio e numero di abitanti uno dei più grandi Stati dell’Europa occidentale, era arretrata dal punto di vista industriale rispetto alla Francia, alla Gran Bretagna e alla Germania. Nel 1939 essa produsse ghisa e acciaio in quantità inferiori rispettivamente di 20 e 8 volte a quelle della Germania, di 7,5 e 5 volte a quelle della Gran Bretagna e di 6,5 e 2,5 volte a quelle della Francia. Sulla base dei dati ufficiali, le spese militari dell’Italia negli anni dal 1935 al 1938 superarono gli 88 miliardi di lire.

L’occupazione dell’Etiopia obbligò l’Italia a impiegare enormi mezzi per mantenervi un esercito di 250.000 uomini e per la costruzione di una rete di strade strategiche. Il deficit del bilancio statale negli anni dal 1934 al 1938 fu di circa 55 miliardi di lire. La riduzione dell’attività dei rami economici che non servivano direttamente alla guerra provocò una riduzione delle riserve d’oro e delle valute straniere.

In conclusione l’Italia fascista si veniva a trovare al limite di una catastrofe economica. La dittatura fascista favoriva l’arricchimento dei monopolisti, dei ceti più elevati, della burocrazia fascista, dei latifondisti e dei grandi proprietari fondiari. Le dieci più grosse società industriali ottennero, nel 1937, 521 milioni di lire di profitti. Ma questo arricchimento avveniva a spese della dissipazione della ricchezza nazionale e della rovina dei lavoratori. Negli anni 1935-938 il costo della vita aumentò del 30%. I disoccupati furono nel 1938 il 20% più di prima della crisi del 1929. Andarono in rovina migliaia di contadini, che da piccoli proprietari si trasformarono in affittuari, mezzadri e salariati agricoli.

Nel 1938 più di un milione di operai dell’industria parteciparono a conflitti con gli imprenditori. S’intensificarono anche le proteste contro i sindacati fascisti e la burocrazia. Il movimento antifascista si diffuse anche fra i contadini. Nel 1937 i contadini di una serie di regioni rifiutarono apertamente di consegnare i prodotti agli ammassi obbligatori.

Vasti ambienti della piccola e anche della media borghesia si posero sulla via della resistenza passiva al fascismo. Manifestava malcontento verso il regime fascista anche parte della grossa borghesia, allarmata per la politica di subordinazione dell’Italia ai tedeschi attuata da Mussolini, per la riduzione dei vantaggiosi legami economici con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, e per la conclusione dei nuovi accordi commerciali con la Germania, in base ai quali le aziende commerciali e industriali tedesche ottenevano un vasto accesso al mercato interno italiano.

Un grande allarme negli ambienti della borghesia, del clero e dei circoli militari venne provocato dall’occupazione dell’Austria da parte di Hitler, per cui nell’esercito aumentarono gli umori antitedeschi.

La cricca governativa tentava di salvare il regime fascista a prezzo della definitiva trasformazione dell’Italia in un vassallo della Germania nazista e dell’appoggio attivo alla sua politica di conquista. Uscendo dalla Società delle Nazioni e associandosi al patto “anti-Komintern” l’Italia fascista cominciò a trovarsi sempre più implicata in avventure belliche. Il 7 aprile 1939 essa invase l’Albania, il 22 maggio concluse con la Germania un nuovo accordo di alleanza aggressiva militare e politica, il cosiddetto “patto d’acciaio”. La cricca di Mussolini stava portando l’Italia alla catastrofe.

Il 27 aprile 1937 morì in carcere il fondatore e capo del Partito comunista d’Italia, Antonio Gramsci. Nel luglio del 1937 il partito comunista concluse con il partito socialista un nuovo patto di unità d’azione. I due partiti assunsero l’impegno di organizzare il popolo italiano per la riconquista della libertà e della democrazia e per l’instaurazione di una repubblica democratica guidata dalla classe operaia, che avrebbe dovuto assicurare al popolo il pane, la pace e la libertà e che avrebbe dovuto prendere le misure necessarie per la distruzione delle basi economiche della reazione e del fascismo (la nazionalizzazione del capitale monopolistico industriale e finanziario, la liquidazione dei residui del feudalesimo nelle campagne ecc.) e per aprire la via al socialismo.

I comunisti e i socialisti italiani agirono con decisione in difesa della Spagna repubblicana. Più di tremila antifascisti italiani, con alla testa Palmiro Togliatti e Luigi Longo, combatterono nelle file delle brigate internazionali. La brigata “Garibaldi”, formata da antifascisti italiani, ebbe un ruolo importante nella vittoria dei repubblicani a Guadalajara. Accanto ai comunisti e ai socialisti, anche repubblicani, anarchici e altri antifascisti parteciparono alla lotta (come ad es. il movimento “Giustizia e libertà”). Nel 1939 i comunisti organizzarono a Torino, Milano e Genova e in altre città manifestazioni antifasciste di massa di operai, donne e disoccupati.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 19/02/2015