L'ATEISMO NEL COGITO CARTESIANO

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L'ATEISMO NEL COGITO CARTESIANO

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Cartesio

Forse non tutti sanno che quando Cartesio, a partire dal quale si sviluppa la filosofia borghese europea (debolmente anticipata dalla triade italiana Telesio Bruno Campanella), volle fondare razionalmente il proprio cogito, prese subito le distanze dagli atei averroisti, pomponazziani, machiavellici, libertini ecc., le cui idee, da almeno un secolo, ampliando le novità introdotte dall'Umanesimo italiano e dalla Riforma tedesca, dilagavano per tutta Europa. Se voleva sostenere, relativamente indisturbato, posizioni ateistiche, Cartesio doveva anzitutto negare quella forma di ateismo che nel sec. XVI aveva trovato in Francia il consenso di personaggi illustri come Rabelais, Montaigne, Bodin ecc., notoriamente ritenuti scettici radicali.

Questa doppiezza cartesiana era frutto dell'insegnamento ottenuto, in gioventù, nelle scuole dei gesuiti, ma era anche un modo di sopravvivere in un contesto sfavorevole alla diffusione esplicita o teoretica dell'ateismo; anche se - e lo vedremo - le teorie cartesiane (riprese e approfondite da Bayle e Spinoza), volte a dimostrare l'esistenza di dio attraverso argomenti logico-razionali, non riuscirono mai a sottrarsi alle accuse di miscredenza.

Esiste, in tal senso, una linea di condotta abbastanza regolare (che a noi oggi appare alquanto contraddittoria), da Cartesio ad Hegel, secondo cui è possibile affiancare a una filosofia religiosa convenzionale, elaborata per accontentare i poteri costituiti, una tendenza progressiva all'ateismo. Nessuno p.es. metteva in dubbio i sentimenti personali di cattolico-borghese che nutriva Cartesio, eppure le sue teorie sono sempre state considerate alquanto eterodosse rispetto a quelle ufficiali della Scolastica.

Probabilmente tale ambiguità era dovuta al fatto che una certa tendenza (implicita) all'ateismo era presente persino nella stessa Scolastica, che non a caso s'era sempre più incaponita nel cercare prove razionali inconfutabili all'esistenza di dio. Era stata proprio la Riforma a porre un freno alla pretesa di voler imporre dimostrazioni dogmatiche fini a se stesse. La borghesia emergente credeva sempre meno nelle gerarchie e tradizioni ecclesiastiche.

Tuttavia, per quanto la chiesa romana fosse politicamente disponibile ad accettare forme di compromesso ideologico con quella intellighenzia laica che le stava sempre più sfuggendo di mano, una cosa restava l'ateismo implicito, indiretto, della Scolastica, un'altra era l'astuzia di quei filosofi che, non inquadrati nel sapere teologico ufficiale, parlavano di dio per parlare in realtà dell'uomo miscredente. E tra questi, chiamiamoli "furbastri", spicca subito il nome di Cartesio, il quale aveva ben compreso che se di dio si ammetteva la sola esistenza, assegnandogli un castello da favola sul cocuzzolo di una montagna sacra, nella valle circostante l'uomo poteva fare e pensare ciò che voleva.

Il dio cartesiano diventava così "assoluto" da essere irraggiungibile, inavvicinabile; così "perfetto" da risultare addirittura statuario, e quindi in sostanza noioso, inutile; oppure diventava così "indeterminato" da sembrare evanescente. Non per nulla il gesuita francese G. Hardouin già allora nella sua opera fondamentale si vantava di chiamare questi intellettuali con l'epiteto di Athei detecti, cioè "smascherati". E tendeva a dividerli in due gruppi: i neo-agostinisti (o giansenisti) come C. Giansenio (celebre il suo Augustinus), Ambrosius Victor, P. Quesnel, L. Thomassin e P. Nicolle; e appunto i cartesiani come A. le Grand e S. Regis, incluso ovviamente Cartesio. Malebranche (detto l'atheologus) veniva considerato una via di mezzo tra i due gruppi, i quali spesso agivano col consenso di questa o quella autorità ecclesiastica: basti pensare al particolare favore con cui fu accolto Cartesio nell'Oratorio di Francia da Bérulle.

Significativo il fatto che Hardouin credesse che le due fonti di questo ateismo mascherato fossero gli italiani Ficino e Vanini. E non era il solo a pensarla così: c'erano anche, in Francia e all'estero, il teologo calvinista e coevo di Cartesio, G. Voezio, il suo discepolo M. Schook, A. Ch. Rotth, T. Spitzel, J. F. Budde (quest'ultimo metterà in croce il filosofo tedesco Ch. Wolff)... Costoro consideravano atei dogmatici una sfilza impressionante di moderni filosofi, la maggior parte dei quali di origine italiana: Campanella, Cardano, Machiavelli, Cesalpino, Berigardo, Cremonini, G. Bruno, Pomponazzi, Vanini, Poliziano, Ermolao Barbaro, G. della Casa e molti altri, incluso ovviamente Spinoza.

Quando Cartesio si sentì paragonare da Voezio a Vanini, già finito sul rogo, rimase abbastanza turbato e poté evitare un processo per ateismo solo grazie alle proprie conoscenze. D'altra parte egli, per quanto geniale fosse, sapeva bene di non avere a che fare con degli sprovveduti. Non poteva comportarsi come Malebranche, che paragonava scopertamente il proprio Ens indeterminatum al Li dei sapienti cinesi, che di teologico non aveva proprio nulla. Lui doveva sostenere l'insussistenza del rapporto dio/uomo proprio mentre veniva dimostrata ontologicamente l'esistenza di dio.

La scuola cartesiana era più sofisticata di quella giansenista, anzi non aveva neppure rapporti con quest'ultima. Infatti all'idea di dio Cartesio arriva non attraverso la mediazione delle Scritture o della tradizione cristiana, ma usando la pura speculazione metafisica: dio c'è perché esiste nell'uomo imperfetto e mortale un'idea di "infinito" e di "assoluto". Da un'idea astratta (emulo in questo di Anselmo d'Aosta) Cartesio presumeva di voler porre un'esistenza concreta, un'esistenza che ovviamente, all'accusatore di turno, restava ugualmente astratta, in quanto non esperibile, non contestualizzabile.

Se alla parola "dio" si fosse sostituita la parola "materia" (e Spinoza lo farà), il gioco era praticamente fatto: l'ateismo borghese, per continuare a sussistere e anzi a svilupparsi, avrebbe avuto sempre meno bisogno di ricorrere all'artificio linguistico, alle ambiguità semantiche.

Qui dunque ci si può chiedere se davvero uno come Cartesio voleva passare all'ateismo di fatto attraverso il teismo di maniera, o se invece appartiene proprio alla filosofia borghese l'impossibilità di essere coerentemente atea? O forse egli aveva l'ambizione di rifondare stricto sensu la teologia cristiana in chiave filosofica, come poi farà Hegel?

Sia come sia, se si può assumere come fondato il ragionamento cartesiano di arrivare all'infinito partendo dal finito, si deve quanto meno considerare ingenua l'idea di far coincidere l'infinito con dio. Resta un po' patetico vedere un filosofo come lui, che mentre sul piano scientifico teorizzava "idee chiare e distinte", raggiungendo notevolissimi risultati, sul piano metafisico invece si cimentava in operazioni intellettuali il cui valore gnoseologico restava prossimo allo zero.

Oggi per noi muovere i primi passi in ambito ateistico significa dare per assodato che non ci possono essere prove in grado di "de-monstrare", cioè rendere evidente qualcosa che vada oltre l'umano. Anche se nell'universo incontrassimo qualcuno a cui noi volessimo chiedere se sia in grado di leggere il nostro pensiero, egli dovrebbe necessariamente risponderci: "Solo se tu lo vuoi". E, a queste condizioni, dovrebbe valere la reciprocità.

Che la filosofia borghese, al tempo di Cartesio, fosse astratta, in quanto partiva dall'idea per poi arrivare all'esistente (altro modo per dire che l'esistenza di dio, teorizzata dalle idee della chiesa, non aveva più alcun senso), lo capiva anche la teologia ad essa coeva (e rivale). Solo che se quest'ultima arrivava perfettamente a capire che usando tale procedimento si finiva nelle braccia dell'ateismo, non aveva però alcuna volontà di fare autocritica, dopo aver individuato, con la stessa perspicacia, le prime tracce di ateismo in se stessa.

Infatti, l'astratta metafisica che portava all'ateismo non era stata inventata dai filosofi "borghesi", ma era inerente alle stesse argomentazioni dei teologi cattolici. La differenza stava semplicemente nel fatto che mentre per i teologi l'uomo era un prodotto derivato da dio, per i filosofi era il contrario. Gli uni avevano bisogno di parlare dell'uomo per non apparire incomprensibili, gli altri avevano bisogno di parlare di dio per non farsi capire troppo. Due facce della stessa medaglia: una a rappresentanza del potere politico, l'altra era l'autodifesa di un potere economico che voleva farsi spazio nella cultura dominante.

Con Cartesio si ha però il vantaggio (se si escludono le sue Meditazioni metafisiche) di uscire per sempre da quelle sterili controversie, tutte interne alla Scolastica, in cui i tomisti si opponevano agli anti-tomisti (Enrico di Gand, Fonseca, Suarez, Arriaga e tutti i nominalisti). Infatti se non ci fosse stato lui, non sarebbe potuto venire fuori uno come Kant, il quale, dopo aver considerato tautologiche tutte le prove dell'esistenza di dio, fece chiaramente intendere che un qualunque dio "dimostrato" dall'uomo non può certo essere più grande di chi lo pensa. Una conclusione, questa, che se la teologia cattolica non si fosse separata da quella ortodossa, si sarebbe potuta constatare molti e molti secoli prima.

A dir il vero, prima di Kant, il barone P. H. D'Holbach, fondatore del materialismo sensistico francese, era arrivato alle stesse conclusioni, esaminando l'opera di Cartesio. Egli disse che non siamo autorizzati a pensare che una cosa esiste solo perché la pensiamo, meno che mai che una cosa priva di estensione possa agire sui sensi, o che una cosa "finita" trasformata dall'uomo in "infinita" debba avere il nome di dio. Se si accetta l'idea che la materia possa avere le stesse qualità attribuite a dio, a che serve la fede? - si chiedeva D'Holbach, che però, rispetto a Cartesio, aveva dalla sua un secolo di lumi in più.

La differenza tra filosofia borghese e teologia ortodossa stava semplicemente in questo, che mentre per l'una la negazione di qualunque dimostrazione intorno alla natura divina, serviva a indurre maggiormente il credente al misticismo e all'apofatismo, per l'altra invece le dimostrazioni razionali, desunte dalla Scolastica ma in maniera laicizzata (cioè esposte in forma più filosofica che teologica), servivano proprio per negare qualunque rapporto tra uomo e divinità.

Cosa che anche Spinoza capì molto bene, proprio a partire dalle conclusioni di Cartesio. A differenza dei teologi, che vedevano nelle Meditazioni cartesiane una deviazione cripto-ateistica rispetto alla Scolastica, Spinoza invece intuì che col cogito si poteva fondare un principio di immanenza tale per cui dio, una volta fatto coincidere con la natura, poteva scomparire del tutto anche come problematica relativa all'essere.

L'astuto Cartesio, dribblando i suoi avversari, cioè coinvolgendoli in una diatriba che solo per loro aveva un certo peso, poteva lasciare in eredità agli atei del materialismo francese del XVIII sec. non solo il valore irreligioso del cogito (per quanto espresso nell'ambito dell'individualismo borghese), ma anche l'elemento materialistico della propria fisica, che non mancheranno di apprezzare i fondatori del socialismo scientifico, i quali, nella Sacra famiglia scriveranno che "nella sua Fisica, Descartes ha dotato la materia di una forza autocreativa e ha concepito il movimento meccanico come il suo atto vitale. Egli aveva separato completamente la sua fisica dalla metafisica. All'interno della sua fisica la materia è l'unica sostanza, l'unico fondamento dell'essere e del conoscere".

Oggi è difficile incontrare qualcuno che metta in dubbio l'ateismo di Cartesio: nell'eventualità gli si può consigliare di leggere La liberté cartésienne. Dialogo sul libero arbitrio di J. P. Sartre.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015