IL MODO DI PRODUZIONE ASIATICO (M.P.A.)
UNA CATEGORIA ECONOMICA


SVILUPPI PRIVATISTICI DELLE SOCIETÀ A MODO DI PRODUZIONE ASIATICO

Nei due brevi articoli che qui di seguito presentiamo, prenderemo in esame gli sviluppi privatistici che hanno luogo, almeno da un certo momento in avanti, nella struttura economica ed istituzionale delle società stataliste extra-europee (comunemente dette a "modo di produzione asiatico").

  • Nel primo analizzeremo infatti le trasformazioni che, almeno indicativamente, determinano in esse la nascita di poteri e di classi sociali estranee alla pura ‘logica di casta’, propria di tali società (strutturalmente basate – come vedremo – sul concetto di funzionariato di stato);
  • nel secondo invece, analizzeremo i meccanismi che portano alla nascita della moneta, intesa come riconoscimento da parte dello stato (ovvero sul piano giuridico) sia dell’esistenza del danaro e della sua importante funzione sociale, sia dell’esistenza di poteri privati, cioè non direttamente sottoposti alla sua autorità.

Il tema di fondo di entrambe gli scritti sarà il modo in cui, all’interno di società in cui i poteri funzionariali dello stato hanno – quantomeno fino ad un certo momento – detenuto un’autorità pressoché incontrastata sia nell’ambito economico che in quello politico, possano gradualmente prendere forma e affermarsene altri, di natura non pubblica. E come, ciononostante, questi ultimi si accompagnino pur sempre, secondo la tradizione del cosiddetto "dispotismo asiatico", a una presenza forte ed altamente condizionante delle pregresse gerarchie statali. Definiremo questa seconda forma di società come feudalesimo asiatico, e ne mostreremo le analogie tanto col "modo di produzione asiatico" vero e proprio (del quale esso costituisce infatti uno sviluppo), quanto col feudalismo europeo (i cui caratteri delineeremo brevemente avanti).

EVOLUZIONE DELLE SOCIETÀ A MODO DI PRODUZIONE ASIATICO

IL MODO DI PRODUZIONE ASIATICO
(LA NASCITA DELLA CONTRAPPOSIZIONE TRA CITTÀ E CAMPAGNE)

Il modo di produzione asiatico è la prima forma di organizzazione statale conosciuta dall’umanità. Essa sorge dall’unione tra diverse comunità agricole, o villaggi, precedentemente indipendenti tra loro, conducenti cioè un’esistenza pressochè autonoma.

I villaggi agricoli primitivi

Tali villaggi si basavano su un’organizzazione sociale tendenzialmente "comunistica". Al loro interno infatti non esistevano o quasi specializzazioni di carattere professionale, né quindi gruppi sociali impegnati in attività che li elevassero al di sopra degli altri. Unica eccezione a questa regola, era la presenza di capi tribali (peraltro spesso eletti dai membri della comunità) cui erano assegnate funzioni dirigistiche. Per il resto, tutti i componenti dei villaggi svolgevano all’incirca le medesime attività, ognuno per se stesso e – soprattutto in periodi di carestia, di guerra e in genere di difficoltà – anche per gli altri.

Non essendosi sviluppata l’idea stessa di proprietà individuale, né di proprietà familiare, il possesso di beni personali era subordinato fondamentalmente agli interessi della comunità. Più che di proprietà privata, si può perciò parlare per queste formazioni originarie di possesso privato, ovvero di un naturale diritto di usufrutto da parte del singolo sui beni di sua pertinenza, il quale però non escludeva il dovere di porre tali beni in comunione col resto della comunità – soprattutto, come si è detto, in periodi di particolare difficoltà.

La nascita del modo di produzione asiatico (ovvero dello Stato)

L’avanzamento delle tecniche alla base della produzione, la conseguente crescita della popolazione e quindi delle sue esigenze di consumo, spinsero le comunità di villaggio a cercare nuove soluzioni per accrescere ulteriormente la propria capacità produttiva. La soluzione fu spesso trovata (oltre che in un ulteriore perfezionamento delle tecniche produttive) nell’unione o associazione tra differenti villaggi: una scelta il cui fine fondamentale era quello di fornirsi un reciproco aiuto nell’espletamento delle attività economiche.

Ma la formazione di un’alleanza tra comunità isolate richiedeva la nascita di un centro decisionale superiore, che si ponesse al di sopra degli interessi particolaristici dei singoli villaggi, che fosse cioè capace di una supervisione e di un coordinamento delle attività riguardanti l’intera comunità statale. Da tale esigenza ebbe luogo la nascita di un potere centralistico supremo, incarnato dal sovrano, reggitore unico dello stato, dalla cui volontà dipendevano le attività di interesse generale (ovvero i public works, inerenti di solito la canalizzazione dell’acqua dei fiumi per l’agricoltura) e le cui decisioni erano rese esecutive da poteri funzionariali locali, distribuiti nelle varie parti del suo dominio.

Ma tali apparati, il cui compito fondamentale consisteva appunto nell’organizzare lo svolgimento delle attività di pubblica utilità, alla cui esecuzione erano tuttavia chiamati gli stessi sudditi/contadini (la specificità dello stato era infatti quella di regolare e rendere possibili tali lavori, ma il loro svolgimento materiale era realizzato attraverso corvée), richiedevano per sopravvivere un costante esborso di ricchezze sotto forma di tributi da parte dei villaggi, la cui produzione era quindi destinata ora, non più solo al proprio mantenimento ma anche a quello degli apparati burocratici dello stato.

La separazione tra città e campagne

Le città nascono a questo punto dello svolgimento del progresso sociale. Esse sono sin dall’inizio dei centri superiori rispetto ai villaggi, nei quali hanno sede soprattutto le attività sorte in conseguenza della nascita dello stato stesso: ovvero in sostanza le attività svolte dalla casta dei funzionari statali.

Questi ultimi si possono dividere in alcune macro-categorie:

  • gli scribi (essenzialmente amministratori finanziari dei villaggi, tributari del Re),
  • i poteri satrapici o territoriali (composti dai vari amministratori di stato, alla testa dei quali sta un signorotto locale eletto dal Re),
  • i soldati (cui è affidato il compito di difendere l’ordine sociale),
  • i sacerdoti (portatori dei "saperi superiori", espressione dell’ideologia alla base della società, i quali – per l’immenso carisma che hanno sulle masse – tendono a emanciparsi dalla tutela del sovrano, divenendo un potere autonomo e antagonista rispetto a esso),
  • gli artigiani specializzati e i mercanti.

Soffermiamoci su queste due ultime categorie. Esse sorgono in conseguenza l’una dell’esigenza di incrementare la produttività sociale, attraverso il miglioramento degli strumenti alla base del lavoro, l’altra dall’esigenza di integrare i beni prodotti all’interno dei territori statali attraverso attività di scambio con l’esterno.

Entrambe queste categorie sorgono di solito rispetto alle altre in un secondo momento, costituendo un avanzamento dell’organizzazione dello stato dalla sua fase primitiva (ancora basata integralmente sullo sfruttamento della popolazione agricola) in una in cui viene dedicata maggiore attenzione allo sviluppo delle capacità tecniche e di approvvigionamento. In tutti gli Stati asiatici, queste due categorie vengono almeno inizialmente strettamente controllate dallo stato, alle volte attraverso l’intermediazione delle caste sacerdotali (che agiscono appunto in veste di rappresentanti del sovrano e delle divinità).

Ma la nascita delle città implica anche la separazione tra le campagne (luoghi di lavoro e di creazione dei beni primari o di sussistenza) e le città (luoghi di amministrazione delle campagne, direttamente dipendenti dal sovrano; di attività economiche e produttive "superiori"; delle attività spirituali e religiose). E le seconde, in quanto guida delle prime (oltre che per il fatto di essere espressione della volontà divinizzata del sovrano), vivono essenzialmente dei beni sottratti ad esse.

Inoltre, si deve notare che l’appropriazione da parte dei centri urbani dei beni delle campagne circostanti è un fatto sostanziale, ma non giuridico o formale: tali beni sono e restano difatti secondo la legge una proprietà del sovrano, dal quale tuttavia vengono poi in gran parte ridistribuiti come mezzi di sostentamento alle città stesse.

La proprietà dunque, da collettiva qual era nel periodo delle comunità di villaggio separate, diviene ora proprietà regia. Il sovrano è infatti giuridicamente l’unico proprietario dei beni contenuti nello stato, sui quali peraltro detiene anche un potere decisionale assoluto.

LA NASCITA DEI POTERI PRIVATISTICI (NELLE CITTÀ E NELLE CAMPAGNE)

Ma quanto si è appena detto – sin dai primi periodi, in realtà, valido in buona misura solo teoricamente – diviene col passare del tempo e con l’evoluzione delle società sopra descritte, sempre meno rispondente alla realtà dei fatti.

I poteri funzionariali locali infatti tendono progressivamente (a causa soprattutto della distanza fisica che li separa dal potere centrale) a emanciparsi dalla guida del sovrano, diventando in tal modo sempre più indipendenti e autonomi da esso. E ciò anche se – come meglio mostreremo nel prossimo paragrafo – solo molto raramente una simile tendenza giunge alle sue estreme conseguenze, ovvero alla nascita di sottostati nello stato, quando non addirittura alla disgregazione di esso in Stati formalmente indipendenti.

Dall’altra parte, coloro che nelle città svolgono le attività commerciali e artigianali, tendono a loro volta a emanciparsi dall’autorità e dalla tutela dei loro diretti superiori, ovvero di quei potentati locali cui almeno all’inizio debbono rendere totalmente conto del proprio operato e consegnare i proventi delle proprie attività. Anche un tale processo – al pari di quello appena descritto – è dovuto alla difficoltà delle autorità superiori a esercitare un controllo reale sui gruppi sottoposti, specialmente da che le attività di questi ultimi iniziano ad assumere un maggior grado di complessità.

La rigida piramide sociale fondata sul funzionariato e sulle caste, ovvero su una rigorosa subalternità di ogni strato sociale ai propri superiori (quindi in ultima analisi all’autorità del sovrano), conosce con queste trasformazioni un’attenuazione. Ha così inizio, in seno alle stesse società a modo di produzione asiatico, un processo di emancipazione che porterà al sorgere di poteri privatistici e particolaristici, dotati di una certa autonomia rispetto a quelli statali.

Anche la proprietà, da integralmente statale, diviene col tempo almeno in parte indipendente dal sovrano – o comunque meno rigidamente sottoposta al suo controllo.

Se quindi da una parte i poteri territoriali (sia satrapici sia sacerdotali) tendono a porsi come autonomi gestori delle terre che cadono sotto la loro giurisdizione, pur dipendendo ancora per molti aspetti dal sovrano – dall’altra le caste di commercianti e di artigiani iniziano un processo di trasformazione che, da funzionari integralmente guidati e controllati dallo stato, li porta a divenire sempre più liberi imprenditori, capaci di accumulare ricchezze attraverso attività di scambio autonome private (spesso peraltro basate sul baratto).

Mentre quindi nelle campagne tende a svilupparsi il feudalesimo (si intenda con ciò un frazionamento delle terre statali in sotto-regni autonomi nelle mani di potentati locali, ovvero di casate nobiliari i cui membri si trasmettono ereditariamente il governatorato – in modo simile a quanto accadeva nella società feudali europee), nelle città si sviluppano invece l’industria e il commercio privati.

È chiaro altresì che, come nel medioevo europeo, anche in queste società i poteri commerciali e imprenditoriali urbani continuano a dipendere almeno in un certo grado da quelli locali (satrapici) e da quelli statali (regi), rimanendo così incastrati (embedded) in essi e da essi quindi fortemente condizionati e limitati.

Tuttavia non si devono nemmeno sottovalutare le possibili trasformazioni delle attività privatistiche cittadine, capaci spesso di sviluppi di carattere già pienamente capitalistico, attraverso un utilizzo sistematico del lavoro salariato e di strumenti finanziari e creditizi simili a quelli moderni. (Come testimoniano le grandi aristocrazie mercantilistiche arabe, persiane, accadiche ecc., dotate di vasti poteri economici e capaci di esercitare notevoli influenze sui poteri statali).

RESISTENZE DEL "M.P.A." NEL FEUDALESIMO ASIATICO

Certo, è anche vero che, seppure di capitalismo si può talvolta parlare, deve essere chiaro che una tale forma di organizzazione economica rimane pur sempre un settore marginale (essenzialmente urbano) all’interno di società che – come abbiamo già detto – possiamo definire al contempo feudali e asiatiche, per il fatto di contemplare in se stesse i caratteri tipici di entrambe queste organizzazioni socio-economiche.

Le attività mercantili di tipo privatistico (poiché infatti, come si è detto, esiste – ed è anzi precedente – anche un mercantilismo gestito dall’alto e attuato attraverso l’opera di funzionari di stato) ricoprono di solito in tali contesti un ruolo cruciale, ma che resta pur sempre piuttosto marginale rispetto al complesso delle attività economiche.

Se perciò – come si è appena mostrato – nel feudalesimo asiatico si creano condizioni simili a quelle che, in quello europeo, hanno dato luogo a sviluppi di carattere pienamente capitalistico (ovvero al sorgere di una società pressoché interamente basata su stili economici capitalistici), è naturale chiedersi cosa manchi in esso perché possa avervi luogo uno sviluppo di segno analogo a quello europeo. In altri termini, sorge spontanea questa domanda: perché la società capitalista moderna non si sviluppa autonomamente (bensì essenzialmente come un prodotto dovuto all’influenza culturale e politica occidentale) anche negli stati a feudalesimo asiatico?

A giudizio di chi scrive, la ragione di fondo di questa diversità risiede soprattutto nel fatto che le tradizioni funzionariali asiatiche, pur attenuandosi effettivamente nel corso del tempo – peraltro in seguito a processi storici variabili per modo e intensità da luogo a luogo – non vengono comunque mai del tutto smantellate. Il che implica, rispetto alle società europee e occidentali, l’esercizio di un maggior controllo sull’imprenditoria privata (sia urbana, sia agricola) da parte del sovrano e dei poteri locali. Proprio per tale motivo, le classi commerciali e artigiane, principali depositarie di una concezione dell’economia di stampo mercantilistico e spesso para-capitalistico, non possono conoscere qui uno sviluppo equiparabile a quello europeo.

Una tale "zavorra" ideologica e istituzionale infatti – presente chiaramente anche nelle società feudali europee, seppure in forme decisamente più blande – impedisce il dispiegamento della mentalità razionalistica e affaristica (desembedded) tipica di ogni borghesia urbana, a livelli simili a quelli caratterizzanti la storia d’Europa a partire soprattutto dalla fine del Medioevo. In quest’ultimo contesto perciò, l’imprenditoria cittadina e i fenomeni ad essa annessi – in primo luogo e soprattutto, l’avanzamento delle tecniche produttive, risultato tanto dell’esigenza di un incremento della produzione di mercato, quanto della mentalità razionalistica e utilitaristica diffusa tra tali classi – conoscono uno sviluppo molto superiore rispetto alle corrispondenti società asiatiche, con tutte le conseguenze del caso.

La grande produzione seriale (industriale o comunque già manifatturiera) di tipo europeo, la cui caratteristica essenziale è di riversare immani quantitativi di merci sui mercati nazionali e internazionali, e i cui introiti arricchiscono a tal punto la classe produttrice da permetterle in un secondo momento di acquistare e riconvertire a stili di carattere capitalistico gran parte dei territori agricoli avviando in tal modo la trasformazione capitalistica dell’intera società, non riesce qui a svilupparsi – quantomeno in modo altrettanto virulento e radicale che in Europa!

Un analogo discorso va poi fatto per gli strumenti finanziari, laddove si consideri ad esempio l’assenza di istituzioni quali la Borsa o i Grandi istituti di credito europei. La mancanza di questi e altri potenti strumenti di crescita del capitale finanziario fa sì che quello capitalistico, nonostante i suoi indubbi sviluppi, rimanga un settore pur sempre minoritario nell’organizzazione economica complessiva di tali società.

Tutte queste osservazioni rendono chiaro il motivo per cui le società a feudalesimo asiatico non conoscono sviluppi privatistici e capitalistici analoghi a quelle europee, decisamente meno gravate rispetto ad esse dalla presenza di caste dotate di poteri direttivi sulle attività private, e in cui di conseguenza queste ultime possono svilupparsi con intensità molto maggiore.

Nel feudalesimo asiatico, viceversa, l’economia agricola finalizzata al consumo resta sempre (seppure spesso in modo non del tutto schiacciante) preponderante su quella di mercato, e con essa il grande latifondo e la piccola proprietà indipendente (allodio) sulle imprese capitalistiche o proto-capitalistiche. La nascita di grandi poteri finanziari e di grandi industrie finalizzate al profitto commerciale resta quindi fondamentalmente estranea a tali contesti, e con essa la possibilità di una conversione dell’intera economia a stili di tipo capitalistico.

Le città rimangono allora tendenzialmente le uniche isole in cui si pratica un’economia interamente (o quasi) di mercato, alle volte inoltre – come si è detto – già caratterizzata dall’impiego diffuso della moneta e di vari strumenti creditizi, nonché di lavoro libero e salariato.

IPOTESI SULLA NASCITA E SULL’AFFERMAZIONE DELLA MONETA
"MONETA" E "DANARO ", UNA DISTINZIONE PRELIMINARE

Distingueremo qui avanti "danaro" e "moneta", dando al primo termine il significato generale di strumento di pagamento, oltre che quello – ancora precedente – di misura o quantificazione del valore universale dei singoli beni; al secondo invece il senso di istituzionalizzazione del primo, ovvero di riconoscimento della sua esistenza da parte dello stato, il che significa appunto sul piano giuridico.

Il danaro, benché non sia sempre esistito, ha sicuramente preceduto di molto la nascita della moneta. Né sarebbe facile demarcare la fase dello scambio inteso come semplice baratto da quella basata sul danaro. E ciò in particolare qualora quest’ultimo non venga inteso come un oggetto fisico concretamente utilizzato per effettuare gli scambi o i pagamenti, ma come un’astratta unità di misura (ex. una determinata quantità di terra coltivabile, un animale utile per il sostentamento…) attraverso cui quantificare il valore degli oggetti.

D’altronde, da che il danaro inizia ad essere concretamente utilizzato per gli scambi e i pagamenti, acquisendo una natura fisica e tangibile, assume dei connotati specifici. Il danaro "contante" infatti, deve non soltanto rappresentare una determinata quantità di valore economico, ma essere anche dotato di un valore incontestabile che, per esempio, dia all’atto di cedere per esso un oggetto di valore immediato, un senso razionale legato all’aspettativa di ricavarne oggetti di valore pari o superiore a quello precedentemente posseduto.

Per questa ragione, il danaro come oggetto fisico (e non solo ideale) è di solito costruito con materiali il cui valore universale deriva da caratteristiche di rarità che li rendono particolarmente preziosi: cosa peraltro ben dimostrata dal fatto che, da sempre, metalli come l’argento e l’oro si prestino a divenire la "materia prima" alla base del danaro.

Prima ancora della nascita degli Stati inoltre, già i singoli individui, le singole famiglie e i singoli villaggi praticavano lo scambio di beni con altri beni, di solito commisurati tra loro quanto a utilità e valore.

Dal momento che il presupposto di ogni scambio è che colui che cede un bene per un altro ne sia (o lui direttamente, o comunque colui per il quale effettua la mediazione) il proprietario, ne consegue che il concetto di proprietà precede l’idea di proprietà statale o regia (si veda a questo proposito, il precedente articolo sul modo di produzione asiatico), che ne costituisce difatti un’estrinsecazione, una propaggine sorta col sorgere dello stato nelle sue forme più primitive e dell’idea, a esso connessa, di proprietà universale dei beni da parte del sovrano.

Né la nascita dello stato nella sua forma "asiatica", in cui appunto il sovrano è proprietario unico di tutti i beni, riesce a cancellare la pratica diffusa degli scambi commerciali tra singole persone, famiglie o villaggi e l’uso del danaro (qualsiasi ne sia la forma e il grado di sviluppo), quindi l’idea della proprietà dei beni da parte di persone o enti non coincidenti con lo stato stesso. Certo, è ragionevole credere che una tale trasformazione abbia ridotto il volume degli scambi privati in favore di un’economia, di tipo statalista, in cui essi (e più in generale l’allocazione delle ricchezze) sono controllati dallo stato stesso – che ne è peraltro il primo e supremo beneficiario. Ma questo non significa che le attività commerciali extra-statali scompaiano dall’oggi al domani con il sorgere dello stato nella sua forma primitiva. All’ombra dei poteri e dei commerci di stato, infatti, in forma tollerata o più semplicemente ignorata, dato il volume irrisorio delle ricchezze circolanti, la proprietà e gli scambi privati continuano a esistere, e con essi la possibilità di un’accumulazione privata di ricchezze.

In conclusione, il danaro come strumento per le transazioni e i pagamenti non fu – anche nelle fasi primitive dello sviluppo statale – utilizzato soltanto dallo stato, ma anche da privati cittadini o da singoli gruppi d’interesse, che come tali erano o si sentivano proprietari in prima persona dei propri beni. La proprietà privata (o comunque non statale) continuò dunque ad esistere anche negli stati a "modo di produzione asiatico" senza poter essere – se non nella forma, quantomeno nella sostanza – cancellata dalla loro nascita.

L’AFFERMAZIONE DELLA MONETA IN SENO AGLI STATI ASIATICI
E LA LORO CONSEGUENTE EVOLUZIONE

Come si è visto, anche lo stato, per i suoi traffici internazionali, si serviva spesso del danaro (e ciò anche se molti scambi internazionali avvenivano nella forma di "doni e controdoni" tra i rispettivi sovrani). Ciò non implica però che tale strumento avesse già acquisito i caratteri propri della moneta, vale a dire del vero e proprio conio.

Sorge allora la domanda su quali fattori – anche considerando che il danaro era un valido strumento (per quanto senza dubbio imperfetto) per le transizioni commerciali e in genere per il trasferimento della ricchezza – portarono alla nascita della moneta. In realtà essa (almeno nel Vicino Oriente) non fu il prodotto di una scelta o di un calcolo preventivato, bensì il risultato di un processo lungo, tortuoso e in massima parte involontario.

All’origine di questo nuovo "tipo di danaro", cioè la moneta coniata dallo stato, vi fu probabilmente l’usanza da parte di quest’ultimo, nella veste dei suoi funzionari, di rilasciare delle specie di "cambiali" per il pagamento di prestazioni lavorative fornite da individui specifici. In qualità di proprietario unico dei beni sul proprio territorio infatti, il sovrano aveva il diritto di elargire questi ultimi, tramite i suoi funzionari, a chi voleva, cosa che spesso faceva in cambio di favori ricevuti o di lavori eccezionali.

Queste "cambiali", dunque, davano accesso a una certa quota di ricchezza a coloro che le possedevano (si ricordi, a tale proposito, che lo stato si appropriava di buona parte del surplus prodotto dai sudditi, e lo custodiva in appositi magazzini pubblici distribuendolo poi secondo il proprio arbitrio ai membri della comunità). Proprio per tale ragione queste cambiali divennero col tempo uno strumento di scambio e di pagamento anche tra i privati cittadini, in quanto intrinsecamente legate a una ricchezza reale, a un reale valore d’uso.

Ma queste "cambiali" (che potevano avere la forma di pezzi di metallo su cui lo stato aveva impresso il proprio sigillo) non erano ancora moneta in senso proprio. Infatti, esse presupponevano ancora la proprietà assoluta dei beni da parte del sovrano, in quanto concessioni che questi faceva di una certa quantità della propria ricchezza ad alcuni individui particolari.

In questa prima forma dunque, la moneta era ancora un mezzo di prelevamento di una parte del patrimonio statale da parte di singoli individui. Il concetto (giuridico-formale) di proprietà privata non si era dunque ancora sviluppato.

Ciononostante esistevano già, al tempo, sia dei grandi poteri territoriali (detti satrapici) in buona misura svincolati dall’autorità del sovrano sia, in conseguenza dello sviluppo delle attività produttive e di mercato, cospicui patrimoni privati, alle volte composti anche da quote di "monete statali". Insomma, la società e l’economia avevano già, in modo sostanziale seppure non formale, assunto una dimensione parzialmente privatistica.

Fu solo al termine di un processo molto lungo e tortuoso che lo stato giunse a riconoscere la realtà di questi aspetti strutturali della società. E fu forse in tale contesto che la moneta si trasformò in uno strumento di scambio utilizzato non solo tra i sudditi ma anche tra i sudditi e lo stato. Il sovrano infatti, poteva ora acquistare da questi ultimi beni (e servizi) di cui essi erano legittimi proprietari e al tempo stesso vendere loro attraverso i mercati i propri beni. E la moneta, oltre che uno strumento di pagamento ufficiale, diveniva il sanzionamento ufficiale di questa nuova condizione.

Lo Stato, da proprietario unico, diveniva in tal modo proprietario soltanto di una parte (per quanto certo non marginale) dei beni contenuti nei propri confini, ponendosi così rispetto al passato su un piano di (maggiore) parità con i privati cittadini. Certo, gli enormi privilegi di cui esso tradizionalmente era dotato perduravano ancora, ma all’interno di un assetto giuridico nuovo, che li limitava.

Alla luce di quanto si è mostrato, possiamo allora dire che, anche dopo che fu superata la fase più arcaica dell’organizzazione produttiva, gli Stati asiatici rimasero ancorati a un’organizzazione dispotica del potere, nella quale la burocrazia, gli eserciti e in genere i poteri funzionariali e dirigistici dello stato godevano di una grande, seppure come si è detto non più del tutto illimitata, capacità di dominio sul resto della società.

Infine, una domanda: perché il danaro, se davvero era uno strumento valido per assolvere alle funzioni per cui era sorto, finì col tempo per essere – almeno in parte – sostituito dalla moneta? Quali fattori o vantaggi concreti portarono a tale risultato?

Anzitutto bisogna ricordare che anche in Europa, dove la moneta conobbe di solito un più ampio sviluppo, in conseguenza della maggiore diffusione delle attività affaristiche e imprenditoriali rispetto ai paesi extra-europei, per moltissimo tempo gli scambi e i pagamenti soprattutto spiccioli rimasero basati sul baratto o comunque su forme premonetari. La maggior parte delle transazioni insomma continuò a svolgersi in forme ancora "informali". Quanto ai vantaggi forniti dalla moneta, essi furono molto probabilmente legati a una maggiore precisione come unità di misura (poiché, creato attraverso stampi, ogni esemplare era più o meno identico agli altri) nonché a una maggiore affidabilità per i contraenti (a meno di falsi infatti, il valore della moneta non poteva essere messo in discussione).

Ma soprattutto, fu l’autorità dello stato a imporre dove poté l’uso di questo nuovo strumento finanziario. Esso infatti era uno dei segni tangibili della sua sovranità su un determinato territorio, oltre che della propria influenza su quelli circostanti. Presto inoltre – come del resto avviene anche oggi – la diffusione di un dato tipo di moneta in una certa area geografica finiva per favorire gli scambi all’interno di tale area, limitando così la dispersione della ricchezza verso l’esterno: un fattore ritenuto vantaggioso sia dallo stato (che riscuoteva le tasse sui proventi delle varie attività economiche) che dalle comunità locali.

Per queste e altre ragioni, la moneta si affermò sempre più col passare del tempo come mezzo di scambio e di pagamento, arrivando, se non a eliminare, quantomeno a limitare l’uso degli strumenti precedenti.

Lo stato poi, se da una parte rinunciava a porsi come unico proprietario dei mezzi produttivi e dei beni prodotti sul suo territorio, dall’altra finiva – anche attraverso la moneta – per pervadere e controllare sempre di più le attività economiche che si svolgevano al suo interno, consolidando così il proprio potere di condizionamento dell’esistenza dei privati cittadini.

Né deve ritenersi un caso il fatto che la moneta, nata in un contesto asiatico e statalista quale era la Lidia del VII secolo a. C., si diffuse presto, attraverso le influenze culturali e commerciali, nei vicini stati occidentali, la Grecia e le sue colonie, dove conobbe un più potente sviluppo a causa, come già di diceva, del maggior rigoglio delle attività urbane e di scambio in esse rispetto al Vicino Oriente.

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Adriano Torricelli - Homolaicus - Contatto - Sezione Economia


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Aggiornamento: 12/09/2014