Pascal: la ragione e il cuore

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Pascal: la ragione e il cuore

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Pascal

Nella storia del pensiero cristiano è ricorrente il conflitto tra razionalisti e fideisti. Pascal, che in questa storia ha un posto eminente, dove si colloca?

L’originalità di Pascal rende difficile rispondere.

I fideisti possono trovare nelle sue pagine molti elementi per considerarlo uno dei loro: la denuncia dei limiti della ragione nell’analisi esistenziale, il pessimismo antropologico, la concezione della fede come dono divino, il peso determinante dell’abitudine come seconda natura sono forti elementi di sostegno alla loro posizione. Ma, il ruolo di Pascal nel processo di formazione e di sviluppo della scienza moderna offre ai razionalisti argomenti molto consistenti per farne un proprio campione.

Invece di forzare Pascal nelle classificazioni scolastiche, conviene, però, cercare di capire che cosa intenda lui per ragione e per cuore.

“Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principi primi; e invano il ragionamento che non vi ha parte, cerca d’impugnarne la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi principi – come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri –, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non vi sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro. I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene con differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi principi, per darvi il proprio assenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle”.

Il cuore intuisce, la ragione discorre, procede per dimostrazioni; ma il cuore ha il primato sulla ragione: senza l’apporto intuitivo del sentimento la ragione non può neppure cominciare la sua “attività discorsiva”.

A Pascal, però, non pesa la dipendenza della ragione dal sentimento.

“Questa impotenza – continua Pascal – deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d’istruirci. Piacesse a Dio, che, all’opposto, non ne avessimo mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento” (144).[1]

Il pensiero 145 scolpisce una specie di trinità umana: “Cuore, istinto, principi”.

A Pascal piacerebbe che essa bastasse all’uomo. Purtroppo, l’uomo deve andare oltre, e deve farlo a passi di ragione.  La ragione è un mezzo limitato per rimediare in qualche modo ai gravi limiti umani.

Quando parla della ragione, Pascal si allontana abissalmente da Cartesio e si avvicina a Montaigne e a Galileo.

Si avvicina a Montaigne nella critica alla presunzione dei razionalisti e nell’idealizzazione dell’istinto e del sentimento.

Si avvicina a Galileo nell’insistere sul peso preliminare dell’esperienza nell’avvio della ricerca scientifica e sul carattere decisivo dell’esperimento nei momenti conclusivi della ricerca stessa. Contro il metodo deduttivo che Cartesio propugna anche in fisica, Pascal è, infatti, d’accordo con Galileo fautore del metodo sperimentale.

Si potrebbe dire che, per Pascal, dati i limiti dell’istinto e del sentimento, l’uomo non può fare a meno della ragione, ma deve stare molto attento a non gonfiarsi di presunzione, fino a non vederne più i limiti.

La ragione in fisica dipende dall’esperienza, che ne delimita i confini nella ricerca, in matematica procede sì da sé, indipendentemente dall’esperienza, attraverso catene anche lunghissime di ragionamenti, ma queste si reggono su principi che solo il cuore conosce. La ragione, cioè, ha dei limiti anche sul suo terreno più proprio. Sulla condizione umana è cieca.

Sulla questione esistenziale più importante la ragione è fuori gioco.

“Il cuore, e non la ragione, sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione” (148).

Non sovrapponibile alla distinzione fra cuore e ragione è quella fra lo spirito di finezza e quello di geometria. Più che distinguere la ragione e il cuore, questa, infatti, distingue tra due tipi d’intuizione, quella dei matematici e quella degli uomini di mondo, di coloro che si muovono agevolmente nelle relazioni umane. Si tratta di quella differenza di capacità umane che Pascal ha incontrato nella sua esperienza dei salotti parigini, distraendosi dai suoi impegni scientifici.

Il cuore dei matematici è ben diverso dal cuore degli uomini fini.

Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza. Nel primo i principi sono tangibili, ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga ad essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra principi così tangibili che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito di finezza i principi sono, invece, nell’uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma buona davvero, perché i principi sono così tenui e così numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molta limpida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra principi noti.

Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non ragionano falsamente sui principi che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero piegare lo sguardo verso i principi, a loro non familiari, della geometria.

Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di volgersi verso i principi della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che, essendo usi ai principi netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo averli ben veduti e maneggiati, si perdono nelle cose in cui ci vuole finezza, nelle quali i principi non si lasciano trattare alla stessa maniera. Infatti, esse si scorgono appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile farle sentire a chi non le senta da sé [...] Bisogna cogliere la cosa di primo acchito con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno fino a un certo punto. E così è raro che i geometri siano spiriti fini e gli spiriti fini geometri, perché i primi vogliono trattare con metodo geometrico le cose che esigon finezza, e cadono nel ridicolo volendo cominciare dalle definizioni e poi dai principi […] E gli spiriti fini, per contro, essendo usi a giudicare con una sola occhiata, rimangono talmente stupiti quando si trovano di fronte a proposizioni per loro incomprensibili, e alla cui intelligenza si accede solo attraverso definizioni e principi sterilissimi, che essi non sono avvezzi a esaminare minutamente, che se ne infastidiscono e se ne disgustano” (1).

O abili matematici o abili nelle faccende umane, nelle relazioni umane, nell’analisi esistenziale. Pascal, però, ha offerto eccellenti prove di possesso di entrambi gli spiriti.

Pascal: la fuga da se stessi nelle distrazioni

L’uomo è un enigma, che, invece di cercare di capirsi, s’impegna in ogni modo di evitare l’incontro con se stesso, di perdersi nelle cose. Perché?

Ecco come Pascal spiega la cosa.

“Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente incapace d’intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo inghiotte. […]

Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi […] Nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono” (223).[2]

I limiti umani, rapportati ai due infiniti opposti, diventano insopportabili: mettono in tutta evidenza la nostra impotenza e la nostra miseria; l’infinto degli estremi brucia la nostra finitezza, la vanifica.

Quando fermiamo lo sguardo su noi stessi, sono gli aspetti più deprimenti del nostro essere quelli che i nostri occhi registrano.

“L’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale, è talmente misera che nulla ci può consolare allorché ci riflettiamo con attenzione” (354).

Per questo la pratica del “conosci te stesso” è così rara: l’uomo non sopporta di trovarsi da solo con se stesso, davanti al proprio mistero e alla propria miseria. Cerca in ogni modo la fuga da se stesso. Cerca l’impegno in attività che lo distraggano dal rapporto diretto con se stesso, che lo liberino dalla presenza di se stesso. Cerca distrazioni.

Pascal parla di divertissement, parola francese che deriva dal verbo latino de-vertere, che significa distogliere, allontanare l’attenzione da qualcosa.

“Nulla è così insopportabile all’uomo come essere in pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima il tedio, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione” (352).

La prima naturale e immediata reazione e difesa è la fuga da sé.

“Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci” (348).

Come lo struzzo che mette la testa nella sabbia, l’uomo mette la sua attenzione nelle cose che lo impegnano o lo divertono, cioè, lo distraggono.

“L’unico bene degli uomini sta, dunque, nell’essere distolti dal pensare alla loro condizione o da un’occupazione o da qualche passione piacevole e nuova che li assorba, o dal giuoco, dalla caccia, da qualche spettacolo attraente: insomma da quel che si chiama divertissement. […]

La fortuna delle persone di alta condizione sta, appunto, nell’aver intorno una quantità di gente che la distrae, e nel poter rimanere in questo stato.

Badate. Che cosa significa essere sovrintendente, cancelliere, primo presidente, se non trovarsi in una condizione che permette di avere intorno, sin dal mattino, un gran numero di persone accorrenti da ogni dove perché non resti loro nemmeno un’ora in tutta la giornata in cui possano pensare a loro stessi? E quand’essi cadono in disgrazia, e devono ritirarsi nelle loro case di campagna, dove pur non mancano né di beni di fortuna né di domestici per assisterli nei loro bisogni, si sentono tuttavia miseri e soli, perché nessuno impedisce loro di pensare a loro stessi” (354).

“Si addossa agli uomini, sin dall’infanzia, la cura del loro onore, dei loro beni, dei loro amici, e financo dei beni e dell’onore degli amici. Si sovraccaricano di lavoro, dello studio delle lingue e di occupazioni; e si fa loro credere che non potranno essere felici se salute, onore, averi loro e dei loro amici non saranno in buono stato e che, se venisse a mancare una sola di tali cose, sarebbero infelici. E così, si affidan loro incarichi e incombenze che li fan penare da mattina a sera. – Bella maniera (direte) di renderli felici! Che cosa si potrebbe fare di più, per renderli infelici? – Come? Che cosa si potrebbe fare? Basterebbe liberarli da tutte quelle cure: allora vedrebbero se stessi, penserebbero a quel che sono, si domanderebbero donde vengono, dove vanno. Perciò, non si può mai occuparli e distrarli abbastanza. Ed ecco perché, dopo averli sovraccaricati di tante faccende, appena hanno un momento di respiro, si consiglia loro d’impiegarlo a divertirsi, a giocare e ad assorbirsi sempre per intero in qualche occupazione” (358).

“Noi corriamo spensierati verso il precipizio, dopo esserci messi dinanzi agli occhi qualcosa che c’impedisca di vederlo” (367).

Montaigne e Pascal hanno in comune l’idea che la condizione umana sia esposta sul vuoto, sul precipizio. Mentre, però, Montaigne cerca di vincere la vertigine guardando i limiti umani, facendo come i conciatetti che si abituano a muoversi esposti al pericolo e trovano sicurezza in questa loro abitudine, Pascal non vuole distogliere lo sguardo dall’abisso.

Pascal non sa che farsene della serenità di Montaigne, fatta di abitudine a muoversi nell’incertezza. Lui vuole certezze assolute. E pensa di poterle trovare esponendo i limiti umani sull’abisso dell’infinito. 

Se Montaigne trova la serenità nell’accettazione dei limiti umani, Pascal vede nella miseria stessa il rinvio a una condizione di felicità e di perfezione perduta: “Tutte queste stesse miserie provano la sua grandezza: sono miserie di gran signore, di re spodestato” (369).

La miseria umana può, però, riscattarsi, diventando consapevole.

“La grandezza dell’uomo è così evidente che s’inferisce dalla sua stessa miseria. Invero, ciò che negli animali è natura, nell’uomo lo chiamiamo miseria: riconoscendo così che, essendo oggi la sua natura simile a quella degli animali, è decaduto da una natura migliore, che era un tempo sua.

Infatti, chi si sente infelice di non esser re, se non un re spodestato” (370).

La grandezza dell’uomo è quella da cui è precipitato col peccato di Adamo, quella di cui ha nostalgia profonda. Se, però, invece di stordirsi nelle cose e negli impegni più diversi, per sottrarsi alla sofferenza esistenziale, l’uomo si ripiega su se stesso, mette a fuoco la propria condizione, realizza la sola vera grandezza di cui è capace, quella della coscienza della propria miseria.

“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa” (377). “Nel pensiero sta la grandezza dell’uomo” (376).

Segno della dignità del pensiero è il profondo e generale bisogno di essere riconosciuti dagli altri uomini.

“Così elevato è il nostro concetto dell’anima umana che non possiamo tollerare di essere disprezzati, e di non godere la stima di un’anima. Tutta la felicità degli uomini consiste in questa stima” (380).

Abbiamo assoluto bisogno di essere accettati dagli altri uomini, nella forma più piena, quella della stima o, più ancora, dell’ammirazione.

Nasce da questo bisogno la ricerca della gloria.

“La più gran bassezza dell’uomo è la ricerca della gloria; ma è altresì il più gran segno della sua eccellenza: ché, per quanti beni esso possegga, per quanta salute e agi sostanziali, se non gode la stima degli altri uomini, non è soddisfatto. […] Quelli stessi che più disprezzano gli uomini, e li eguagliano ai bruti, voglion tuttavia esserne ammirati e creduti, contraddicendo con questo sentimento loro stessi; e la loro natura, più forte di tutto, li convince della grandezza dell’uomo con maggior forza di quel che la ragione non li persuada della loro bassezza” (381).

Il divertissement e la ricerca insaziabile della stima e della gloria sono sintomi dell’incapacità d’accettarsi: non piacendosi, non riuscendo a stare con se stesso, l’uomo cerca di perdersi nelle cose o, almeno, di piacere agli altri.

Riuscendo a piacere agli altri può illudersi di piacersi.

La gloria può dar l’illusione di essere quel che non si è: copre la miseria.

Pascal: la scommessa e l’allenamento alla vita della fede

Pascal vive la propria fede come dono divino. Pensa che l’uomo possa giungere alla fede, e quindi alla salvezza, solo se scelto e illuminato da Dio. Non crede nel merito, nella possibilità umana di guadagnare la salvezza. E’ giansenista e polemizza con i gesuiti proprio su questo punto.

Egli, però, frequenta i libertini e di alcuni di loro è amico. E costoro, profondamente convinti di essere artefici del proprio destino, sono refrattari alla sua idea di fede religiosa. Ha, quindi, il problema di come avvicinare alla religione questo tipo di persone.

Convinto che il problema più importante della vita sia quello dell’esistenza di Dio, non solubile alla maniera cartesiana con argomentazioni della ragion geometrizzante, Pascal fa leva sulla tendenza dei suoi amici libertini all’impostazione dell’esistenza con scelte personali e responsabili.

Chi è abituato a decidere responsabilmente della propria esistenza non può, secondo Pascal, non rendersi conto che di tutte le scelte che si fanno nel corso dell’esistenza umana quella più importante è di gran lunga la scelta di vivere come se Dio esistesse o come se Dio non esistesse.

Capito il carattere assolutamente decisivo della scelta, il libertino, abituato a muoversi in base a calcoli ragionati, non potrebbe, secondo Pascal, che decidersi a vivere come se Dio ci fosse.

“Parliamo adesso secondo i lumi naturali”(164),[3] scrive, cercando di entrare in sintonia con l’animo libertino. Lui, che ha accusato Montaigne di cercare “quale morale la ragione dovrebbe dettare senza la luce della fede […] considerando l’uomo come privo di qualsiasi rivelazione”, propone un approdo alla fede con i soli lumi naturali. Lui, molto polemico con i gesuiti, propone ai libertini un approdo alla fede non molto diverso da quello che Tommaso d’Aquino, stella polare filosofica e teologica dei gesuiti, propone a chi non abbia ancora la fede, con le sue cinque vie per arrivare a Dio.

Certo, lui non sa che farsene del Dio dei filosofi e delle dimostrazioni aristoteliche o cartesiane, ma come può pensare che il Dio della scommessa razionale sia molto diverso? Come il Dio dei filosofi, infatti, anche questo è un Dio raggiunto con mezzi solo umani.

Seguiamo il suo discorso: “Esaminiamo questo punto e diciamo: «Dio esiste o no?» Ma da quale parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. All’estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due puntereste? Secondo ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra, e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché ne sapete un bel nulla” (164).

Il dilemma paralizza la ragione.

La ragione non può determinare in nessuna delle due direzioni possibili.

Pascal capisce l’incertezza dello scettico: anche per lui la mancanza di necessità razionale equivale a non sapere “un bel nulla”.

“Si, ma – replica Pascal – scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato (vous êtes embarqué)”.

Si è in ballo!

“Poiché scegliere bisogna, scrive Pascal, esaminiamo quel che v’interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l’errore e l’infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall’altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste” (164).

C’è un corno del dilemma molto più ragionevole dell’altro e della paralisi.

Vale la pena rischiare. Non resta che decidersi, e convertirsi.

Fatto, però, questo primo gran passo verso Dio, il libertino deve fare i conti con le sue abitudini e con le sue passioni.

Non è facile cambiare radicalmente vita.

Pascal si mette nei panni del libertino.

“Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?”

L’uomo non è solo mente che pensa e che decide. E’ anche corpo. Pascal lo sa bene. Anche per lui, come per Cartesio, l’uomo è unità di anima e corpo, di pensiero libero e di automatismi meccanici.

Fatta la scelta libera, bisogna fare i conti con il corpo, con le sue necessità, con le sue abitudini e le sue passioni. Dopo il primo passo, le difficoltà non vengono più dalla ragione, ma dalle abitudini di vita difficili da cambiare.

Per cambiare abitudini, infatti, bisogna agire sulla natura e sulle sue leggi, perché l’abitudine, come già insegnava Aristotele, è una seconda natura.

Presa la decisione della scommessa, si passa dal regno della libertà spirituale a quello della necessità naturale.

Ecco il nuovo e più duro ostacolo: le passioni, le abitudini di vita.

E’ con queste che il libertino è invitato da Pascal a fare i conti.

“Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l’aumento delle prove, bensì con la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall’incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che sono guarite da un male da cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi impecorirà (in francese: vous abêtira)” (164).

Ridottosi come un bruto, addomesticato il corpo, piegate le abitudini alla vita di fede, per l’ex-libertino sarà poi facile credere.

“Noi siamo automatismo altrettanto che spirito. e da ciò viene che strumento di persuasione non è soltanto la dimostrazione. Quanto poche sono le cose dimostrate! Le prove convincono solamente l’intelletto. L’abitudine genera le prove più efficaci e più credute: piega l’automa, il quale trascina l’intelletto senza che questo se ne renda conto. Su quali dimostrazioni riposa la nostra convinzione che domani tornerà a splendere il sole, o che un giorno moriremo? Eppure, c’è cosa più fermamente creduta? Dunque, è l’abitudine a persuadercene; ed è lei a fare tanti cristiani, a fare i Turchi, i pagani, i mestieri, i soldati, ecc. […] Quando si crede soltanto per convinzione razionale, ma l’automa tende a credere l’opposto, non basta. Bisogna dunque che tutte due le parti di noi stessi credano: l’intelletto, per opera delle ragioni, che basta aver conosciute una volta; e l’automa, per mezzo dell’abitudine, e impedendogli d’inclinare verso il contrario” (156).

Ma, acquisire buone abitudini non è l’essenza della virtù, non è merito?

Inoltre: serve alla salvezza questa fede guadagnata con una scommessa molto ragionevole e con l’addestramento a vivere come se si credesse?

Pascal pensa di no.

“Coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l’hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la salvezza” (144).

Questa conclusione non rimette radicalmente in discussione la scommessa?

O dobbiamo pensare che la scommessa e il successivo allenamento fisico alla fede costituiscano un merito agli occhi di Dio e ne promuovano la decisione di donarci la fede “per sentimento del cuore”?

Se, però, la scommessa serve, perché Pascal polemizza tanto con i gesuiti che teorizzano la necessità del merito? Se non serve, perché proporla come la cosa più importante della vita.

A Pascal preme convincere il libertino. Lo fa con tutti gli argomenti che gli sembrano efficaci a convincere quel tipo umano così diverso da lui, senza preoccuparsi troppo della loro compatibilità con la propria idea di fede.

Vale anche per Pascal, e sul terreno della fede, che i propri beni non sono veramente tali se non sono confermati dal riconoscimento degli altri.

Pascal sa bene che “la fede puramente umana” è “inutile alla salvezza”, ma invita il libertino ad acquisirla impegnando la mente e il corpo, meritandosela.

“Bisogna congiungere all’interno l’esterno, per ottenere da Dio: ossia, mettersi in ginocchio, pregare con le labbra, ecc., affinché l’uomo orgoglioso che non ha voluto sottomettersi a Dio, sia ora sottomesso alla creatura. Aspettare da quegli atti esteriori l’aiuto è superstizione; ma non voler congiungerli a quelli interiori è superbia” (158).

Bisogna evitare la superstizione, che vincola la volontà divina agli atti esteriori, e la superbia che non riconosce la salutare funzione umiliante di questi atti.

Per Pascal, bisogna darsi da fare, decidersi e impegnarsi per arrivare alla fede, anche attraverso l’umiliazione dell’allenamento meccanico del corpo.

Non si deve, però, credere che i riti esteriori valgano pe la salvezza.

E’ però indubbio che evitare la superstizione e umiliarsi nell’addestramento del corpo alla vita di fede significa essere virtuosi, così come la decisione di scommettere su Dio è un atto di valore umano.

C’è del merito, e non poco, nella fede che Pascal propone al libertino.

Fede solo umana, però, quindi non salvifica.

Contraddizioni? Forse, ma, Pascal non se ne preoccupa: “Il non essere contraddetti non è un segno sicuro della verità: molte cose certe son contraddette, molte cose false vengono accolte senza contrasto. Né la contraddizione è segno di errore, né la sua mancanza segno di verità” (434).

A lui preme, combattendo la superstizione e la fiducia in se stessi, che la sua fede sia condivisa, e così consolidata, anche dal tipo umano a lui più distante, il libertino.

Pascal vive la propria fede come dono divino, ma la sua umanissima insicurezza lo spinge a cercare la condivisione del libertino.

Torino luglio 2012


[1] I numeri dei Pensieri sono quelli dell’edizione Einaudi 1962 e degli Oscar Mondadori 1968.

[2] I numeri dei Pensieri sono quelli dell’edizione Einaudi 1962 e degli Oscar Mondadori 1968.

[3] I numeri dei Pensieri sono quelli dell’edizione Einaudi 1962 e degli Oscar Mondadori 1968.

Giuseppe Bailone

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015