SULL'ORIGINE DELL'UOMO

IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE


SULL'ORIGINE DELL'UOMO E SULLA SUA EVOLUZIONE

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Venti miliardi di anni non è forse un tempo sufficiente per credere nell'eternità della materia? Perché quindi parlare di "vuoto assoluto"? O forse per evitare di credere che all'origine dell'universo vi sia stato un dio, abbiamo bisogno di un tempo ancora più lungo?

Noi non riusciamo a ricordare cosa abbiamo fatto il giorno prima e ci intestardiamo nel sostenere che all'origine del big bang vi è un dio. Che differenza fa sapere con certezza che vi è stato un dio o che la materia s'è creata da sola? Non sono forse entrambe le cose del tutto al di fuori della nostra portata mnemonica?

Noi siamo certi di aver avuto un'origine solo perché ci fidiamo delle dichiarazioni di chi ci ha messo al mondo, cioè compiamo un atto di fede nei confronti dei nostri genitori, i quali a loro volta ne hanno compiuto uno identico nei confronti dei loro genitori e così via, ma se non ci avessero detto nulla, noi avremmo anche potuto credere di non essere mai nati, cioè di essere sempre esistiti. Nessuno avrebbe potuto smentirci. Quando ingenuamente si credeva di essere stati portati dalla cicogna o di essere nati sotto il cavolo, non si era meno lontani dalla verità.

Il fatto che dopo la comparsa dell'essere umano non sia nato un essere ancora più complicato e perfetto, cosa deve farci pensare? Semplicemente che l'uomo non è solo una sintesi dell'intero universo, ma una sintesi suprema e ineguagliabile.

Si può dunque ipotizzare che all'origine dell'universo vi sia qualcosa di analogo all'essenza umana, qualcosa che ha subìto un processo evolutivo e che ha generato un prodotto identico a sé (a sua immagine e somiglianza), appunto l'essere umano, che è in grado di rispecchiarsi in ciò che l'ha generato.

L'essere umano (che è duplice, in quanto composto di maschile e femminile) ha generato se stesso, in un processo materiale (energetico), i cui elementi costitutivi non ci sono ancora del tutto chiari, ma che sicuramente, per la parte immateriale, riguardano la libertà di coscienza.

La composizione della materia possiede elementi infiniti e quelli che noi attualmente conosciamo sono soltanto una piccola parte. Potremmo anzi dire che uno degli elementi fondamentali della materia è la coscienza, che è quanto di più immateriale esista. Volendo potremmo rappresentarci l'antimateria soltanto come coscienza, anche se non riusciamo a sapere fin dove essa sia in grado di arrivare.

Ora affrontiamo l'origine della specie umana in termini evoluzionistici. Per quale motivo dobbiamo pensare che l'evoluzione dell'uomo sia avvenuta dall'Australopiteco all'Homo habilis? E se l'Australopiteco fosse un'involuzione dell'Homo habilis?

Noi pensiamo sempre a una linea progressiva dal semplice al complesso, dal primitivo al civilizzato, e non pensiamo mai all'ipotesi che in origine sia esistito un essere umano normale, che non era affatto vicino alla scimmia, e che ha assunto elementi spiccati o marcati (come il colore della pelle, la forma degli occhi, del naso ecc.) solo dopo essere emigrato dal territorio in cui s'era formato: così in Africa ha sviluppato la pelle nera, in Europa quella bianca, in Asia quella gialla ecc.

Perché negare a priori l'idea che in origine sia esistito un luogo in cui l'uomo e la donna non erano né bianchi, né neri, né gialli, ma p.es. olivastri, aventi cioè una pelle scura ma non scurissima, con capelli ondulati ma non ricci, e così via. Col tempo si sono accentuate alcune caratteristiche a scapito di altre, rispecchiando le esigenze dei territori che si volevano abitare. L'essere umano originario è forse una via di mezzo che ha subìto delle modificazioni unilaterali a causa dell'uso della propria libertà di coscienza.

Se ci pensiamo bene, la selezione naturale, per quanto riguarda la specie umana, si applica soltanto in riferimento alla nostra capacità riproduttiva, nel senso che una popolazione tende a scomparire se non si riproduce entro determinati parametri, viene cioè ad essere assorbita da quelle più prolifiche. Infatti che una civiltà basata sulla scrittura si sostituisca a una basata sull'oralità non può essere considerato un fenomeno "naturale", e non c'è niente di "evolutivo" nel fatto che una civiltà basata su scienza e tecnica prevalga su una basata sull'autoconsumo e sul rispetto dell'ambiente.

Oggi, là dove certe popolazioni si riproducono poco, si cerca d'intervenire con mezzi meccanici, ma i risultati artificiali che si ottengono sono molto modesti e sicuramente insufficienti rispetto alla gravità del problema. Se la riproduzione non si verifica in maniera naturale, la scienza non è in grado di supplirvi a vasto raggio: può soltanto intervenire su singoli casi e con risultati che comunque non risolvono il problema della denatalità e dell'invecchiamento della popolazione.

Anzi, ogniqualvolta si parla di selezione che vada oltre la riproduzione naturale, si deve intendere qualcosa che, nella propria artificiosità, può risultare anche pericoloso, come furono pericolosi gli esperimenti di Mengele sui gemelli. I gemelli vanno considerati un problema della società non una soluzione alla denatalità. Basta vedere cosa Mengele fece non solo nei lager nazisti ma anche in Sudamerica, dove riuscì a far partorire molti gemelli con occhi azzurri e capelli biondi.

UNIVERSO, TEMPO E CAOS

Nell'universo (ma sarebbe meglio dire nel "nostro universo") esistono due fasi che si alternano continuamente: quella caotica (o disordinata) e quella cosmica (o ordinata), secondo tempi per noi impensabili sulla terra (l'attuale fase di espansione, p.es., sta viaggiando a oltre tre milioni di km l'ora).

Vi è molto più caos, cioè nucleo materico-energetico ipercompresso e buio, di quanto non si pensi: gli scienziati parlano di almeno l'80%. Quanto dell'universo riusciamo a conoscere è solo un'infinitesima parte dell'intera materia e anti-materia.

Ma il termine "caos" può generare equivoci, benché risulti prevalente negli studi degli scienziati contemporanei. Spesso infatti viene usato per dimostrare che non esiste alcun creazionismo teo-onnipotente e, così facendo, si finisce col sostituire un dio che-sa-quel-che-fa, con una natura che, vivendo in una condizione primordiale di assoluta indeterminatezza, non-sa-quel-che-fa. Questo perché si teme che il voler attribuire alla natura un'eccessiva intelligenza comporti il rischio di cedere posizioni alle cosmogonie religiose. In realtà la natura, di cui l'essere umano è parte organica, non ha bisogno di alcun dio, avendo in sé ogni elemento (razionale) per legittimarsi.

Sarebbe comunque meglio chiamare questi agglomerati iperdensi col termine di "incipienti", semplici potenzialità inespresse, che attendono di esplodere (ma si potrebbe dire anche "essere inseminate o fecondate", che sarebbe lo stesso).

Quello che chiamiamo "universo" è soltanto una delle realtà espresse, uno degli spazi che si allarga di continuo, fino al punto in cui, presumibilmente, sarà costretto a comprimersi o contrarsi, come una sorta di ventre materno in atto di partorire. Tutta la creazione è una specie di impollinazione. E il fatto che queste cose noi le possiamo quotidianamente constatare sul nostro pianeta, è la dimostrazione più lampante che microcosmo e macrocosmo per molti versi coincidono.

Di tutto l'universo noi non sappiamo se quello che vediamo sia l'unica realtà espressa e neppure sappiamo se il nostro universo sia l'unico possibile. Noi sappiamo soltanto che là dove c'era "densità" ora c'è "espansione"; là dove dominava il buio, ora impera la luce.

Non possiamo dire che "qualcuno" ha creato qualcosa. Però possiamo dire che "qualcosa" si è creata. Potremmo addirittura usare l'espressione "autocreata", in quanto noi esseri umani non abbiamo la percezione di avervi contribuito.

Non sappiamo il motivo di questa "autocreazione", ma possiamo immaginarlo. "Creare" vuol dire "esprimersi", "comunicare", dirsi facendo, dirsi - in particolare - a qualcuno in grado di capire, di apprezzare il risultato (che si suppone intenzionale e non casuale). Non ha senso comunicare qualcosa a chi non sarebbe in grado d'intenderla.

Se però questa ipotesi è vera, allora bisogna dedurre che all'origine dell'universo vi sia qualcosa di "umano" e che questo qualcosa abbia avvertito, ad un certo punto, il bisogno di comunicarsi, come se esistesse una sorta di "malinconia indeterminata" che cerca qualcosa al di fuori di sé.

Di qui l'idea, giustissima, che si applica all'universo, per capirne le leggi, di unità degli opposti. La migliore riproduzione di sé (la creazione è in fondo un atto generativo) non è la clonazione (la copia identica di se stessi), ma la relazione con altro da sé. Questo porta a escludere che all'origine di tutto vi possa essere un'individualità isolata, un unicum onnipotente e onnisciente e assolutamente perfettissimo. In origine non vi è l'uno ma il due, cioè un'opposizione produttiva, anzi riproduttiva, poiché la creazione non è solo qualcosa di artistico, di materiale, di scientifico, ma anche di sensuale, di emotivo e di passionale insieme.

Sotto questo aspetto dovremmo rivalutare, in chiave laica, la differenza che la teologia pone tra "creare" e "generare". All'origine della creazione vi è forse un atto simile alla "generazione" o, se si vuole, alla "copulazione" tra esseri che si attraggono irresistibilmente, pur restando diversi nella loro essenza. E' come se l'universo fosse stato "inseminato" da un agente esterno, che lo ha fatto uscire dalla propria latenza e diventare dinamico.

I monaci cristiani parlavano di "logos spermatikos", che tutto feconda, e lo stesso Paolo, nelle sue lettere, parla di creazione che soffre le doglie del parto. In sostanza è come se vivessimo all'interno di un sacco amniotico, la cui fase espansiva ha un tempo determinato.

La creazione è insita nell'universo. Non si è creato l'universo, ma ciò che vi è contenuto. Quando noi parliamo di universo tendiamo a non fare distinzione tra contenuto e contenitore, semplicemente perché non riusciamo a immaginarci un contenitore assolutamente vuoto. Ci apparirebbe insensato (nell'antichità lo definivano "horror vacui").

Eppure, se in principio non era vuoto, di sicuro non era così pieno come noi ora lo vediamo. Noi non sappiamo come in questo contenitore sia avvenuta un'esplosione che l'ha riempito di contenuto. In origine doveva esserci una materia-energia molto densa, un nucleo che ad un certo punto è esploso. Perché? Aveva raggiunto temperature molto elevate? E' esploso da solo? o vi ha contribuito un elemento esterno?

Con un certo margine di approssimazione gli scienziati sono in grado di datare il momento dell'esplosione, e subito dopo, inevitabilmente, si chiedono: "Perché non prima?". Cioè il fatto di supporre una data, ancorché molto approssimativa, ci porta a credere in un inizio, e quindi a negare l'infinità dell'universo.

In realtà noi ipotizziamo una data solo per il contenuto dell'universo, non per il contenitore. L'attuale fase di espansione, cui siamo soggetti, è parte in causa di una certa configurazione dell'universo-contenitore (che riusciamo a vedere). Ma essa non significa affatto che non possano esistere altre configurazioni o altri universi o altre potenzialità esplosive. Se siamo come un feto nel ventre di una madre, è evidente che la configurazione di universo che in questo momento possiamo osservare è un nulla a confronto di quella che ci attende. Il feto ha una percezione assolutamente vaga di ciò che può esistere oltre la placenta.

La cosa che più stupisce è che noi esseri umani del pianeta Terra siamo al momento, per quanto ci consta, gli unici che ci poniamo domande sul senso dell'universo: come se volessimo guardare cosa c'è al di fuori del "contenitore". Tutte queste domande "meta-fisiche" sono in un certo senso equivalenti alla posizione cefalica del feto: ci stiamo mettendo nell'ordine di idee di dover uscire dal nostro contenitore.

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Forse dovremmo cercare di capire meglio il concetto di "caos". Quand'è che si ha una situazione caotica? Quando è fuori controllo, diciamo. P.es. se tutti i semafori stradali si spegnessero improvvisamente nello stesso momento, avremmo migliaia di incidenti, il caos urbano più assoluto. Il caos è la mancanza di regole, quando queste sono indispensabili per far funzionare un certo meccanismo o una certa azione. Tuttavia, nella fattispecie (la circolazione degli autoveicoli), verrebbero violate delle regole su cui ci sarebbe molto da discutere, poiché un eccessivo inurbamento della popolazione è cosa del tutto innaturale. Un caos provocato da regole non rispettate che, in ultima istanza, sono assurde, non è un caos che ci può interessare.

Prendiamo ora le centinaia di tessere di un puzzle da costruire. Ci si presentano in maniera del tutto caotica e solo con molta pazienza, logica, intuito e un pizzico di fortuna riusciremo a metterle insieme tutte quante, nessuna esclusa, proprio perché sappiamo che sono tutte necessarie alla realizzazione dell'immagine. Quando l'avremo fatto però, dopo un po' il puzzle ci verrà a noia, in quanto l'immagine ricomposta sarà sempre quella.

Il caos delle singole tessere non può essere considerato particolarmente creativo. Lo sarebbe solo a una condizione, che il puzzle, dopo un certo tempo, si frantumasse in nuove mille tessere, ancora più difficili da ricomporre e ciò al fine di creare un'immagine completamente diversa. Ma nessun puzzle, con le stesse tessere, sarebbe in grado di fare una cosa del genere.

Noi però sappiamo che per non annoiarci, abbiamo bisogno di una retroazione o di un feedback che modifichi le stesse condizioni di partenza. Sotto questo aspetto anche gli incidenti automobilistici, dovuti all'improvviso spegnimento dei semafori, potrebbero essere visti come un fenomeno positivo, se ci portassero a riflettere sugli aspetti assurdi delle nostre città.

Noi abbiamo bisogno di un tipo particolare di caos, qualcosa che dalla complessità ci riporti alla semplicità e che però ci permetta nuovamente di accedere alla complessità, ovviamente sulla base di una nuova consapevolezza delle cose. Ci vuole un caos non disordinato, ma intelligente, di tipo psico-pedagogico: un caos che ci faccia capire che oltre un certo limite si rischia il "non-essere", la perdita di identità umana, e che, per questo motivo, ci obblighi a tornare alla semplicità primordiale, tenendo conto però del nostro vissuto.

Il caos non può essere qualcosa privo di significato, non può essere una mente impazzita che va sedata o un virus che va debellato, un antagonista che, come in certi film di fantascienza, viva al di là del bene e del male. Il caos primordiale deve porsi come qualcosa di positivo, capace di ricondurci all'essenzialità quando ci perdiamo nei labirinti delle nostre voragini mentali, che sono sempre frutto di un uso arbitrario della libertà di coscienza.

Dovremmo riflettere di più sul fatto che la vecchiaia è un ritorno all'infanzia. Quando siamo anziani torniamo ad essere come bambini, ma con una coscienza da adulti. Che significato etico può avere questo processo? Cosa ci vuole insegnare la natura? E' come se l'universo fosse fatto di assoluta innocenza primordiale, che, in nome della libertà di coscienza, può diventare qualunque cosa, salvo poi rendersi conto che l'unica cosa davvero importante è quella di sentirsi "innocenti".

Dunque il caos primordiale, che si autorigenera continuamente, deve essere fatto, insieme, di innocenza e di libertà di coscienza, un po' come descritto nel racconto del Genesi, dove però la parola "dio" è andata a sostituire quella di "comunità ancestrale".

L'essere (o l'essere se stessi) non è altro che questa esistenza innocente vissuta secondo coscienza, un appagamento maturo, consapevole, adulto, in grado di recuperare una dimensione fanciullesca (così bene descritta nella poetica del Pascoli).

La storia dell'universo, il suo tempo, non è che la storia di un'innocenza di cui si deve prendere coscienza sulla base della propria esperienza. Ecco perché non possiamo già nascere adulti. Noi, spontaneamente, nasciamo innocenti, per ridiventarlo consapevolmente, dopo aver affrontato e superato tutto ciò che ce lo impediva.

Anche le religioni, quando parlano di "redenzione universale", di "vittima sacrificale", di "remissione dei peccati"... sono sulla stessa lunghezza d'onda: il loro problema è che parlano di queste cose non per emancipare gli uomini, ma per tenerli sottomessi. Non dobbiamo tuttavia buttare il bambino con l'acqua sporca: se si elimina la nozione di "dio", molte cose delle religioni possono essere recuperate (si pensi p.es. all'idea di "apofatismo", di "diarchia o sinfonia", di "kenosis", di "perichoresis", di "theosis" e ai tanti concetti della teologia palamitica).

Le tentazioni che, quando vi cediamo, ci rendono colpevoli di qualcosa, sono soltanto una perdita di tempo. La nostra fortuna è che il tempo per rimediare, essendo eterno, non ci può essere tolto da nessuno. Parlare di "inferno eterno", come fosse una condanna impostaci dall'esterno, è semplicemente un'aberrazione, un'idea contronatura. La religione si renderà conto delle proprie assurdità soltanto quando sarà posta di fronte a un umanesimo laico di molto superiore.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018