UNIVERSO O PLURIVERSI?

IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE


UNIVERSO O PLURIVERSI?

1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11

Quando parliamo di "universo" intendiamo, inevitabilmente, quello che riusciamo a percepire, a osservare, ma ciò non può significare che non esistano altre "dimore". In tal senso quando parliamo di "big bang", dovremmo intenderlo riferito solo a quella parte di universo in cui la nostra e altre galassie sono contenute: noi non possiamo sapere se questa parte di universo sia una semplice porzione di un tutto ben maggiore.

La porzione di universo in cui viviamo, in seguito a quell'esplosione primordiale, è indubbiamente in fase di espansione, ma noi non sappiamo se altri universi non abbiano questa medesima caratteristica. Il cosiddetto "universo" è come un pozzo senza fondo.

Per quale motivo noi dovremmo avere la pretesa di negare infinite alterità cosmiche? E, soprattutto, per quale ragione noi dovremmo perdere tempo a congetturare e disquisire su queste alterità, quando non riusciamo neppure a comprendere la profondità e la vastità della nostra coscienza? Perché mai dovremmo credere che l'essere umano sia un prodotto dell'evoluzione cosmica e non invece, come "essenza umana", un "creatore" di questa evoluzione? Se dopo aver abolito la creazione divina, abolissimo anche l'evoluzione che ci fa discendere dalle scimmie e ponessimo noi stessi, o meglio la nostra essenza, unica e inimitabile in tutto l'universo, a capo di questa creazione; se dicessimo che l'essenza umana è l'unica che, nell'intero universo, è capace di autocreazione e di autoevoluzione, saremmo forse "meno scientifici" dei fisici e degli astronomi che sperano di captare qualche messaggio dall'oscurità dello spazio o che ipotizzano entità extraterrestri? meno realistici di quegli scienziati che stanno ancora cercando l'anello mancante tra noi e le scimmie antropomorfe? Saremmo davvero più fantasiosi dei credenti, che danno per certa l'esistenza di un dio che non ha valore, per la scienza, neppure come ipotesi?

Noi dovremmo semplicemente limitarci a dire che una qualunque idea è sempre oggetto di opposte interpretazioni e che, in ultima istanza, una qualunque supposizione o ipotesi ha valore solo nella misura in cui crediamo nelle sue argomentazioni. La scienza è una fede in ciò che, riflettendoci sopra, ci appare convincente. La superstizione viene subito dopo, quando non accettiamo che qualcuno possa contraddirci con argomentazioni altrettanto valide.

Se noi partiamo dal presupposto che non esiste alcun dio, se non l'uomo stesso, ogni ipotesi merita d'essere discussa e la libertà di coscienza aiuta tutti a crescere, a farsi delle opinioni personali in un confronto democratico. Se ci preoccupiamo di stare coi piedi per terra, dei cieli possiamo dire ciò che ci pare, nell'ovvia condizione di non offendere mai nessuno. L'importante infatti è vivere il qui e ora, cioè la dimensione spazio-temporale della terra: il resto ci diverrà chiaro quando saremo fuori da questa dimensione.

Noi non siamo in grado di guardare noi stessi dal di fuori, come se non vivessimo su questo pianeta. Chi pretende di guardare la terra con gli occhi di dio, è solo un visionario che vede coi suoi occhi ciò che non c'è, o un alienato che non vuole assolutamente essere contraddetto su quello che pensa, o un sognatore che non s'accorge di fare cose possibili solo nei sogni (come quando p.es., pur di non essere catturato da un nemico, inizia a volare).

Alcuni inequivocabili indizi ci indicano che c'è qualcosa, in noi, di peculiare, sconosciuto a qualunque animale, qualcosa che ci fa pensare a poteri straordinari dentro di noi (che in occidente abbiamo sviluppato soprattutto in chiave tecno-scientifica). Siamo in grado di elaborare incredibili associazioni di idee, connessioni straordinarie di fatti, eventi, integrando cose tra loro apparentemente opposte, la cui logica può anche non avere riscontri nella realtà. Il nostro potere di astrazione è illimitato. Noi sappiamo andare ben al di là dei condizionamenti quotidiani, eppure è proprio con questi condizionamenti che dobbiamo costantemente misurarci. La realtà non può essere vissuta né coi sogni né coi desideri, anche se non possiamo fare a meno né degli uni né degli altri.

Quando ci guardiamo allo specchio, non riusciamo a immaginarci infinitamente più giovani di quel che siamo. Non potremmo farlo neppure se avessimo delle foto o dei filmati di quando eravamo appena nati. Il fatto di non poter avere l'esatta percezione della nostra nascita non dovremmo considerarlo come un limite, ma, al contrario, come un segno che essere finiti o infiniti per noi è la stessa identica cosa. Il fatto di non ricordare il momento esatto della nascita ci deve indurre a credere che, in realtà, è come se non fossimo mai nati, è come se fossimo sempre esistiti, almeno come "essenza umana".

Lo stesso dovremmo pensare quando neghiamo ch'esista un dio al di fuori dell'uomo. Questa negazione non dovrebbe portarci a negare l'eternità del tempo, l'infinità dello spazio, ma proprio il contrario. Infatti se esistesse un dio, lo spazio e il tempo sarebbero limitati in quanto "creati". Se invece accettiamo l'idea che la creazione è un'autocreazione, improvvisamente noi umani diventiamo eterni, senza bisogno di alcun dio. Il dio è la sostanza che non può impedirci di esistere. E se ci siamo autocreati, è del tutto irrilevante sapere quando e come ciò sia avvenuto. Il segreto della nostra autocreazione è destinato a rimanere tale, appunto perché fa parte della illimitatezza della nostra essenza. Un segreto non solo non si svela, ma neppure si autorivela.

Chi pretende di andare oltre questo apofatismo, rischia di perdere il legame tra finito e infinito, rischia l'alienazione, la depressione, rischia di attribuire falsamente la causa della propria frustrazione al fatto che non riesce a trovare le risposte a tutte le sue domande. Quando una cosa è infinita (come lo spazio, il tempo, la coscienza), non si possono trovare risposte finite, determinate, univoche. Al cospetto di talune domande, le risposte sono destinate (per il bene dell'uomo) a restare indeterminate, proprio perché in questo sta la loro forza. Abbiamo accettato, in campo fisico, il "principio di indeterminazione" di Heisenberg: non si capisce perché non dovremmo accettarlo in campo meta-fisico.

Infatti qualunque determinazione è anche una negazione (questo lo sappiamo da millenni), sicché l'unico modo per uscire da questo circolo vizioso, è quello di restare nell'indeterminato, che è una garanzia di alterità, di diversità, e che ci permette d'essere umani sino in fondo. Noi non possiamo sapere tutto delle cose perché, per il nostro bene, le cose non si fanno conoscere del tutto. E' un bene per noi che qualcosa, in ultima istanza, ci sfugga sempre: infatti è proprio questo lato sfuggente delle cose che stimola la ricerca, gli interrogativi.

Voler andare al di là di certe cose ci porterebbe in un vortice pericoloso, in una spirale da cui non riusciremmo a uscire: nei labirinti di specchi s'impazzisce, proprio perché l'immagine che si vede, moltiplicata cento mille volte, è in realtà sempre la stessa. Noi in realtà abbiamo bisogno di vedere cento mille milioni di persone diverse da noi, prima di poter dire "chi siamo". "Io sono nella misura in cui non sono", ecco quello che dovremmo dirci quotidianamente, non per annullarci (come quella protagonista pirandelliana che diceva: "io sono colei che mi si crede"), ma per uscire da noi stessi, dalla nostra mera individualità.

Aver la pretesa di dire "io sono colui che sono", è una forma di supponenza, di autoidolatria, di narcisismo. Il mondo ebraico ha usato questa formula per negare consistenza alle divinità pagane, ma, così facendo, l'ha negata anche all'essere umano. Infatti se solo dio è, l'uomo è sempre un non-essere. E' vero che noi in realtà siamo (e lo siamo tanto più) nella misura in cui c'è qualcuno che, con la sua presenza, ci dice quel che non siamo, ma questo "altro da noi" è chiunque, cioè qualunque altro essere umano diverso da noi. L'essere, senza il non-essere, non è.

Senza alterità l'identità uccide, sopprime l'identità altrui e quindi se stessa. L'alienato mentale più pericoloso è colui che, in nome della democrazia, della libertà, della difesa delle proprie tradizioni, nega valore all'alterità, è un malato di egocentrismo, un autistico volontario, che non sente le ragioni altrui, un sordomuto della propria coscienza. Soggetti del genere, politicamente, creano soltanto lager, gulag, carceri, controlli massivi della popolazione, stermini pianificati.

Costoro non si rendono conto che noi siamo fatti in modo tale che solo stando con gli altri, diversi da noi, sappiamo veramente chi siamo. E questi "altri" non ce li possiamo scegliere, poiché rischieremmo di relazionarci con dei "doppioni", con dei cloni. Dobbiamo accettare l'idea che gli incontri avvengano per caso e che su questo "caso" si possa costruire una "storia".

Teniamo sempre ferma questa proposizione, necessariamente ambigua nella sua formulazione: "Nulla può esistere". Cioè un nonnulla, la più piccola cosa dell'universo, può esistere ed è diversa da noi, come un opposto che ci cerca e ci respinge. Non siamo monadi, siamo diadi.

Noi non abbiamo bisogno di conoscere l'universo per conoscere noi stessi, poiché in noi c'è già l'universo intero, inclusa la materia oscura, quella invisibile. Abbiamo soltanto bisogno di applicare sulla terra le stesse sue leggi. In tal senso la teoria del "big bang" ha un che di mistico, in quanto lascia supporre una "prima mossa", una sorta di "messa in moto" voluta da qualcuno. Molto meglio la tesi del fisico Andrej Linde, che nel 1982 disse che all'origine dell'universo, cioè dell'essere, c'è il non-essere.

* * *

Posto che ormai, almeno teoricamente (in quanto ci mancano solo i mezzi adeguati, non le conoscenze), saremmo in grado di costruire nell'universo un pianeta analogo al nostro, cos'altro dobbiamo sapere per poterlo fare nel migliore dei modi non solo sul piano fisico, ma anche su quello "metafisico"?

Anzitutto dobbiamo capire l'esatta differenza tra natura ed essere umano. Entrambi sottostanno a medesime leggi, ma mentre la natura lo fa in modo necessario, l'uomo invece lo fa anche per scelta.

La vita, sul nostro pianeta, si autoregola e dipende dal sole. L'uomo dipende anche da qualcosa che non si vede: la coscienza. Un uomo privo di coscienza non è un uomo, non è neppure un animale: è un mostro di cui aver paura, o un malato di cui aver pena. Di fronte alla eventualità ch'egli usi la propria intelligenza nel modo peggiore, che cos'è possibile fare per indurlo a pentirsi? Nessuno può essere obbligato a pentirsi, questo è certo. Lo si può imprigionare, ma ciò di sicuro non basta. Il soggetto disumanizzato va recuperato e, a tale scopo, bisogna fargli capire che può farcela. Solo se una persona è libera, può capire di aver sbagliato e può impegnarsi a migliorare.

In attesa che lo faccia, o meglio, al fine di favorire l'autoconsapevolezza dei propri errori, come possiamo utilizzare la natura senza violare la libertà di coscienza? Sembra una domanda insensata, poiché, in questo momento, nelle condizioni terrene che viviamo, non possiamo utilizzare la natura in questa maniera. Però non è detto che non potremo farlo nell'universo. Se ci sarà la possibilità di usare la natura per far capire all'uomo l'uso sbagliato della propria intelligenza, si dovrà comunque indurre l'uomo a credere che la necessità di un determinato fenomeno naturale non è cieca o casuale o irrazionale, ma fa parte di un progetto, di cui si può anche non avere piena consapevolezza.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018