LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La nascita della democrazia politica borghese


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LA SITUAZIONE GENERALE DEL CLERO

Cardinale Mazarino
Cardinale Mazarino

«Primo dei tre ordini fra i quali si dividono 25.000.000 di francesi, il clero conta, all'incirca, 130.000 membri, di cui 70.000 regolari - che pronunciano voti monastici, obbediscono a una regola e vivono, per lo più, in conventi - e 60.000 secolari, che non pronunciano voti monastici e vivono nel mondo» (così A. Dansette, Chiesa e società nella Francia contemporanea, ed. Vallecchi).

Essendo il primo degli ordini dello Stato, il clero, che era il più grande proprietario del regno, fruiva di particolari privilegi: politici, giudiziari e fiscali. Già si è detto del sistema beneficiario col quale il re assicurava le cariche religiose ai suoi cortigiani oppure ai figli cadetti dell'aristocrazia più facoltosa. I titolari, in sostanza, percepivano 1/3 delle rendite dei vescovadi o abbazie, risiedendo prevalentemente nei dintorni di Versailles, presso la corte regia, e delegando l'effettivo esercizio del ministero pastorale e amministrativo ad ecclesiastici stipendiati (nel 1764 a Parigi vivevano non meno di 40 vescovi!). Cosa di cui non ci deve meravigliare, poiché, dipendendo la nomina dalla nascita o dalle relazioni, era impossibile che questi prelati avessero una buona formazione teologica o un vero interesse «etico-religioso» per i benefici ottenuti. Generalmente anzi, la loro condotta e i loro principi erano improntati alla mondanità e allo scetticismo dell'ambiente di corte.

Oggi si è soliti ritenere, sulla base di dati approssimativi, che il clero possedesse fino al 10% della proprietà nazionale, ma il rendimento di questi immobili, nel complesso, restava molto al di sotto delle loro reali potenzialità. Con l'assenteismo cronico dei beneficiari e le ingiustizie perpetrate ai danni della popolazione contadina, la gestione veniva svolta in maniera alquanto improduttiva. Lo attesta il fatto che la decima percepita da vescovi, abati e canonici sui prodotti agricoli e sugli armenti aveva un valore equivalente alle rendite dei possedimenti rurali.

Nonostante questo però il credito della chiesa restava di gran lunga migliore di quello dello Stato. Le proprietà fruttavano un'entrata annua pari a circa 1/4 della ricchezza fondiaria in ogni provincia del regno. Oltre a ciò bisogna mettere nel conto gli «incassi» delle varie fondazioni assistenziali, sanitarie ed educative, grazie alle quali la chiesa monopolizzava quasi completamente la gestione della vita sociale e culturale. Quando si parla di questi enti la storiografia cattolica è solita usare il termine di «oneri», ma tutti si rendono conto - poiché ancora oggi è così - che tali ambiti d'intervento gestiti dalla chiesa fruiscono sempre di ampie agevolazioni fiscali, di forti contributi statali, di lasciti e donazioni da parte di privati cittadini, per non parlare del fatto che, ad es., i 562 ginnasi tenuti allora dal clero, erano riservati alla nobiltà o comunque a quelle famiglie in grado di mantenere i figli agli studi.

I monasteri e i conventi erano ricchissimi: frati e monaci, in genere, oziavano con buone rendite e grandi proprietà. Ad eccezione di quelli che si dedicavano all'insegnamento o all'assistenza medica, gli ordini religiosi venivano considerati socialmente inutili. Ignavia e rapacità le accuse principali al loro indirizzo, benché non mancassero monaci appassionati alle idee dei filosofi. Fallita la riforma del 1776, che aveva cercato di porre rimedio alla decadenza dei costumi e allo spopolamento dei conventi, due anni dopo si decise di chiuderne 426, sopprimendo 8 ordini religiosi. Tra il 1768 e l'89 la crisi delle vocazioni fu notevolissima. Ciononostante la chiesa continuava a proclamare l'eternità dei voti monastici e lo Stato ne sorvegliava l'adempimento: se i religiosi abbandonavano il convento, vi tornavano accompagnati dalla forza pubblica.

Tutto il clero era esente dai gravami di carattere municipale e da qualunque imposta fiscale regia, diretta e indiretta. I beni della chiesa non pagavano alcun diritto neppure nei trasferimenti di proprietà. Ogni quinquennio le assemblee generali di questo ordine votavano un contributo fiscale detto «donazione gratuita» da versare nelle casse dello Stato con rate annuali: si trattava, in sostanza, del 2% di tutti gli introiti, l'entità effettiva dei quali però era sconosciuta al governo (da notare che la percentuale era stata decisa nel 1561 e da allora, malgrado l'esorbitante rialzo delle altre imposte, era rimasta immutata). Oltre a ciò il clero possedeva propri tribunali, da cui dipendevano non solo tutti gli ecclesiastici, ma anche i laici per cause riguardanti la religione (vedi ad es. la legislazione matrimoniale). Gli attentati alla fede, la bestemmia e il sacrilegio potevano essere puniti con la morte.

In questo contesto va però distinta la situazione del basso clero (curati, vicari e cappellani), che è escluso completamente dalla carriera episcopale e che trae il proprio sostentamento dalla modesta «congrua» (porzione della decima) e dai redditi, più o meno variabili, inerenti all'officiatura delle varie cerimonie religiose (il «casuale»). Il più delle volte i sacerdoti di campagna, reclutati fra la piccola borghesia rurale, vivono in condizioni più precarie rispetto ai loro colleghi di città, reclutati fra la media borghesia (assenti, fra i preti, persone di origine operaia o contadina, in quanto i candidati al sacerdozio dovevano dimostrare, all'atto dell'ordinazione, di avere una rendita patrimoniale). Numerosi sono i preti «clientelari», che vanno in cerca di messe, senza appartenere ad alcuna parrocchia, e non pochi sono quelli che vivono di un modesto beneficio, senza esercitare alcuna vera attività pastorale.

In campagna il clero rappresenta buona parte della cultura: tiene lo stato civile, registrando battesimi, matrimoni e decessi; simpatizza, senza esporsi troppo, per le idee dei filosofi, che vanno peraltro facendosi strada fra categorie sociali tendenti all'agnosticismo: borghesia rurale, funzionari locali, artigiani, vecchi soldati, bettolieri, ecc. Il prete è anche diffusore delle ordinanze reali, ausiliario della giustizia, banditore di vendite immobiliari. I beni della parrocchia sono il presbiterio, la scuola, il cimitero e tutti gli immobili lasciati in eredità da fedeli pii e timorosi. Qualunque forma di manutenzione dell'edificio adibito al culto è a carico dei parrocchiani.

In città (si pensi p.es. a Nancy) i contrasti fra alto e basso clero sono più sentiti: qui infatti le esigenze democratiche ed egualitarie vengono avanzate con più decisione. Nel 1779 i parroci organizzati in una sorta di «sindacato ecclesiastico» già rivendicavano maggiori «salari». H. Reymond, loro rappresentante, nell'opera del 1776 intitolata Droits des curés et des paroisses sous le double rapport spirituel et temporel, aveva proposto di creare a Parigi una Camera consultiva del basso clero, ma l'Assemblea del clero ottenne nel 1782 da Luigi XVI la proibizione per i parroci di «formare tra loro alcuna associazione e di emanare delibere senza aver ottenuto espressa autorizzazione».

Nonostante ciò, detto movimento para-sindacale, col passar del tempo, limitandosi sempre meno alla mera questione della congrua, cominciò a pretendere una riforma generale di tutta l'amministrazione dei beni mobili e immobili della chiesa, onde favorire la situazione delle diocesi e delle parrocchie più povere (cfr. l'opera dei fratelli Delacour, Voeux de la raison pour le paroisses, les curés, les pauvres, à Louis XVI dans l'Assemblée des Notables). Reymond, che si ispirava al richerismo e che diventerà vescovo costituzionale di Grenoble, presumeva di fondare il diritto dei curati sulla storia dei primi secoli della chiesa, sulla tradizione dei concili e sulla dottrina dei Padri.

Grazie anche alla sua attività, si andava lentamente formando una sorta di partito gallicano-giansenista, che mentre rivendicava un maggior potere dei preti rispetto ai vescovi, trovava anche molti di questi disposti a lottare contro i «colleghi» filoromani contrari a una maggiore indipendenza dalla Santa sede.

Stante questa situazione non ci si deve stupire che dalle masse popolari la religione fosse vissuta con molto conformismo e poca convinzione. Non si trattava solo di vocazioni in forte calo, ma anche - come le più recenti indagini hanno messo in luce - di scarsa partecipazione nella pratica dei sacramenti e in particolare durante le festività pasquali, di forte diminuzione delle offerte per le messe a suffragio, di aumento delle nascite illegittime, di bassa tiratura dei libri a carattere religioso, ecc.

Dopo il 1760 inizia anche la contraccezione, qui da segnalare più che altro per l'avversione ch'essa suscita ancora oggi nell'ambito di certo cattolicesimo. E se ciò non bastasse, si potrebbe anche ricordare la solenne processione del Santo sacramento per le vie di Versailles, in occasione della convocazione degli Stati generali: col cero in mano incedevano, dietro gli ordini privilegiati, gli esponenti del Terzo stato, ovvero i Mirabeau e i Robespierre!

Ma l'aspetto pacifico e tranquillo della vita religiosa del Settecento, dopo le aspre battaglie del secolo precedente, non deve essere visto come un indice della scarsa conflittualità esistente nell'ambito della chiesa. Qui bisogna sfatare uno dei miti di certa storiografia cattolica contemporanea, secondo cui «nulla lasciava presagire... che la rivoluzione che incominciava avrebbe costituito per la chiesa di Francia il periodo più drammatico della sua storia» (così si legge nel vol. VIII/1 della monumentale Storia della chiesa curata da H. Jedin, ed. Jaca Book). Col che, in pratica, o si fa una lode alla storia e all'esistenza degli uomini, le cui vicende risultano sempre molto più complesse e imprevedibili di tutte le ipotesi o le teorie che si possono elaborare (ma in questo caso il merito va alle masse popolari); oppure si tende a giustificare l'inerzia e lo status quo delle classi dominanti, le quali naturalmente non potevano né volevano prevedere cose funeste per le loro posizioni privilegiate (ma in quest'altro caso bisognerebbe precisare che da parte delle masse rivoluzionarie forse si immaginarono cose ancora più radicali di quelle che poi effettivamente accaddero, cose che solo per l'immaturità dei tempi, la debolezza teorica e pratica delle stesse masse e dei leader alla loro testa non poterono essere realizzate).

In effetti, se non si considera che «molte cose» già da tempo lasciavano facilmente intuire quel che sarebbe successo, si è poi portati a credere che la rivoluzione non fu il frutto spontaneo di una crisi di enormi proporzioni, l'esito più maturo di ingiustizie accumulatesi nel corso di vari secoli, ma piuttosto una sorta di «golpe» tramato da classi e gruppi sociali desiderosi di prendere il posto degli ordini privilegiati: un colpo di stato le cui motivazioni andrebbero ricercate nei sentimenti di invidia, gelosia e rancore. Questa, appunto, la tesi sostenuta dall'ex-gesuita A. Barruel, allora profugo in esilio, che con le sue Memorie per servire alla storia del giacobinismo fornì ampio materiale alla successiva storiografia cattolica e borghese controrivoluzionaria.

Barruel era convinto che la rivoluzione fosse il risultato di una cospirazione contro il cristianesimo, la monarchia e la proprietà dei ceti privilegiati, tramata e condotta dall'illuminismo ateo, dalla massoneria e dalla setta para-socialista degli Illuminati, diffusasi in Baviera tra il 1776 e l'86. I giacobini non avrebbero fatto altro che sintetizzare queste tre correnti, che, rispettivamente, sul piano morale rappresentavano l'empietà, la ribellione e l'anarchia. Da notare però che il gesuita affermava che i militanti giacobini erano almeno 300.000, mentre i simpatizzanti più o meno attivi, sparsi in tutta la Francia, almeno due milioni!

È evidente, da questo punto di vista, che la rivoluzione poteva essere avvertita come un dramma solo dall'alto clero. Viceversa, dal punto di vista delle masse, anche di quelle tradizionalmente religiose, la rivoluzione non poteva essere considerata che come un evento liberatorio, emancipativo, come una vera e propria catarsi. E il fatto che il basso clero sia stato subito appoggiato dai parlamentari sin dalle prime sedute degli Stati generali, è appunto indicativo di quale diversa sensibilità caratterizzasse i ceti sociali meno favoriti.

È assai banale quindi sostenere che la chiesa di Francia, se avesse voluto, avrebbe potuto riformarsi da sola, senza aspettare l'ondata rivoluzionaria della borghesia, o sostenere addirittura, con Daniel Rops, che la rivoluzione avrebbe potuto essere più «umana» se fosse stata più «cristiana» (in La chiesa delle rivoluzioni, ed. Marietti). Per come era strutturata, non poteva fare alcunché di veramente innovativo. Essa, come la monarchia e soprattutto l'aristocrazia, rifletteva rapporti socio-economici che le impedivano qualunque rinnovamento democratico. Negli stessi cahiers de doléances, prodotti in vista degli Stati generali, appare in modo assai chiaro quanto fosse vasta e profonda la crisi della chiesa francese, e quanto fossero pesanti le accuse contro i privilegi e gli abusi del clero, contro le decime e la decadenza del monachesimo. Al massimo dunque essa avrebbe potuto rendere meno catastrofico il terremoto che la sconvolse, ma in nessun modo avrebbe potuto evitarlo. A certi livelli (si pensi al basso clero intellettuale) poteva anche affrettarne la venuta servendosi della stessa religione, ma non senza l'aiuto, in quel momento, della nuova classe emergente: la borghesia.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sez. Storia - Storia moderna - Monarchie nazionali
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