MARX: IL CAPITALE - Il plusvalore 3

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


IL PLUSVALORE

I - II - III - IV

Capitale costante e variabile

Ora, se tutto ciò è vero, lo è anche in senso contrario, e cioè in riferimento al fatto che nel capitalismo la legge del valore è continuamente contraddetta dalla “legge dei prezzi”, che è quella cui i capitalisti sono più interessati. In tutta la III sezione Marx non ha mai preso in considerazione l'ipotesi del prezzo di una merce che per la sua scarsità o novità sul mercato, sale alle stelle, permettendo al capitale costante di realizzare un valore di scambio della merce di molto superiore al suo valore d'uso, e quindi di acquistare, indirettamente, un valore addizionale particolare, relativo alla favorevole congiuntura o circostanza. Nella nota a p. 266 Marx afferma di aver supposto “che i prezzi siano uguali ai valori. Nel terzo libro -egli aggiunge- vedremo come tale uguaglianza non si verifica in maniera così semplice neanche per i prezzi medi”.

La differenza tra valore e prezzo obbligherà Marx a rivedere la sua teoria sul plusvalore e a ricomprenderla in quella più generale di profitto, all'interno della quale si opera una rivalutazione del ruolo del capitale costante. In questa sezione Marx rifiuta a priori l'idea di considerare il plusvalore come una necessità per ammortizzare i costi iniziali dovuti all'acquisto non solo di forza-lavoro, ma anche, e soprattutto, di materie prime, macchinari ecc. Di plusvalore “netto”, in effetti, si può parlare solo dopo aver “coperto” le spese iniziali.

Naturalmente il capitalista sosterrà sempre che i costi non possono mai essere ammortizzati definitivamente, in quanto il macchinario, essendo soggetto a logorio, necessita di essere periodicamente sostituito o ristrutturato, senza parlare delle necessità di riconversione industriale cui ogni capitalista si sente obbligato a causa della concorrenza altrui.

Marx tuttavia non ha cercato, in questa sezione, di uscire da questo vicolo cieco portando il ragionamento sulle modalità con cui l'imprenditore ha potuto accumulare così ingenti capitale da poterli investire in una grande impresa capitalistica. Egli non è interessato a questo discorso per due ragioni: 1) l'accumulazione originaria non deve mettere in discussione la giustezza della transizione dal feudalesimo al capitalismo; 2) il limite di fondo del capitalismo consiste semplicemente nella gestione antisociale del plusvalore.

Di fatto però la formazione di plusvalore non dipende solo dal capitale variabile ma anche da quello costante, poiché, se è vero che lo sfruttamento sta nel plusvalore, è anche vero che il plusvalore capitalistico è di tipo particolare, in quanto può essere accumulato all'infinito. E questa particolarità non è offerta al capitalista unicamente dal valore della forza-lavoro, ma anche dal macchinismo, nel senso che se il capitale costante non altera la propria grandezza di valore, rende però possibile un plusvalore inedito, senza precedenti storici. E' proprio il capitalismo che costringe il tradizionale capitale costante a trasformarsi in una diversa grandezza di valore, che comporta un mutamento qualitativo di tutta l'attività produttiva.

L'originaria grandezza di valore del capitale costante, nell'ambito del capitalismo, non sta più nel “tempo di lavoro necessario” alla sua produzione, poiché nel capitalismo il concetto di “tempo necessario” non ha più il riferimento oggettivo della socializzazione produttiva. L'unico riferimento (fatto passare per “oggettivo”) è quello del mercato, ove dominano gli interessi dei proprietari privati, i quali vogliono realizzare un profitto il più possibile sproporzionato rispetto agli iniziali costi di produzione sostenuti.

Ciò significa che nel costruire il capitale costante il tempo è “necessario” solo nel modo in cui l'intende la classe capitalistica nel suo complesso. La macchina, in tal senso, non ha solo un tempo limitato dal suo progressivo logorio, ma ha pure un tempo “nascosto”, che scorre assai più velocemente e che quindi è più corto di quello “ufficiale”: è il tempo che le impone una macchina concorrente. Quindi è un tempo “psicologico”. L'introduzione del macchinismo ha rivoluzionato la dimensione del tempo, che, nel capitalismo, ha assunto tratti patologici, dovuti appunto allo stress della competizione.

Il capitalista della macchina “A” sa, in anticipo, cioè prima ancora di farla funzionare, di avere meno tempo a disposizione di quello che gli concederà la sua stessa macchina, poiché sa che da un'altra parte esiste un capitalista che, con la sua macchina “B”, farà di tutto per rovinarlo o, in attesa di averla, per carpirgli i suoi segreti industriali. Ecco perché il capitalista della macchina “A” non aspetterà ch'essa si logori, prima di ristrutturla, ma farà in modo di farla lavorare al massimo, nel periodo iniziale (senza preoccuparsi della sovrapproduzione), mentre nei periodi successivi cercherà, appena saprà di poterne trarre un certo utile, di sostituirla o di modificarla prima ch'essa ne abbia “fisicamente” bisogno.

Il bisogno di ristrutturare il capitale costante non dipende tanto dal logorio di quest'ultimo, quanto piuttosto dalla necessità che il capitalista ha d'incrementare continuamente il plusvalore. Ad un certo punto, infatti, la necessità di accumulare plusvalore non dipende più dall'esigenza d'imporsi sul modo di produzione precedente, sui consumi tradizionali della gente ecc.: orami questi obiettivi sono stati sufficientemente acquisiti, e il regime monopolistico-statale garantisce una relativa sicurezza. L'esigenza invece è quella di difendersi da altri monopoli che, ostili al protezionismo e favorevoli al libero mercato, minacciano di rovinarlo.

Ecco, in tal senso, si può affermare che nel momento in cui il capitalista introduce una nuova macchina, il valore di quest'ultima è maggiore rispetto a quello che si ottiene dalla divisione del tempo necessario al suo logorio, così come è diverso il prezzo dal valore della merce. Un'innovazione tecnologica permette all'inizio un plusvalore maggiore di quello che si ottiene con la stessa macchina, in buone condizioni, quando la concorrenza si è dotata di una macchina equivalente. Di qui la crescente importanza, soprattutto nell'ambito intellettualizzato dell'automazione, dello spionaggio industriale. Questo significa che il capitale costante non può né essere separato da quello variabile né posto = 0.

D'altra parte ha un che di singolare il fatto che da un lato Marx consideri il capitale costante = 0, quando tale condizione si verifica solo nelle società agrarie basate sull'autoconsumo; e dall'altro pretenda di valutare l'entità del plusvalore, quando tale grandezza presuppone il superamento di quel tipo di società. Marx ha bisogno di credere nel concetto di “tempo di lavoro socialmente necessario” per determinare l'entità esatta (matematica) del capitale costante e soprattutto del plusvalore, e non s'accorge che proprio quel tipo di capitale e di plusvalore, nell'ambito del capitalismo, vanificano l'applicazione del suddetto concetto.

Inoltre, non avendo analizzato in questa sede l'importanza del capitale costante nella formazione del plusvalore, Marx offre l'immagine di un operaio che sembra avere in sé una forza “magica” con cui creare continuamente valore aggiunto.

In realtà è solo nel capitalismo che il valore aggiunto appare nello stesso processo lavorativo; in tutte le altre formazioni esso o non appariva, oppure appariva in un'altra fase del processo lavorativo: quella “forzata” della coercizione extra-economica.

Il lavoratore ha il compito di “riprodurre il valore”, o meglio, quello di “trasformarlo riproducendolo”, non ha il compito di “aumentarlo”, né, tanto meno, quello di “crearlo”. Il valore non può essere creato ex-novo, né può essere aumentato più di quanto non possa essere riprodotto, come d'altra parte è impossibile riprodurre un essere umano che abbia caratteristiche sovrumane.

Se nel capitalismo si può costatare un aumento del valore, ciò avviene a scapito della possibilità stessa di riprodurlo usando la medesima energia: questa infatti, nel capitalismo, dev'essere sempre più “potente” perché si possa riprodurre il valore.

Per non parlare delle ricadute negative di questo processo sulla sfera etica. Col macchinismo ci si è illusi che all'aumento del valore economico potesse corrispondere l'aumento del valore etico (intendendo col termine “etica” tutta la sfera sovrastrutturale). Invece il valore dell'etica ha subìto un deprezzamento inversamente proporzionale al valore dell'economia.

L'esigenza del plusvalore -come metodo sistematico di creare valore- può nascere solo in una società antagonistica, dove gli interessi di pochi singoli sono in contrasto con quelli della grande maggioranza. Il singolo, nei confronti della collettività, non potrebbe sussistere limitandosi a riprodurre il valore: egli ha necessariamente bisogno di un'eccedenza che lo tuteli, per ottenere la quale è disposto ad ogni cosa.

La particolarità del plusvalore capitalistico, in tal senso, è offerta, proprio dal fatto ch'essa è sorta dopo la formazione sociale feudale. Il capitalista non poteva tornare allo schiavismo tout-court: là dove l'ha fatto (in Africa e in Americalatina), o le culture locali erano troppo deboli per poterlo impedire, oppure non esisteva ancora quella cristiana, la quale, nella veste cattolico-protestante, tollera sul piano pratico e condanna su quello teorico.

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Il presupposto di Marx secondo cui “la forza lavorativa è acquistata e venduta al suo valore”(p.279), nel senso che il suo valore “è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla”(ib.), è un presupposto che avrebbe senso, al limite, in una società dove il valore avesse un senso: non può certo averne in una società dove ciò che ha veramente valore è solo il prezzo di una merce.

Nella società capitalistica tutte le merci sono “equivalenti”, cioè senza valore specifico: ciò che le differenzia, in ultima istanza, è solo il prezzo, poiché in virtù di questo ogni merce può essere acquistata. Non esiste alcuna merce che “non abbia prezzo”, il cui valore cioè sia “senza prezzo”, assolutamente incommensurabile. Nel capitalismo ciò che ha un valore personale (affettivo, sentimentale ecc.), in realtà non ha un vero valore, poiché non viene riconosciuto socialmente. Ciò che ha vero valore è soltanto ciò che sul mercato ha un prezzo, e, paradossalmente, è proprio questo modo di “valutare” che toglie alle cose il loro valore specifico, quello che può essere determinato non dal mercato ma dal contesto sociale che usa quelle cose secondo un preciso significato.

Quindi il presupposto che nel capitalismo la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, non si verifica mai, meno che mai spontaneamente. E' solo attraverso la lotta di classe che la forza-lavoro può sperare di essere acquistata al proprio valore, per quanto una lotta di classe che si limitasse a tale rivendicazione, non uscirebbe -direbbe Lenin- dai limiti del “tradunionismo”.

Infatti, il vero valore della forza-lavoro non può essere deciso nella contrattazione, poiché la riduzione dell'uomo a “lavoratore” risente già dei limiti della cultura borghese. E' il capitalismo che costringe l'uomo a far valere il prezzo della propria forza-lavoro, al fine di non essere sfruttato economicamente. Ma ognuno si rende conto da sé che, superati i limiti del capitalismo, non avrà più senso misurare il “valore della forza-lavoro” in termini matematici, poiché questo valore non è misurabile, come non può esserlo quello del coraggio, dell'onore, dei principi ecc.

Il valore dell'essere umano non può essere quantificato, se non facendo astrazione dall'individuo specifico: il che è un controsenso. Il valore dell'uomo può solo essere costatato, osservando con quali capacità ed energie l'essere umano in senso lato (uomo o donna che sia, “produttivo” o “improduttivo”, maggiorenne o minorenne ecc.) riesce a realizzare una società democratica, fondata sulla libertà e sulla giustizia.

Una società la cui forza-lavoro ha un altissimo valore, non ci dice nulla sul “valore” dei suoi cittadini. Nella futura società socialista nessun indice economico potrà di per sé indicare il potenziale “etico” di una popolazione. Nessuno è in grado d'individuare quale tipo di libertà vive una nazione, limitandosi ad esaminare i suoi indici produttivi, di consumo ecc.

Peraltro, se si parte dal presupposto che la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, si finisce col considerare il plusvalore come una conseguenza accessoria della contrattazione, che con una buona rivendicazione salariale potrebbe essere risolta. Questo anche se esplicitamente si sostiene che fine del capitalismo è accumulare plusvalore.

In realtà, occorre evitare l'illusione di credere che, eliminato il problema del plusvalore, il capitalismo sia, nel complesso, un sistema accettabile. E soprattutto non si deve alimentare questa illusione facendo credere che sul mercato la forza-lavoro possa essere acquistata al suo giusto prezzo. Il capitalista non parte mai da questo presupposto. Sin dall'inizio, il tempo che occorre alla forza-lavoro per riprodursi appare al capitalista sufficiente anche quando non lo è affatto.

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Nel cap. VIII, dedicato alla giornata lavorativa, Marx prende in esame la possibilità da parte del capitalista di estorcere all'operaio un plusvalore assoluto.

Come già visto, Marx è partito dal presupposto che la forza-lavoro viene acquistata e venduta al suo valore. Ciò significa che una parte della giornata lavorativa è caratterizzata dal tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro.

Il plusvalore si realizza nell'altra parte della giornata, quella in cui la forza-lavoro crea un valore superiore al proprio e di cui non può beneficiare. Marx fa l'esempio che se a un operaio occorrono 6 ore per riprodurre il proprio valore, le altre 6 ore costituiscono plusvalore al 100%. Per ottenere un plusvalore superiore a questa percentuale, al capitalista basta prolungare la giornata di lavoro.

Il cap. VIII ha appunto lo scopo di dimostrare che la formazione del plusvalore assoluto può avvenire solo entro un limite massimo di tollerabilità, fisica e morale, relativo all'esigenza di riproduzione della forza-lavoro, altrimenti il capitalismo finisce coll'autodistruggersi, sebbene di questo non si preoccupino affatto i singoli capitalisti, che al massimo sono interessati alla possibilità di sostituire la forza-lavoro logorata con altra in esubero.

Se l'operaio si oppone al prolungamento della giornata di lavoro, il capitalista potrà giocare un'altra carta per estorcere plusvalore superiore al 100%: quella dell'intensificazione del lavoro, con la quale cercherà di costringere l'operaio a riprodurre il proprio valore non in 6 ore, ma ad es. in 4 o in 2. Questo plusvalore è detto relativo, ma col termine di “intensificazione del lavoro” Marx non intende qui che la riduzione del tempo di lavoro necessario e non anche l'uso della rivoluzione tecnico-scientifica applicata alla produzione (vedi ad es. la catena di montaggio). Di questo egli parlerà nel cap. X.

“Il capitale -dice Marx- non ha inventato il pluslavoro. In ogni luogo in cui una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al proprio mantenimento un tempo di lavoro eccedente per la produzione dei mezzi di sussistenza del possessore dei mezzi di produzione”(p.285). Infatti, l'assurdità dei sistemi antagonistici è che proprio chi detiene il monopolio dei mezzi produttivi è il più “improduttivo” e deve farsi mantenere dal lavoro forzato di chi è nullatenente.

“Ma è evidente -prosegue Marx, e questo è veramente importante- che se in una formazione sociale prevale il valore d'uso del prodotto più che il suo valore di scambio, il pluslavoro è allora limitato ad una quantità più o meno grande di bisogni, ma dal carattere stesso della produzione non sorge alcun insaziabile bisogno di pluslavoro”(ib.), cioè lo sfruttamento trova un limite nella capacità di consumo dello stesso sfruttatore.

E' appunto questo che, in ultima istanza, fa la differenza tra una formazione sociale antagonistica pre-capitalistica e una capitalistica. Che nella prima prevalga il valore d'uso non significa, ovviamente, che non sia conosciuto e apprezzato il valore di scambio, ma è solo nel capitalismo che questo valore ha una priorità assoluta. Prima del capitalismo il denaro veniva accumulato per acquisire potere politico, economico ecc. Col capitalismo il denaro viene accumulato per se stesso, cioè anche dopo che si è ottenuto il potere politico, economico ecc. Il denaro diventa “padrone” di colui che lo possiede. Non sono tanto i beni acquistati col denaro che vengono accumulati, ma è il denaro stesso che viene accumulato. Il suo potere di astrazione raggiunge, nel capitalismo, la vetta suprema.

“Perciò -dice ancora Marx- nell'antichità il lavoro eccessivo appare in maniera incredibile dove si deve ottenere il valore di scambio nella sua indipendente forma di moneta, ossia nella produzione di oro e di argento. In questo caso, la forma ufficiale del lavoro eccessivo è lavorare sotto costrizione fino a che si muoia”(ib.). Nelle formazioni schiavistiche i metalli pregiati servivano per acquistare, ovvero per soddisfare bisogni di varia natura (materiali, di prestigio, di vanità ecc.); nel capitalismo invece servono per investire in attività produttive (o anche solo finanziarie) con le quali si possono accumulare capitali.

Marx ha colto bene le differenze fenomeniche, ma non ha compreso la causa culturale che le ha generate. Il passaggio da una formazione antagonistica pre-capitalistica a una capitalistica, è dipeso -a suo giudizio- dalla spinta “verso un mercato internazionale”(ib.), cioè dalla costatazione che la vendita dei prodotti all'estero poteva comportare maggiori profitti. Per Marx il capitalismo è nato a causa di un allargamento della sfera commerciale, la quale, a sua volta, presuppone una forte divisione del lavoro ecc. Non ci sono altre spiegazioni genetiche.

Se Marx si fosse preoccupato di analizzare in modo culturale l'origine delle diverse forme dei sistemi antagonistici, non avrebbe considerato la transizione al capitalismo come un evento necessario, ineluttabile. Inoltre avrebbe evitato di mettere sullo stesso piano “l'orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba ecc.” con “l'orrore civilizzato dell'eccesso di lavoro”(p.286). La differenza infatti non sta semplicemente nel diverso tipo di sfruttamento, ma anche e soprattutto nel diverso tipo di civiltà.

Marx non trae alcuna positiva conseguenza dal fatto che “nella forma della corvée il pluslavoro è separato completamente dal lavoro necessario”(p.287). In altre parole, a un lavoro chiaramente “forzato” in una metà della giornata e “libero” nell'altra metà, egli preferisce un lavoro “forzato” per tutta la giornata, poiché ciò, a conti fatti, toglie ogni illusione al lavoratore e lo costringe a reagire.

Tuttavia, la figura dell'operaio risulta alquanto controversa nell'analisi del Capitale. Da un lato l'operaio sa sin dall'inizio che il capitalista compra la sua forza-lavoro per sfruttarla al massimo (poiché la forza-lavoro è una merce che crea un valore più grande di quanto essa stessa costi); dall'altro però l'operaio si ribella non tanto alla contrattazione sul mercato e neppure al primato dell'industria sull'agricoltura e l'artigianato, quanto piuttosto al fatto che la distribuzione del plusvalore è ingiusta perché privata, cioè si ribella solo quando s'accorge che il capitalista, per ottenere sempre più plusvalore, fa di tutto per prolungare la giornata lavorativa. “La voce dell'operaio, che s'era zittita nel turbine incalzante del processo di produzione, d'un tratto sorge” -dice Marx (p.282).

Il pregiudizio di Marx nei confronti del mondo contadino-feudale è ben visibile laddove egli parla della servitù della gleba e delle corvées nei principati danubiani. Il pregiudizio non era dovuto solo a una scarsa cognizione scientifica della formazione feudale (l'unico testo citato è quello di E. Regnault sulla Storia politica e sociale dei principati danubiani), ma anche e soprattutto alla convinzione che il mondo contadino, ostile di per sé alla transizione verso il capitalismo, non avrebbe mai potuto collaborare con gli operai per realizzare il socialismo, la cui transizione -secondo Marx ed Engels- presupponeva necessariamente lo sviluppo del capitalismo.

In una nota alla terza edizione, Engels ha evidenziato il proprio pregiudizio riconoscendo che il contadino tedesco, nel sec. XV, era sì obbligato alle corvées, ma per il resto era libero, de facto e, in certi territori, anche de jure. Engels mise questa nota per mostrare che la libertà goduta dai contadini danubiani non era molto diversa da quella dei contadini tedeschi. E tuttavia egli esprime questo giudizio sostenendo che i contadini tedeschi persero la loro libertà a causa della guerra contro i nobili, per cui essi non avrebbero potuto in alcun modo costituire un'alternativa al capitalismo.

Engels qui ha dimenticato di aggiungere che la sconfitta dei contadini, intenzionati a realizzare un comunismo agricolo, fu determinata, in primo luogo, non tanto dalla resistenza dei nobili, quanto piuttosto dall'appoggio che questi ottennero da parte della borghesia. In Germania la borghesia non riuscì a trovare nei contadini un potente alleato contro la nobiltà, perché sapeva che le loro rivendicazioni erano, sin dall'inizio, anche anti-borghesi.

Inoltre Engels non voleva ammettere la possibilità che, ai suoi tempi, in Russia il movimento anticapitalistico potesse trovare nel mondo rurale la sua base sociale prioritaria. Il pregiudizio stava appunto nel fatto che per Engels se i contadini tedeschi, che pur erano liberi, non riuscirono ad opporsi né alla nobiltà né alla borghesia, per quale ragione i contadini russi -per lui meno liberi di quelli tedeschi- avrebbero potuto costituire un'eccezione alla regola?

Per Marx il modo di produzione feudale delle province rumene era “primitivo”, ma non come quello della “forma slava o addirittura indiana”, che conoscevano solo la “proprietà comune”(p. 288) e che, per questo, impedivano all'uomo di formarsi come individuo libero. Tale giudizio era condiviso anche da Engels.

Per Marx non esiste libertà senza proprietà privata. Nelle province rumene “una parte delle terre era coltivata in forma indipendente dai membri della comunità, quale libera proprietà privata...”(ib.). Era questa proprietà che rendeva “liberi” e non quella “lavorata in comune” per avere un “fondo di riserva”, in caso di cattivi raccolti, o una sorta di “tesoro pubblico” col quale sostenere “le spese della guerra, della religione e di altri bisogni della comunità”(ib.).

La crisi di queste comunità sorse -secondo Marx- solo nel momento in cui “dignitari militari ed ecclesiastici usurparono la proprietà comune e allo stesso tempo i servizi che le erano connessi”(ib.). Per Marx la differenziazione della libera proprietà privata dalla proprietà comune non era un indice di regresso della comunità bensì di progresso.

Il pregiudizio di Marx nei confronti dei popoli slavi s'accentua proprio laddove egli afferma che fino a quando la “Russia liberatrice del mondo” (detto con ironia) non arrivò nei Balcani, la servitù della gleba era solo di fatto e non di diritto. Fu appunto “col pretesto di abolire la servitù della gleba [che essa] la sollevò a legge”(ib.).

In realtà, rispetto al feudalesimo turco e persiano, quello russo era sicuramente meno devastante, più sviluppato sul piano economico-culturale: non a caso fu accolto, almeno in un primo momento, dai contadini asserviti, come un evento liberatorio. E comunque la Russia intervenne solo in seguito alle sollevazioni dei contadini danubiani.

Quanto alle riforme del conte P.D. Kisilev, proprio con esse si voleva impedire uno sfruttamento dei contadini assolutamente arbitrario, come appunto avveniva nell'impero turco e persiano. Non solo, ma al conte Kisilev, ch'era ministro del demanio statale, si devono far risalire i tentativi, non riusciti, di mediare le esigenze della nobiltà feudale con quelle dell'emergente ceto dei contadini ricchi, che riceveva dall'erario crediti e aiuti agrotecnici.

Dovendo scegliere fra il Regolamento organico del conte Kisilev e i Factory Acts inglesi, Marx non ha dubbi: “queste leggi frenano l'impulso del capitale a sfruttare oltre misura le forze lavorative, tramite la limitazione della giornata lavorativa imposta in nome dello Stato...”(p. 290), limitazione -precisa Marx- “imposta dalla necessità”, quella di permettere alla forza-lavoro di riprodursi.

Ovviamente sarebbe assurdo sostenere che un qualunque “codice feudale” possa essere considerato più “democratico” di una qualunque legislazione statale sulla regolamentazione dell'orario di lavoro nelle fabbriche capitalistiche; e tuttavia non è meno insensato sostenere che mentre attraverso il Regolamento organico si faceva di tutto per “sfruttare” il contadino, attraverso i Factory Acts invece si cercava d'impedire lo sfruttamento selvaggio degli operai inglesi.

E' davvero singolare che uno storico come Marx non abbia compreso come nel primo caso l'osservatore deve dare per scontata la “libertà” dei contadini, mentre nel secondo caso deve dare per scontata la “schiavitù” degli operai. I nobili infatti non avrebbero cercato di fare l'impossibile pur di sfruttare i contadini se questi non avessero goduto di una relativa libertà. Viceversa, nei confronti degli operai tutto il possibile i capitalisti già l'avevano fatto, per cui agli operai non restava che lottare per avere un minimo di libertà.

Di fatto, il tipo di sfruttamento cui veniva sottoposto il contadino non ha mai conosciuto analoghe forme alienanti, oppressive e distruttive come quelle in cui si caratterizzò lo sfruttamento dell'operaio inglese (poi europeo, americano ecc.) agli albori del capitalismo. Si pensi solo all'impiego massiccio in fabbrica dei bambini, alle tante malattie professionali, alla fame causata dalla disoccupazione, alla breve durata della vita media, ma anche alla stessa intensità della giornata lavorativa, che praticamente conosceva solo le pause previste per il mangiare e il dormire. Le condizioni degli operai inglesi, “liberi cittadini” della loro nazione, non erano molto diverse da quelle degli antichi schiavi del mondo romano o delle civiltà pre-colombiane al tempo di Cortès e Pizarro.

Marx, peraltro, parlando dei Factory Acts, li presenta come se fossero nati da un'idea spontanea del governo inglese e non come il frutto della rivendicazione del movimento operaio. La “voce dell'operaio” -sorta a p.282, per far notare al capitalista, non senza un certo fair-play, che la forza-lavoro è una merce che, creando valore aggiunto, va comprata a un prezzo equo e usata in un tempo di lavoro ragionevole - s'è di nuovo spenta nel corso dell'analisi delle inumane condizioni di lavoro delle fabbriche inglesi.

Praticamente, secondo Marx, è stato “nell'interesse stesso del capitale adottare una giornata lavorativa normale”(p. 328), poiché esso s'è accorto che “il prolungamento della giornata di lavoro non produce solo il deperimento della forza lavorativa dell'uomo, derubato delle sue normali condizioni fisiche e morali, di sviluppo e di realizzazione. Essa produce anche l'esaurimento e il precoce spegnersi della forza lavorativa stessa”(p. 327). Il che, per un capitalista -dice Marx-, dovrebbe essere un controsenso. E' vero che “al capitale non interessa nulla quanto duri la vita della forza lavorativa”(ib.), ma è anche vero che se questa vita dura troppo poco “si rende necessario un più celere rimpiazzamento degli operai esauriti, perciò si rendono necessari maggiori spese per l'esaurimento della forza lavorativa che si deve riprodurre”(p. 328).

In che cosa consistano queste “maggiori spese” Marx non lo dice chiaramente. Esse non stanno, in effetti, nel salario, poiché fino a quando esiste una sovrappopolazione di ex-contadini ed ex-artigiani, i salari saranno tenuti sempre bassi. Esse neppure si riferiscono alla professionalità acquisita dall'operaio nel corso dell'attività lavorativa, poiché Marx aveva già escluso in precedenza la possibilità che esistano all'interno della fabbrica operai più importanti di altri, il cui plusvalore sia decisamente superiore. Le “maggiori spese” non consistono neppure nel fatto che se la forza-lavoro muore troppo velocemente, al capitalista restano invendute le merci con le quali essa dovrebbe riprodursi: infatti le merci del capitale inglese venivano allora vendute prevalentemente all'estero. Come avrebbero potuto acquistarle coloro che avevano salari da fame?

Secondo Marx le suddette spese si riferiscono semplicemente al fatto che con uno sfruttamento eccessivo si genera “un inevitabile spopolamento”(p. 333), anche se di questo il singolo capitalista non si preoccupa affatto. Le condizioni del neonato capitalismo erano così dure che la rovina più grave era anzitutto quella dell'annientamento fisico dei lavoratori. Oggi condizioni del genere si ritrovano solo in certe zone del Terzo mondo.

In realtà, la riduzione della giornata lavorativa, oltre ad essere stata l'esito di molte battaglie sindacali, è nata anche dal fatto che i capitalisti inglesi non potevano comportarsi in Europa come i loro colleghi negli Stati americani del sud, ove gli schiavi (già al tempo degli spagnoli) potevano essere tranquillamente rimpiazzati dalle riserve africane. La cultura euroccidentale, per quanto cinica fosse, non avrebbe permesso un trattamento analogo sui propri cittadini, anche se poi, alla resa dei conti, tra lo sfruttamento del libero operaio inglese e quello dello schiavo negro afroamericano la differenza era minima.

Viceversa, per Marx l'adozione di una giornata lavorativa normale è dipesa principalmente dal fatto che la “libera concorrenza” dei capitalisti ha determinato “un intervento coercitivo dello Stato”, nel senso che alla volontà dei singoli capitalisti di sfruttare ad libitum, si sono opposte “le leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive esterne”(p. 334). Cioè a dire, quelle stesse ragioni che avevano portato il capitalista a distruggere il genere umano, per realizzare un profitto, lo hanno altresì portato a conservarlo per realizzare il medesimo profitto. A questo punto però diventa pura retorica sostenere -come fa Marx- che “lo stabilirsi della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta di più secoli tra capitalista e operaio”(p.335).

Dalla sua analisi si può dedurre solo una motivazione alla nascita dei Factory Acts: evitare la strage dei lavoratori, o quanto meno che dalla loro degenerazione psico-fisica si abbiano delle ricadute negative sul piano del profitto economico. Una motivazione, questa, che appare chiaramente di ripiego, conseguente al fatto che i capitalisti inglesi non potevano sfruttare la manodopera salariata con la stessa libertà dei piantatori di cotone americani.

Considerare la legislazione sulle fabbriche inglesi del sec. XIX come più “democratica” rispetto agli statuti del lavoro inglesi dei secoli XIV-XVIII, semplicemente perché qui si cercava di “prolungare” la giornata lavorativa, mentre là di cerca di “abbreviarla”, significa non avere un elevato senso di storicità (cioè di obiettività) delle cose.

Nei secoli XIV-XV avvenne in Inghilterra, a causa della nascita dei rapporti mercantili-monetari, il tentativo da parte del ceto feudale e imprenditoriale di costringere i contadini e gli operai salariati a produrre più corvées o ad accettare bassi salari. Cioè la coercizione extra-economica era dettata da fattori esogeni, che non dipendevano dall'economia feudale in sé, per quanto proprio le contraddizioni del servaggio inducessero molti a cercare delle alternative nei commerci e nell'attività imprenditoriale a scopo di lucro.

Viceversa, nel secolo di Marx il capitalismo è stato costretto a diminuire il tempo della giornata di lavoro a causa degli squilibri ch'esso stesso aveva provocato, e non perché da qualche altra parte esisteva un modo di produzione alternativo che con tutti i mezzi cercava di farsi strada.

“Occorrono dei secoli -dice Marx-, affinché il “libero” lavoratore, in seguito allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, si adatti di propria volontà, cioè affinché sia socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi normali mezzi di sussistenza tutto il periodo attivo della propria vita...”(p. 335). Ciò è vero, ma è singolare che qui Marx faccia coincidere la necessità sociale di vendere sul mercato la propria forza-lavoro con la libera volontà di farlo. E' forse mai esistito un momento, nella storia del capitalismo, in cui la forza-lavoro si sia venduta sul mercato soddisfatta di sé, cioè nella consapevolezza che in tal modo essa avrebbe sicuramente e definitivamente superato i limiti del modo di produzione pre-capitalistico? Limitandosi ad osservare la resistenza degli operai al capitalismo, Marx non è mai riuscito ad accorgersi di quella del mondo contadino.

“Non appena la classe operaia, frastornata dal fracasso della produzione, cominciò in qualche maniera a riaversi, dette inizio alla sua resistenza...”(pp. 346-7). “Frastornata dal fracasso della produzione”? In realtà il contadino era diventato operaio dopo che per secoli aveva disperatamente lottato contro il capitale. Sì, era “frastornato”, ma per essere uscito pesantemente sconfitto da quella guerra. Sconfitta dovuta -qui ha ragione Marx- al proprio “isolamento”: “il lavoratore isolato, il lavoratore quale “libero” venditore della propria forza lavorativa, soccombe irrimediabilmente quando la produzione capitalistica è giunta a un certo livello di maturità”(p.375). Solo che tale “isolamento” -e questo Marx non l'avrebbe mai ammesso- non era affatto una caratteristica della società agricola, ma una conseguenza del capitalismo (nelle campagne).

Il fatto che, dopo essersi “riavuto”, il contadino, in qualità di “operaio”, abbia ricominciato a lottare contro il capitale, esigendo almeno una giornata lavorativa normale, ci aiuta senz'altro a capire lo scarso livello di consapevolezza politica del “mondo” che aveva lasciato, ma non ci autorizza a pensare che non vi fu alcuna forma di “resistenza” prima del lavoro in fabbrica. Non foss'altro perché proprio questo tipo di rivendicazione viene considerata, dallo stesso Marx, come il primo esempio di lotta operaia contro il capitale.

Ciò che più stupisce però è che Marx, dopo aver fatto un elenco incredibile di casi in cui il capitalismo mostra tutta la propria disumanità, considera l'adozione di una giornata lavorativa normale (il Bill delle 10 ore del movimento cartista) come una misura convincente per la risoluzione del problema dello sfruttamento capitalistico, quando tale riduzione -a detta dello stesso Marx- tornava utile proprio al capitalismo! Marx qui sembra farsi portavoce non degli interessi del proletariato, ma della borghesia imprenditoriale più progressista o più illuminata, la cui “scienza economica” aveva superato i limiti individualistici dell'economia politica classica (che portavano alla figura del “capitalista-vampiro”).

Quale borghesia, infatti, non ha accettato il Bill delle 10 ore? Quella più ottusa e rapace, quella che si è difesa riducendo i salari del 10%, ripristinando il lavoro notturno, eliminando gli intervalli legali per i pasti ecc., quella che ha provocato la disfatta del partito cartista, mettendo al bando la classe operaia: in sostanza quella stessa borghesia che alla fine ha dovuto adattarsi all'inevitabile, mettendosi “l'animo in pace”(p.371).

La prima edizione del Capitale è stata scritta nel 1867. Marx può qui costatare che dopo il 1860 “la forza di resistenza del capitale s'andava gradualmente indebolendo, mentre allo stesso tempo la forza d'urto della classe operaia s'ingrandiva col numero degli alleati che s'era procurata negli strati della società che non erano interessati direttamente”(p. 371). E così “si verificò un progresso relativamente rapido”(ib.).

Senza saperlo, Marx stava assistendo al passaggio del capitalismo dalla fase concorrenziale a quella monopolistica e imperialistica. Purtroppo egli non s'era reso conto come al miglioramento delle condizioni lavorative degli operai inglesi, dopo il 1860, avesse fatto seguito il netto peggioramento delle condizioni lavorative del sottoproletariato delle colonie inglesi. A suo parere, il progresso era avvenuto perché il capitale aveva accettato i propri limiti, permettendo alla lotta di classe di conseguire i suoi obiettivi. Infatti, anche se negli Stati Uniti il movimento operaio stava già lottando per una giornata lavorativa di 8 ore, il problema di far passare una posizione di principio il proletariato europeo l'aveva risolto: “è impossibile riuscire a compiere ulteriori avanzamenti verso la riforma della società, se dapprima non viene limitata la giornata lavorativa e non viene imposta obbligatoriamente l'osservanza della limitazione stabilita”(parole dell'ispettore di fabbrica inglese, R.J. Saunders, fatte proprie da Marx, p. 379).

In sé la considerazione era giusta. Il guaio però è che l'analisi di Marx, in questo capitolo, si ferma qui, lasciando così credere che la transizione al socialismo potesse avvenire in maniera graduale, di riforma in riforma. Con ciò, in sostanza, non si riesce a intravedere la consapevolezza che le riforme solo utili solo se aiutano gli operai ad acquisire quella maturità politica sufficiente a capire che una riforma senza rivoluzione non fa che perpetuare, razionalizzandola, la loro condizione di schiavitù salariata.

* * *

Marx conclude la III sezione, dedicata al plusvalore assoluto, sintetizzando nel cap. IX i risultati fin qui raggiunti. L'argomento in questione è il saggio e la massa del plusvalore. La determinazione del saggio del plusvalore, partendo dal valore costante della forza-lavoro, nonché dalla grandezza costante della giornata lavorativa, appare, nell'analisi di Marx, come un'operazione matematica relativamente facile, ed in effetti lo è, se si considera la forza-lavoro e la giornata lavorativa in una maniera astratta.

In realtà, né l'una né l'altra sono costanti, ma sempre soggette a un movimento reciprocamente opposto. Il capitalismo è come un letto di Procuste che incessantemente cerca di diminuire il valore della forza-lavoro e di allungare il tempo di lavoro per estorcere plusvalore. In tal senso, stabilire con gli strumenti della matematica un saggio regolare del plusvalore è quanto di più inutile si possa fare. Il calcolo razionale, economico, può avere una qualche ragione scientifica solo in un contesto sociale ove la produzione sia tenuta sotto controllo dagli stessi produttori e consumatori.

Anche nei confronti della massa del plusvalore, Marx è costretto a ipotizzare un valore medio della forza-lavoro, ovvero un operaio medio, che nella realtà non esiste. Si può parlare di “valore medio” in riferimento a una singola unità produttiva, ove gli operai fanno cose equivalenti. Ma appena ci si allontana dalle mansioni prevalentemente manuali e ci si avvicina a quelle intellettuali, ecco che il concetto di “valore medio” perde di ogni significato, e non solo mettendo a confronto le due diverse mansioni, ma anche all'interno della mansione intellettuale, ove la possibilità, per un tecnico, di distinguersi da un collega è assai maggiore di quella che può avere un operaio nei riguardi di altri operai. Persino tra quest'ultimi la possibilità di distinguersi è strettamente correlata all'applicazione di un ragionamento logico-funzionale a mansioni standardizzate, cioè ripetitive, al fine di modificarle in maniera creativa. La possibilità di modificare il valore delle cose, trasformandolo, è prerogativa della forza-lavoro appunto in questo senso, che è poi quello che frena il desiderio del capitalista di sostituire in toto l'operaio con la macchina.

Ciò ovviamente non significa ch'esiste la possibilità, nell'ambito del capitalismo, di pagare l'operaio o il tecnico per il plusvalore che produce. La forza del capitalismo sta proprio nella capacità che ha di estorcere un plusvalore maggiore sfruttando le doti intellettuali dei lavoratori.

Dunque è impossibile determinare il saggio medio del plusvalore nel lungo periodo. Non solo per le ragioni viste sopra, ma anche perché, sotto il capitalismo, nessun imprenditore può mai controllare al 100% le condizioni del mercato. Un capitalista avrebbe tutto l'interesse ad avere valori costanti che gli permettessero di realizzare un determinato profitto costantemente, ma siccome sa quanto ciò sia relativo, egli preferisce, anche in regime di monopolio, fidarsi dei risultati immediati, per i quali l'uso di ogni mezzo gli pare giustificato. Temendo l'incostanza del plusvalore, egli cerca di estorcerne, nel breve periodo, quanto più possibile.

Con la sua analisi economica, Marx ha offerto al capitalista l'illusione di poter razionalizzare il processo produttivo, evitando sprechi e investimenti sbagliati. Ma in tal modo egli non ha fatto che insegnare ai capitalisti come sfruttare al meglio gli operai. A forza di parlare dei “limiti tecnici” della produzione capitalistica, egli ha finito col proporre delle soluzioni che gli stessi capitalisti non potevano trovare che alquanto vantaggiose.

In tal senso, le tre leggi ch'egli delinea nel cap. IX, e che qui non val neppure la pena di esaminare, relativamente ai rapporti tra saggio e massa del plusvalore, numero degli operai e grandezza della giornata lavorativa, fanno certo più “comodo” al capitalista che all'operaio. Quale operaio, infatti, potrà esultare sapendo che “la offerta di lavoro che il capitale può estorcere diviene indipendente dalla offerta di operai”(p. 384)? Quale operaio potrà mai consolarsi sapendo che tale estorsione non può avvenire oltre “certi limiti”? Non si fa forse un favore al capitalista spiegandogli nel dettaglio il modo in cui può ovviare al peso di questi “limiti”? Non è singolare che sia stato proprio Marx a mostrare ai capitalisti come per ottenere maggiore plusvalore bisogna puntare di più sul capitale variabile e meno su quello costante?

All'operaio, in sostanza, non resta che prendere atto di un'amara verità: “non è più l'operaio che adopera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che adoperano l'operaio. Piuttosto che essere consumati da lui come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui come fermento del loro processo vitale, e il processo vitale del capitale non è altro che il suo movimento di valore che valorizza se stesso”(p. 392).

A questo punto, come non rimpiangere quell'epoca in cui “le corporazioni medievali cercavano d'impedire con la forza la trasformazione del maestro artigiano in capitalista, limitando a un massimo assai ristretto il numero dei lavoratori che il singolo maestro aveva il diritto di occupare”(p. 390)?

Qui però Marx ha ragione: piuttosto che un capitalismo “strozzato” è meglio un capitalismo “libero”, anche perché il primo sarebbe destinato con certezza ad essere superato dal secondo. Il fatto è che Marx, ogni volta che mette a confronto capitalismo e feudalesimo, riporta sempre degli esempi a favore del capitalismo. Questo accade perché egli intende riferirsi sempre al “basso Medioevo”, allorché le pressioni del capitalismo commerciale erano già così forti da indurre, ad es., le autorità corporative a reagire con la forza. Marx non vede in tale “reazione” il tentativo di salvare un ideale, ma il tentativo di comprimere la libertà.

Marx non ha mai analizzato il momento di passaggio dall'alto al basso Medioevo, cioè la transizione dall'economia di autoconsumo alla lotta di tale economia contro quella basata sullo scambio. Non a caso egli considera la nascita del capitalismo come una semplice conseguenza della possibilità, da parte del possessore di denaro o di merci, di anticipare una somma minima per la produzione, che superasse di molto il massimo medievale consentito. E qui Marx si avvale della legge hegeliana, secondo cui “variazioni meramente quantitative, giunte ad un certo grado, si riducono a differenze qualitative”(p. 390). Legge che, in ultima istanza, rifiuta di prendere in considerazione proprio il valore della libertà.

Esiste forse qualche legge cieca della storia “che obbliga la classe operaia ad effettuare un lavoro maggiore di quello che richiede la ristretta cerchia dei suoi bisogni essenziali”(p. 392)? Marx ovviamente risponderebbe di no, ma perché allora considerare “ristretti” i “bisogni essenziali”? Forse grazie al fatto che il capitalismo “supera in energia, smodatezza ed efficacia tutti i precedenti sistemi di produzione basandosi sul diretto lavoro forzato”(ib.), i suddetti bisogni si sono fatti meno “ristretti”?

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015