BLAISE PASCAL (1623-1662)

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BLAISE PASCAL (1623-1662)

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BLAISE PASCAL

Quando si separa la fede dalla ragione, i risultati possono essere due: o l'integralismo più fanatico, oppure lo sviluppo della scienza e della laicità. Pretendere un terzo risultato, e cioè l'accordo tra una fede che, ritenuta superiore alla scienza, nella prassi (privata soprattutto) viene privilegiata, e un interesse effettivo per la scienza, la vita civile e politica, non è cosa che possa durare a lungo. Lo si è visto nell'esperienza di Pascal e, in fondo, di tutto il giansenismo (in questo la Francia di allora era inferiore all'Inghilterra).

Nei secoli XVI e XVII si era ormai arrivati a un punto tale di secolarizzazione (negli ambienti intellettuali) che nessun revival teoretico del cristianesimo originario o patristico (ortodosso) era più in grado di far rivivere nella prassi sociale quei valori religiosi (contro i gesuiti e il molinismo).

In pratica, si finiva sempre coll'evidenziare, del cristianesimo primitivo (o anche della Bibbia), solo quegli aspetti che più potevano servire per emanciparsi dalla religione tradizionale. D'altra parte l'esperienza più "autentica", più originale, più pura del cristianesimo da secoli non era più possibile (come minimo dall'epoca costantiniana).

Nei secoli XVI e XVII la polemica antireligiosa (anticattolica), portata avanti in nome di ideali di fede più autentici (nel senso di più "umanistici"), si risolveva, in ultima istanza, in una progressiva emancipazione dall'idea stessa di religione o, almeno, dal fenomeno sociale tradizionale ch'essa rappresentava.

Dopo il crollo del Medioevo (ma non dobbiamo dimenticare i fenomeni ereticali del basso Medioevo), qualsiasi esperienza religiosa che si pretendeva in alternativa a quella dominante, finiva, proprio a causa della crescente laicizzazione, col rovesciarsi su posizioni laiche e umanistiche, che di religioso avevano solo l'involucro. Questo naturalmente avveniva a prescindere dalla volontà dei protagonisti.

Non è forse significativo che a Port Royal potessero tranquillamente convivere, da un lato, il rigorismo etico-religioso e, dall'altro, gli studi di logica, le ricerche scientifiche e il cartesianesimo? Che poi Pascal sia passato dalla scienza alla fede (e non dalla fede alla scienza), ciò non infirma quanto detto, poiché l'esperienza del suo ultimo periodo va situata in quel filone mistico-irrazionale che troverà in Kierkegaard e soprattutto in Nietzsche i suoi massimi esponenti.

Pascal, come d'altra parte Cartesio, stanno a testimoniare che un'esperienza borghese può essere progressista quanto vuole sul piano scientifico, ma se non trova un adeguato consenso di massa, il suo individualismo rischia sempre di portarla a vivere cose opposte a quelle affermate. La storia s'è poi preoccupata di dimostrare che l'irrazionalismo peggiore della borghesia è proprio quello realizzato col consenso delle masse.

PASCAL E KIERKEGAARD

Nella religione pascaliana manca quel pathos drammatico, fortemente irrazionalistico, che si trova in quella di Kierkegaard. Questo perché al tempo di Pascal la religione veniva messa in discussione solo negli ambienti intellettuali (p.es. il giansenismo), mentre ai tempi di Kierkegaard (prima metà dell’Ottocento) gli ambienti di contestazione erano anche quelli popolari.

Ecco perché, mentre a Pascal è sufficiente opporsi in maniera intellettuale alla secolarizzazione dei filosofi (specie di Cartesio), Kierkegaard invece, pur di salvaguardare ad ogni costo la religione (la "sua" religione), è costretto a ricorrere a determinazioni ben più volontaristiche, che hanno lo scopo di mettere in crisi l'identità del credente tradizionale, il suo modo consueto di vivere la fede. La sua lotta contro la secolarizzazione avviene dentro l'ambito ecclesiastico luterano, o comunque dentro l'orizzonte del discorso religioso.

A Kierkegaard non sarebbe mai venuto in mente di usare come argomento apologetico della fede quello della scommessa sull'esistenza di dio (che altro non è se non una laicizzazione, non meno intellettualistica, delle prove scolastiche sull'esistenza di dio).

Kierkegaard non solo negava qualunque valore alle cosiddette "prove scolastiche", in quanto esse - a suo giudizio - davano per scontato ciò che invece dovevano dimostrare, ma riteneva anche - posta l'esistenza di dio - che il vero problema non fosse quello di credere o di non credere, ma di come credere.

"Si è cristiani in massa - diceva Kierkegaard - semplicemente perché si è battezzati". Il vero e unico problema, per lui, era quello di come dimostrare che un'esperienza concreta della fede è migliore di una qualunque altra esperienza, migliore soprattutto di quella offerta dall'istituzione ecclesiastica dominante, che nel suo caso era la chiesa protestante danese.

L'irrazionalismo di Kierkegaard non è tanto una conseguenza dell'assunzione del punto di vista religioso in un contesto sociale caratterizzato da un'emergente laicizzazione, quanto una conseguenza dell'aver assunto tale punto di vista nell'ambito della realtà del singolo, assolutamente contrapposta ad ogni mediazione non solo istituzionale ma anche sociale.

Tuttavia, l'esperienza di Kierkegaard sta forse anche ad indicare che ai suoi tempi la dimensione religiosa non poteva essere vissuta che in modo conformistico, se non si voleva cadere nell'irrazionalismo; ovvero, all'opposto, che la pretesa di vivere una religiosità davvero autentica, in un contesto sempre più laicizzato, deve necessariamente sconfinare nell'irrazionalismo.

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015