LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La nascita della democrazia politica borghese


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LA CONTRORIVOLUZIONE TERMIDORIANA
E IL
CONCORDATO DI NAPOLEONE

Napoleone Bonaparte al ponte di Arcole, ritratto da J.-A. Gros (Biblioteca Nazionale di Parigi)
Napoleone Bonaparte al ponte di Arcole, ritratto da J.-A. Gros (Biblioteca Nazionale di Parigi)

Robespierre, forte del suo realismo politico, volle garantita la libertà religiosa nella misura in cui l'associazione dei cittadini a scopo di culto non costituisse il pretesto per dar vita a un'opposizione politica ai decreti della Convenzione. Egli tuttavia era ben lontano dall'immaginare un regime di separazione fra Stato e chiesa. Nella sua concezione di Stato, il governo era totalmente libero di servirsi di strumenti politici per intromettersi nella gestione interna delle varie confessioni religiose (specie la cattolica), modificandone eventualmente anche i dogmi o la prassi. Giustamente però egli riteneva impraticabile l'idea di Hébert e Chaumette di imporre l'ateismo (cioè il culto della Ragione) in modo politico. A suo parere, il popolo, ancora troppo religioso, aveva bisogno di credere in un dio, seppure un dio diverso, più tollerante rispetto a quello del cattolicesimo tradizionale (era il principio: la religione per il popolo, la filosofia per gli intellettuali, che troverà molta fortuna nel secolo successivo, fino all'idealismo di Croce e Gentile).

Peraltro Robespierre era ideologicamente lontano dal materialismo ateo di Helvetius e Holbach. Il suo merito sta nell'aver capito che la religione non può essere eliminata in modo politico o amministrativo; il suo torto nell'aver creduto che si potesse farlo creando semplicemente un'alternativa «spiritualistica» sul terreno ideologico, culturale e rituale, senza tener conto di quali condizionamenti sociali ed economici alimentano un fenomeno come quello della religione.

Istituito con decreto statale il 7 maggio 1794, il culto nazionale dell'Essere Supremo, che voleva dirsi civico ma che era squisitamente «religioso», in quanto ufficializzava il deismo panteista e razionalista di molti philosophes illuministi, attirò a Robespierre le inimicizie dei partigiani della scristianizzazione violenta e dei fautori dello Stato laico, e non gli valse la fiducia dell'alto clero costituzionale, che non amava la «concorrenza», né tanto meno di quello refrattario, ostile a qualunque culto legato alla Repubblica. Il successo tuttavia fu notevole fra il popolo, naturalmente anche in virtù degli obiettivi che la dittatura giacobina era riuscita a conseguire dalla metà del 1793 alla metà del '94. Con il decisivo appoggio dei sanculotti, che «tendevano, seppure in modo confuso, verso l'istituzione della democrazia diretta» (Soboul), essa poté distruggere il feudalesimo come nessun'altra forza politica era riuscita a fare, stroncando la resistenza dei nemici interni ed esterni.

Ma il peggio doveva ancora venire. La borghesia, piegatasi al dominio dei giacobini solo perché questi, nella lotta contro la reazione feudale fruivano di vasti appoggi popolari, cercò con ogni mezzo e modo, quando l'esito della battaglia fu sicuro, di sbarazzarsi dello scomodo alleato e soprattutto delle sue pretese di «dirigere» l'economia. Purtroppo i giacobini, incapaci di venire incontro, una volta conquistato il potere, alle esigenze degli strati più poveri delle città e delle campagne (si pensi p. es. ai contadini che non riuscivano ad acquistare le terre vendute all'incanto), cominciarono a perdere sempre più prestigio e credibilità.

Il club dei cordiglieri, diretto dagli hébertisti, intensificò le accuse contro l'attività del Comitato di salute pubblica. I giacobini, rifiutando qualunque critica e autocritica, risposero facendo giustiziare Hébert e molti suoi seguaci. Grande fu lo scontento nella capitale: gli hébertisti erano sì estremisti (lo si era visto durante la scristianizzazione), ma nessuno poteva negare loro un certo ascendente sulle masse, specie quelle della capitale (la Comune insurrezionale era stata infatti guidata da Marat, Hébert e Chaumette). I giacobini ghigliottinarono anche Danton e i capi della sua fazione che, su posizioni di destra, volevano dividere il partito. Praticamente tutte le forme di opposizione palese al governo rivoluzionario erano finite.

Questo atteggiamento autoritario fece maturare l'esigenza di organizzare una nuova congiura antigovernativa all'inizio del luglio 1794. Robespierre venne accusato dai seguaci di Danton e di Hébert scampati al massacro e da altri deputati della Convenzione, d'essere un dittatore e di alimentare il culto della sua personalità. Il 27 luglio la congiura si trasformò in un colpo di stato controrivoluzionario (chiamato dagli storici «termidoriano» dal nome del mese di luglio mutato in «termidoro», secondo il calendario repubblicano). Il giorno dopo, nonostante l'opposizione della Comune di Parigi, si riuscì a condannare a morte i dirigenti del governo giacobino (fra cui Saint-Just e lo stesso Robespierre), senza alcuna forma di processo. La rivoluzione era praticamente finita.

Eliminato il governo rivoluzionario, i termidoriani, che esprimevano gli interessi della borghesia più ricca, diedero inizio al terrore «bianco», smantellando progressivamente molte leggi e istituzioni favorevoli al popolo. Sul piano religioso la Convenzione, nelle persone soprattutto di Fouché, Fréron e Tallien, riuscì ad ottenere ciò che i governi precedenti non avevano mai osato rischiare: la completa laicizzazione dello Stato, ovvero l'effettiva uguaglianza di tutte le religioni. Infatti, per ragioni economiche si soppresse il bilancio della chiesa giurata: «La Repubblica francese - si disse - non paga più spese né salari di alcun culto» (18 settembre 1794). In tal modo la Costituzione civile del clero perdeva la sua ragion d'essere e veniva affermata la separazione di Stato e chiesa. Il governo vietò anche il culto dell'Essere Supremo, ritenuto «filo-cattolico», e autorizzò solo quello decadario.

Gli storici cattolici rifiutano, in genere, di considerare questo provvedimento come un atto anticipatore della separazione fra Stato e chiesa, in quanto - essi precisano - ogni culto doveva rimanere interdetto per la Convenzione. In realtà, sia il governo giacobino sia quello termidoriano, più che abolire tout-court i culti religiosi della nazione (compito che nessun governo al mondo potrebbe permettersi), miravano a istituirne uno condivisibile da tutti i francesi. In tal senso, se eccessi vi furono, ciò dipese dalla stretta dipendenza della politica governativa dall'ideologia, in materia di atteggiamento verso la religione. Una dipendenza che si faceva più sentire ogni volta che nella società civile emergevano tendenze clericali antirivoluzionarie. Senza queste tendenze non si sarebbe verificata alcuna scristianizzazione, ma semmai la convivenza, problematica ma non impossibile, fra un culto pubblico obbligatorio e uno o più culti privati facoltativi.

«Le misure contro i preti refrattari - ha scritto A. Soboul - rimasero in vigore e le chiese chiuse. Tuttavia, man mano che la reazione andava affermandosi, molti francesi rimpiangevano le antiche cerimonie religiose e i fedeli giunsero a reclamare l'apertura delle chiese. Il culto civico, troppo intellettuale ed ora spogliato di ogni carattere patriottico e democratico, non poteva più infervorare i sanculotti». E così, poche settimane dopo la caduta di Robespierre, in numerosi punti della Francia si ricominciò a celebrare la messa, si riaprirono i vecchi oratori, si videro rientrare, nelle province di frontiera, non pochi preti emigrati. Tuttavia in molte altre province e soprattutto a Parigi si continuava a ghigliottinare, benché le amministrazioni non mettessero più lo zelo di prima nell'applicare i provvedimenti di scristianizzazione. Il recupero della libertà religiosa tardava dunque a farsi strada.

Quando il vescovo costituzionale deputato alla Convenzione, H. B. Grégoire, propose, il 21 dicembre 1794, un decreto che sancisse la piena libertà di culto, in conformità alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo, non riuscì neppure a finire il suo discorso. «Declamare continuamente contro gli ecclesiastici - affermò il prelato -, anziché legarli alla repubblica per mezzo dell'uguaglianza dei diritti, è un errore. [...] Un'opinione cede ai lampi dei lumi, mai alla violenza. [...] Si può esigere dai membri della compagine sociale altro dovere che quello di essere un buon cittadino? [...] Il governo non deve adottare, e ancor meno salariare, alcun culto, sebbene debba riconoscere a ciascun individuo il diritto di professare il suo. Il governo non può rifiutare protezione né accordare privilegi a nessuna confessione religiosa. [...] Deve tenere tutte le confessioni nel loro giusto equilibrio, impedendo che qualunque culto venga turbato e che esso turbi l'ordine pubblico. [...] Che nessuna religione pretenda abusivamente al titolo di dominante».

Dice ancora Grégoire, con grande acume e spirito critico, anticipando una tematica che nella sua interezza verrà ripresa solo dalle rivoluzioni socialiste: «Sarebbe necessario mettere al bando una religione intollerante, che non ammettesse la sovranità nazionale, l'uguaglianza, la libertà, la fratellanza...; ma dal momento in cui appare evidente che nessun culto ferisce questi principi, e dal momento in cui tutti coloro che lo professano, giurano fedeltà ai dogmi politici, che un individuo sia battezzato o circonciso, che adori Allah o Jehova, tutto questo è al di fuori dell'ambito della politica». Il vescovo concluse osservando che i più gravi pericoli per lo Stato non sono i culti religiosi, bensì la superstizione e il fanatismo. (Detto altrimenti: una religione non è contraria al governo rivoluzionario solo perché è una religione. L'atteggiamento controrivoluzionario va dimostrato.) A questo naturalmente i deputati potevano obiettare che i cattolici avevano dato prova, a più riprese, d'essere alquanto ostili al governo repubblicano, ma la proposta del vescovo era appunto quella di bandire l'anticlericalismo ad oltranza, permettendo così ai cattolici un'adesione più spontanea alle leggi dello Stato.

Dette da un «vescovo» queste cose oggi ci appaiono davvero singolari, dette poi da un vescovo «cattolico» addirittura strabilianti. Immaginiamoci - se una tale posizione risultava così fastidiosa alle orecchie di quei deputati - quale grande attaccamento dovesse avere la borghesia per le idee anticlericali, deiste o agnostiche o atee dei philosophes ed enciclopedisti. Se vogliamo, proprio in questa esigenza di anteporre a tutto l'ideologia stava uno dei maggiori limiti della rivoluzione. Ci piace però qui ricordare che alla morte di Grégoire, il 28 maggio 1831, Santo Domingo ed Haiti proclamarono il lutto nazionale, alla memoria dell'«amico degli uomini di ogni colore». Grazie a lui infatti si emanò nel 1794 il decreto sull'abolizione della schiavitù, «senza contropartita né riscatto». Nel 1950 Ho Chi Minh rese omaggio ufficiale a questo «apostolo della libertà dei popoli», che la maggior parte degli storici cattolici continua a considerare con disprezzo come un «giacobino regicida».

Col passare del tempo, per poter tutelare efficacemente gli interessi della grande borghesia, il nuovo governo si vide costretto a scegliere la strada del compromesso. Dalla tribuna della Convenzione, Boissy d'Anglas, nonostante accusi i preti «d'instupidire la specie umana», riconosce che è inutile «pretendere d'estirpare l'errore con la violenza». Di lì a poco infatti si deciderà di concedere ai ribelli della Vandea la libertà di culto, il diritto di scegliere i loro preti anche fra gli emigrati e la facoltà di tenere una «guardia territoriale» locale. Il documento che sancì una certa tolleranza nei confronti delle diverse confessioni fu il trattato di Jaunaye del 17 febbraio 1795, in cui si dichiarava: 1) «ogni individuo e ogni sezione di cittadini possono esercitare liberamente e pacificamente il culto», e 2) «gli individui e i ministri di ogni culto non potranno essere disturbati, inquietati né ricercati a motivo dell'esercizio libero, pacifico e non pubblico del loro culto». Il culto privato - come noto - implicava che lo si tenesse non nelle chiese ufficiali, che erano state trasformate in «templi dello Stato» per il culto decadario, ma in altri luoghi gestiti a proprie spese, e che l'uso degli abiti religiosi, delle campane, ecc. restasse vietato, inoltre che i sacerdoti prestassero il giuramento del 14 luglio 1792 alla libertà e all'uguaglianza.

Paradossalmente, mentre al tempo della dittatura giacobina si negava la libertà di culto per difendere gli ideali rivoluzionari, ora invece i termidoriani concedono, seppur limitatamente, questa libertà, ma solo per difendere degli ideali reazionari. La borghesia infatti non voleva rinunciare alla propria ideologia anticlericale, né voleva perdere il suo potere politico sulla chiesa, ma allo stesso tempo non voleva lasciarsi coinvolgere in una guerra di religione; anzi, se possibile, voleva cercare di riguadagnarsi la fiducia del clero cattolico, da utilizzarsi, eventualmente, contro gli interessi sociali e materiali delle masse. Questa esigenza diventava tanto più forte quanto più cresceva l'opposizione popolare al nuovo regime.

Nella primavera del 1795 i lavoratori di Parigi insorsero due volte contro la politica antidemocratica del governo, ma senza conseguire successi. I termidoriani non solo ebbero la meglio in politica interna, ma anche in quella estera, ottenendo grandi vittorie militari. Furono proprio loro che ereditarono i risultati dell'immenso lavoro del governo giacobino. La Convenzione termidoriana seppe anche impedire la restaurazione del feudalesimo e della monarchia. Promulgò una Costituzione assai conservatrice, ma imperniata sul rafforzamento delle istituzioni repubblicane. Sul piano dei rapporti fra Stato e chiesa faticava alquanto a farsi strada una separazione rigorosa della politica dalla religione. La tesi del vescovo Grégoire secondo cui un cattolico può essere un buon credente di fronte alla chiesa e, nel contempo un buon cittadino di fronte allo Stato, continuava a essere vista con sospetto.

E l'Enciclica di diversi vescovi di Francia agli altri vescovi loro fratelli e alle chiese vacanti del 15 marzo 1795, offriva ai dubbi delle buone motivazioni. È vero che con essa i costituzionali riconoscevano «che il governo della chiesa riguarda lo spirituale e non può estendersi né direttamente né indirettamente [qui il riferimento è alla teoria del Bellarmino] sopra il temporale» e che «le religione non gode più in Francia di uno status politico». Ma è anche vero che i vescovi firmatari (fra cui il Grégoire) volevano riprendere i rapporti con lo Stato pontificio, cioè con una delle espressioni più retrive di tutta l'Europa feudale, pur ribadendo - è bene ricordarlo - il valore dei Quattro articoli gallicani votati dall'assemblea del clero nel 16821.

In effetti, a parole i vescovi giurati ostentavano approvazione per le misure adottate dalla rivoluzione riguardo alla gestione amministrativa della chiesa (elezione del clero, collegialità della diocesi, ecc.), ma nei fatti la loro unica preoccupazione era quella di riportare la chiesa francese nell'alveo ideologico del cattolicesimo tradizionale, soprattutto sul piano etico e disciplinare. Di qui le forti accuse che nell'enciclica si muovono contro quei ministri che avevano condiviso le leggi sul divorzio e sul matrimonio dei preti. Si trattava in sostanza di una lettera ideologicamente refrattaria che voleva apparire politicamente costituzionale. Molti addirittura chiedevano un esplicito ritorno all'obbedienza «romana»: lo attesta ad es. un rapporto indirizzato al papa dal moderato Emery, superiore del seminario di s. Sulpizio (13 ottobre 1795).

Ancor meno rassicurante era l'atteggiamento con cui il clero refrattario aveva accolto il decreto del 30 maggio 1795, che autorizzava l'uso degli edifici religiosi, indifferentemente, ai diversi culti: costituzionale, refrattario e decadario, alla sola condizione di rispettare tutte le leggi della repubblica. Come Grégoire aveva previsto, la maggior parte dei preti refrattari, appoggiati dai vescovi emigrati e dal re «in esilio» Luigi XVIII, rifiutò il nuovo giuramento, giungendo persino a diffondere false lettere di Pio VI per giustificare tale decisione. Cosa che indusse la Convenzione a proibire agli ecclesiastici di leggere nelle chiese lettere provenienti da persone residenti fuori della Francia.

Con la nuova Costituzione, entrata in vigore nel novembre 1795, il potere esecutivo passò nelle mani del Direttorio, permettendo alla borghesia piena libertà economica. «L'orgia borghese del Direttorio» - come la chiamava Marx -, con la sua sfrenata speculazione e l'aggiotaggio, garantì enormi profitti ai ceti più agiati. Le contraddizioni antagonistiche divennero così profonde che questa volta la ribellione delle masse assunse caratteri para-socialisti. Infatti, la Congiura degli Eguali, capeggiata da Babeuf, si pose come obiettivo fondamentale, per la prima volta nella storia della Francia, l'abolizione della proprietà privata. Il pericolo fu talmente grande che il Direttorio cercò sostegni politici a destra e a sinistra.

Inevitabilmente mutò anche il suo rapporto nei confronti dei cattolici: in primo luogo con i refrattari, ai quali volle garantire l'abrogazione della legge sulla deportazione e promettere il ritorno ad un regime di piena libertà religiosa. L'uso strumentale della religione per fini controrivoluzionari era evidente. Lo stesso papato si piegava facilmente a tale necessità: lo testimonia il breve Sollicitudo (8 giugno 1796), con cui si esortano i cattolici francesi a una docile sottomissione al governo. Ma altrettanto evidente era la debolezza del Direttorio, che alla fine del 1796 si vide costretto ad abrogare tutta la legislazione contro i preti refrattari (ad es. la legge del 24 agosto 1797 accordò ai preti giurati e refrattari la piena libertà di esercitare il proprio ministero, abolendo tutti i giuramenti e consentendo anche qualche manifestazione esteriore di culto).

La situazione sarebbe precipitata nel caos più totale, a vantaggio delle forze restauratrici e filo-monarchiche sempre presenti, se il Direttorio non si fosse deciso per un colpo di stato militare nel fruttidoro 1797. Tra i cattolici, i refrattari incitavano alla diserzione i figli dei loro seguaci, a non pagare le tasse, a cacciare i preti costituzionali, a disobbedire al giuramento del 29 settembre 1795 di sottomissione alle leggi della repubblica. Il generale repubblicano Clarke, mandato dal Direttorio in missione in Italia, scrisse in un rapporto del 1796: «siamo arrivati al punto di aver bisogno dello stesso papa per ottenere che da noi la rivoluzione sia assecondata dai preti e dalle campagne che essi sono riusciti a governare di nuovo». La tendenza integralista di destra, che ancora oggi sussiste nei gruppi che fanno capo al vescovo Lefebvre, prese il nome di «Piccole chiese».

In materia di religione, i provvedimenti del nuovo Direttorio furono molto severi: ripristinata la legge sulla deportazione, si pretese da tutto il clero un giuramento di «odio alla monarchia». In pratica non si chiedeva più di «credere» nell'ideologia della classe borghese, ma solo di rifiutare politicamente il vecchio regime borbonico. Singolare è il fatto che ai preti che ostentavano un finto imbarazzo di fronte all'idea di provare sentimenti di «odio» per i parassiti e sfruttatori della Casa reale, persino i vescovi d'ancien régime rimasti in Francia assicuravano che il giuramento aveva il semplice significato di dichiarare la volontà di vivere conformemente alle leggi repubblicane. Viceversa, i vescovi dell'emigrazione si affrettarono a proibirlo con molta risolutezza, offrendo ai refrattari più intransigenti - definiti ormai dal governo col termine di «ribelli» - ulteriori pretesti per svolgere attività eversiva (nell'aprile 1799, ad es., diffusero la falsa notizia che Pio VI aveva dichiarato illecito il giuramento. Oltre a ciò risposavano e ribattezzavano i parrocchiani dei costituzionali, lanciando anatemi contro gli acquirenti dei beni nazionali).

Più diplomatica invece, la Santa sede mirava ad appoggiare i refrattari concilianti, detti «sottomessi», avendo compreso che col regime del Direttorio era più facile dialogare che col governo giacobino. La politica di tolleranza, in effetti, avrà la meglio: la maggioranza degli ecclesiastici prestò il giuramento di sottomissione. Bisognerà tuttavia - osserva Dansette - che «Bonaparte tolga ai ribelli i loro argomenti domando i fanatici dell'irreligione e imponendo la pace religiosa, perché i cattolici moderati trionfino di nuovo e questa volta per lungo tempo».

Nei riguardi della chiesa costituzionale, ormai moribonda (ha già perduto i 3/4 del suo episcopato e la grande maggioranza dei preti), il regime, nel complesso, tenne un atteggiamento poco costruttivo: il culto non era perseguitato, ma restava spogliato di ogni carattere di ufficialità e non disponeva di sovvenzioni statali. L'arcivescovo Grégoire riunì a Parigi un concilio per giungere a un accordo con i refrattari e con Roma (da notare che nel decreto di pacificazione, mal visto dal governo, si rinunciava definitivamente alla Costituzione civile del clero). Ma la controparte esigeva un «pentitismo» senza condizioni: in particolare essa chiedeva il riconoscimento del primato giurisdizionale del papato, su cui invece i costituzionali non transigevano, limitandosi ad accettare quello morale o di onore2.

In tale quadro, ove gli interessi strumentali della borghesia, che vorrebbe servirsi della religione per controllare le masse, si scontravano con le rivendicazioni ecclesiastiche di autonomia politica, facilmente si finiva col creare situazioni incerte e contraddittorie. Indubbiamente l'ostilità verso la religione continuava ad essere molto sentita, specie fra i ceti borghesi e intellettuali delle città. Ciononostante da più parti si voleva un ritorno alla «normalità» e alla pacificazione.

I tradizionali principi del cattolicesimo-gallicano, ora depurati dalle molte scorie del passato regime, sembravano ritrovare, seppur senza particolari entusiasmi, un certo consenso. Sintomatico, in questo senso, che degli 11.000 ordini di arresto e deportazione, emessi verso l'inizio del 1798 contro i preti «realisti» (9.000 in Belgio, 2.000 in Francia), la maggior parte di essi rimase senza effetto, in quanto la coerenza fra i principi professati e le azioni concrete da tempo era venuta meno.

Le autorità locali, ben consapevoli delle ambiguità del governo in materia di tolleranza religiosa, sentivano di non avere valide motivazioni per applicare alla lettera le sue direttive. Nonostante i culti decadario e teofilantropico3 continuassero a fruire di vasti appoggi da parte del Direttorio, di fatto erano i tradizionali culti religiosi ad essere maggiormente seguiti dai cattolici. Di qui la lotta fra costituzionali e governo per l'osservanza della domenica in luogo del decadì, per l'uso delle chiese e l'introduzione dell'insegnamento religioso confessionale nelle scuole statali.

Per queste ed altre ragioni il Direttorio aveva urgenza di giungere ad un accordo con la Santa sede. Approfittando delle vittorie di Napoleone in Italia, esso aveva chiesto a Pio VI di annullare tutti gli atti di condanna della politica ecclesiastica dei governi succedutisi dall'inizio della rivoluzione in poi. Ma il papa non ne volle sapere. L'unico risultato raggiunto fu la pace di Tolentino nel febbraio 1797, in cui si regolarono solo gli aspetti territoriali e finanziari pendenti fra i due Stati. A ciò seguì la deportazione di Pio VI in Francia, dopo l'occupazione francese di Roma, e la morte di quest'ultimo il 29 agosto 1799.

Una vera svolta invece si verificò allorquando la borghesia volle por fine alla politica incerta e altalenante del Direttorio con il colpo di stato del 9 novembre (18 brumaio) 1799, che instaurò la dittatura militare di Napoleone Bonaparte, ovvero il passaggio dalla Repubblica all'Impero. La politica ecclesiastica di questo nuovo regime, prima della vittoria di Marengo (1800), fu caratterizzata da molti tatticismi: si restituirono le chiese alle confessioni che vi esercitavano il culto prima della loro chiusura, si abrogarono i provvedimenti delle autorità locali con cui si decretava la chiusura delle chiese all'infuori dei decadì, si esclusero dalla deportazione i preti giurati e quelli che avevano contratto matrimonio, si decretarono pubblici onori alla salma di Pio VI, s'impose al clero un giuramento di fedeltà alla Costituzione, ovvero un puro e semplice riconoscimento del governo di fatto, senza un impegno di fedeltà per i suoi atti futuri, come invece intendeva la Costituzione del clero (il che però non impedì nuove accese discussioni).

Dopo Marengo, Napoleone cercò a tutti i costi d'intavolare delle trattative con Roma per avere in Francia una chiesa fedele alle sue direttive. Sono note le sue considerazioni opportunistiche circa la religione: «Nessuna società può reggersi in piedi se non è fondata sulla religione, e non c'è buona morale se non c'è religione: soltanto la religione offre allo Stato un appoggio stabile e sicuro». E ancora: «Quando un uomo muore di fame vicino a un altro che si abbuffa, è impossibile fargli ammettere questa differenza se non c'è un'autorità che gli dica: Dio vuole che ci siano dei ricchi e dei poveri, ma poi per l'eternità ci si dividerà in ben altro modo». Concetto, questo, che egli sintetizzò magnificamente allorquando disse che «la società non può esistere senza l'ineguaglianza dei beni né questa senza la religione».

La storiografia cattolica più conservatrice giustifica questo atteggiamento col dire che Napoleone, volendo «salvare» la rivoluzione, capì che l'influenza dei preti era meglio utilizzarla che ostacolarla. Ovverosia la differenza fra Napoleone e Robespierre starebbe nel fatto che il primo - come vuole ad es. Mezzadri - «rispettò le convinzioni del popolo, mentre l'altro gliene voleva imporre di nuove».

In realtà questo modo di vedere le cose è alquanto apologetico ed è soprattutto espressione di chi, desiderando una chiesa forte, capace di dominare la scena politica, considera appunto la politica come un ambito riservato ai cosiddetti «potenti», ove le masse hanno possibilità di accesso solo per qual tanto o per quel poco che, con fare strumentale, viene loro permesso. È evidente, in questo senso, che, non potendo più scegliere il privilegio esclusivo di cui fruiva sotto l'ancien régime, una chiesa del genere non può che preferire il regime di compromesso (cioè di relativo privilegio e asservimento) a quello di separazione.

La storia ha in realtà dimostrato sia che gli ideali della rivoluzione erano stati traditi prima ancora che Napoleone cercasse l'intesa con la chiesa romana, sia che con tale iniziativa si voleva garantire proprio alla controrivoluzione un'esistenza il più possibile tranquilla e duratura. Di questo lo stesso Napoleone era perfettamente consapevole: «Si pretende - egli disse - che io sia un papista, ma non lo sono affatto; in Egitto ero maomettano, qui sarò cattolico per il bene del popolo. Nella religione io non vedo il mistero dell'Incarnazione, ma quello dell'ordine sociale».

Convocato dunque il clero a Milano, Napoleone pronunciò alla sua presenza un discorso in cui condannò l'atteggiamento tenuto verso la religione dai philosophes e dai giacobini e dichiarò di essere pronto a negoziare con Roma. Poco dopo fece cantare un Te Deum di ringraziamento in duomo per la vittoria di Marengo: era la prima volta, dopo la proclamazione della repubblica, che un capo di Stato francese partecipava a una cerimonia del genere. Con ciò naturalmente non si deve pensare che Napoleone fosse un «credente». «È chiaro - egli disse - che le religioni vanno bene per uomini che si trovano ancora in uno stadio infantile. I preti hanno insinuato, sempre e dappertutto, la frode e la menzogna».

Intanto al soglio pontificio era salito il card. Chiaramonti, disponibile verso i regimi democratici (è noto il suo aforisma: «Siate buoni cristiani e sarete buoni democratici»). Le opposizioni all'intesa però non erano poche: da Luigi XVIII, che si era proclamato re in esilio a quella parte dell'entourage di Napoleone ancora legata alla politica ecclesiastica della rivoluzione (si pensi a Talleyrand e Fouché), dalla chiesa costituzionale (con Grégoire in testa), che temeva di perdere la sua indipendenza da Roma, agli ambienti legittimisti (soprattutto la chiesa «ribelle») che speravano in un ritorno della monarchia e temevano che l'accordo avrebbe loro tolto il consenso delle masse cattoliche. Ma, nonostante tutto ciò, il Concordato si fece (1801), seppur dopo otto mesi di difficili trattative. La chiesa, che non voleva assolutamente cedere sul riconoscimento della libertà di culto per le altre confessioni e sulla necessità, imposta dal governo francese, di dimettere i vescovi emigrati, fu messa con le spalle al muro dalla minaccia di Napoleone di creare una chiesa scismatica e di farsi «protestante».

I punti salienti, in breve, possono essere considerati i seguenti:

Con questo Concordato si torna praticamente alla situazione pre-rivoluzionaria, cioè al Concordato del 1516, con la differenza che ora la chiesa cattolica ha un potere economico e quindi politico notevolmente ridimensionati. Tuttavia, nei confronti della chiesa gallicana e di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, volevano una religione più «civile» o più conforme all'ideale evangelico, la vittoria della Santa sede era stata grande, sul terreno sia politico che ideologico, benché si sia trattata di una vittoria ottenuta grazie all'appoggio di una nuova classe sociale ad essa tendenzialmente ostile: la borghesia.

In seguito, taluni punti non previsti dal Concordato vennero inclusi unilateralmente l'8 aprile 1802, nello strumento approvato dal governo francese (i cosiddetti «Articoli organici»), come ad es. l'insegnamento dei Quattro articoli gallicani, la pretesa d'imporre in Francia un solo catechismo e una sola liturgia, ecc. Il che, in sostanza, stava ad indicare che Napoleone rifiutava al cattolicesimo-romano il rango di religione di stato. In ogni caso il papato era riuscito a ripristinare in Francia la sua autorità giurisdizionale, facendo chiaramente capire che le idee di democrazia e uguaglianza non avrebbero potuto portare, sic et simpliciter, alla distruzione della compagine gerarchica e burocratizzata che da secoli e secoli la chiesa s'era data.

Napoleone

Il grande merito di Napoleone fu quello d'aver messo paura alle monarchie feudali dell'intera Europa e alle classi aristocratiche e clericali. Il grande torto fu quello d'aver accettato di farlo usando prevalentemente le armi, e secondariamente quelle del diritto (borghese).

Sono le armi della democrazia che devono convincere, altrimenti i popoli sottomessi, pur essendo sottoposti a regimi superati, continueranno ad avere il sospetto che si voglia passare da una dittatura all'altra e che siano sole le forme a cambiare.

Napoleone promosse anche il libero mercato e la vendita all'asta dei beni ecclesiastici, dopo aver soppresso molti ordini religiosi, al fine di crearsi un consenso sociale di tipo «borghese».

Tutto ciò avvenne anzitutto in nome della mera forza non del diritto. Napoleone, e in questo fu l'erede della rivoluzione francese, era talmente convinto di avere il diritto dalla sua parte che gli pareva del tutto naturale l'uso della forza per farlo valere. In tal modo l'ancien régime passò per vittima e Napoleone per carnefice.

Da notare che di tutti i sovrani europei coalizzati contro di lui, quello inglese, che determinerà la fine dell'avventura napoleonica dopo la disfatta in Russia, fu il meno interessato a diffondere le idee borghesi della rivoluzione, sia perché in Inghilterra la borghesia aveva trovato un alleato proprio nell'aristocrazia, realizzando così una rivoluzione molto meno cruenta e molto meno radicale di quella francese; sia perché l'Inghilterra era già padrona dei mari e non voleva assolutamente rischiare di perdere nemmeno una piccola parte di tutte le sue ricchezze, nel caso in cui avesse dovuto competere con le borghesie di altri paesi europei.

Quella napoleonica, in fondo, fu una mera avventura militare, con tratti che ricordano l'eroismo dei crociati medievali. Se anche avesse conquistato l'intera Europa con la forza delle armi, non l'avrebbe certo conservata con le armi del diritto. Questo perché la borghesia è una classe sociale che vuole imporsi sull'intera società come «classe»: gli eroismi dei dittatori hanno senso solo se alla fine del processo di supremazia l'individuo si sente parte di una classe.

La borghesia infatti riuscirà a imporsi solo quando il diritto, da essa professato, risulterà coerente, almeno in Europa, con la propria pratica politica ed economica. La borghesia doveva saper convincere con la forza della sua operosità, sostenuta dalla battaglia legale costituzionale e per il diritto civile e per quello penale, pubblico e privato, dimostrando che l’unica alternativa praticabile al regime di privilegio tipico della società feudale era il capitalismo.

Grande sarà il suo sforzo di deviare verso le colonie tutto il peso delle proprie incoerenze tra diritto affermato in sede teorica (cui Napoleone diede senza dubbio un apporto significativo) e ingiustizia praticata di fatto.


1) La dottrina dei Quattro articoli affermava l'indipendenza politico-istituzionale del potere civile da quello ecclesiastico, la superiorità del concilio generale sul papa e la validità delle sentenze pontificie ex-consensu ecclesiae. Essa cesserà d'essere oggetto d'insegnamento e di controversia solo dopo il Concilio Vaticano I.

2) Avendo il movimento di ritrattazione fatto il vuoto nelle file del clero (gli elementi «presbiteriani» obbedivano sempre meno ai vescovi), la chiesa costituzionale si vide costretta a prendere contatti con tutti i movimenti giansenisti stranieri: in Italia, p.es., con l'ex-vescovo Scipione de' Ricci e i superstiti del sinodo di Pistoia, nonché con Eustachio Degola, condannato da Roma.

3) La teofilantropia fu l'ultimo tentativo di sostituire il cristianesimo. Questo nuovo culto intellettuale, ispirato a Rousseau, affermava l'esistenza di dio, l'immortalità dell'anima, la solidarietà sociale e la tolleranza religiosa; inoltre stabiliva, fra le altre cose, il matrimonio obbligatorio dei preti e la piena laicità delle scuole.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sez. Storia - Storia moderna - Monarchie nazionali
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