Cartesio, il filosofo dell’io

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Cartesio, il filosofo dell’io

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Cartesio

L’io, già messo in primo piano con il libero esame della rivoluzione religiosa luterana, diventa con Cartesio il perno della filosofia moderna.

Cartesio parte dai dubbi del proprio io, li radicalizza fino all’iperbole e trova nell’io la certezza assoluta sulla quale ricostruire l’edificio del sapere. Inaugura una filosofia del soggetto che trova poi in Kant e, più ancora, in Fichte, la sua espressione più radicale.

Come Agostino, per non sprofondare nelle sabbie mobili dello scetticismo, Cartesio trova nell’interiorità più profonda l’appiglio per uscirne, salire a Dio e rifondare tutto il sapere. Attraverso Cartesio l’intimismo agostiniano anima di sé un’importante corrente di razionalismo moderno.

Come Bacone, Cartesio critica la cultura del suo tempo e lavora sul soggetto per aprire l’era della scienza moderna. Mentre, però, Bacone libera il soggetto dagli idoli, dai pregiudizi, dai limiti interiori, per metterlo in rapporto diretto con le cose e fondare su questo il nuovo sapere, Cartesio cerca nella soggettività più profonda e più pura il punto fermo per la ricostruzione del sapere. Estroverso Bacone, introverso Cartesio.

Bacone e Cartesio aprono alla modernità due vie molto diverse: quella del realismo (le idee vere nascono dall’incontro con le cose senza pregiudizi: la verità viene da fuori, dalle cose) e quella dell’idealismo (le cose si capiscono correttamente se se ne hanno idee vere; sono le idee vere che rendono possibile l’incontro con le cose; la verità abita nell’interiorità del soggetto).

Cartesio pratica con molta originalità la via agostiniana dell’interiorità.

Nei Soliloqui (I, 2), Agostino scrive: “Io desidero conoscere Dio e l’anima. Nient’altro, dunque? Nient’altro, assolutamente”. Cartesio, cui non manca l’interesse per l’anima e per Dio, desidera fortemente conoscere il mondo, anche per agire su di esso e migliorare la condizione umana. Pensa, però, che per fondare la conoscenza del mondo sia necessario passare per l’anima e arrivare prima a Dio: la scienza ha bisogno di una metafisica costruita a partire dall’io e dalle sue idee innate. Per certi aspetti, restituisce alla via dell’interiorità il rapporto col mondo esterno che essa aveva in Platone: per conoscere bene la caverna in cui viviamo, dobbiamo uscirne, per la via interiore dell’anamnesi, arrivare alle Idee, per poi rientrare e agire in essa.

Cartesio, traduzione italiana del nome latinizzato di René Descartes, nasce a La Haye, in Turenna, nel 1596 in un ambiente di recente nobiltà (il padre, avvocato, aveva acquisito con la carica un titolo nobiliare) che gli consente una buona scuola e una vita di viaggi e studi. Dopo aver frequentato, dal 1602 al 1612, il prestigioso collegio gesuitico di La Flèche, compie studi giuridici e inizia la carriera militare, che, allora, offriva ai nobili ampia libertà di movimento. Cartesio ne approfitta per viaggiare in Europa e aprire gli occhi sul “gran libro del mondo”. A Breda, nel 1618, conosce lo scienziato Isaac Beeckman, che come Galileo applica la matematica alla fisica, e ne resta fortemente influenzato. Ha forti interessi scientifici, soprattutto in campo medico, ma si convince presto della necessità di una radicale riforma del sapere, concepito unitariamente come un albero, le cui radici sono la metafisica, mentre il tronco è la fisica e i rami sono le diverse altre scienze. Pensa che l’unità del sapere si fondi a sua volta sull’unità della ragione, una e uguale in tutti gli uomini, come sostenevano gli antichi Stoici. Di quest’unità matura una prima intuizione nella notte del 10 novembre del 1619, nei pressi di Ulma, dopo giorni di profonda riflessione, vissuta con forte intensità emotiva: messosi a letto “tutto pieno d’entusiasmo” e tutto preso dal pensiero “di aver trovato quel giorno i fondamenti di una scienza meravigliosa”, fa tre sogni, due terribili e uno dolce e gradevole, che interpreta in condizioni di dormiveglia come venuti dall’alto e a conferma della sua scoperta.[1] Convinto di avere trovato la via che porta alla completa riforma del sapere e alla verità, fa voto di un pellegrinaggio di ringraziamento a Loreto e, da allora, orienta a quell’illuminazione tutto il suo lavoro. Senza abbandonare gli studi scientifici, si muove alla ricerca di un metodo, che guidi con sicurezza l’intelletto, e di una metafisica (le radici dell’albero del sapere), che offra un solido fondamento al metodo e alla scienza.

Nel 1620 abbandona la vita militare e si dedica interamente agli studi.

Nel 1628, in cerca della serenità necessaria ai suoi studi, si trasferisce in Olanda, dove risiede per oltre vent’anni, salvo brevi rientri in Francia. Nell’Europa lacerata da guerre religiose, l’Olanda era allora un paese di relativa libertà e di tolleranza religiosa e filosofica. Nel 1643, però, gli viene rivolta l’accusa di ateismo e rischia di veder bruciare i suoi libri e di essere espulso dai Paesi Bassi: viene salvato dagli interventi del suo protettore, Constantin Huygens, segretario del principe d’Orange, e dall’ambasciatore francese. Nel 1635, dalla relazione con la sua governante, gli nasce una figlia, Francine, molto amata, che muore a soli cinque anni.

Tra il 1630 e il 1633 si occupa di fisica e scrive il Mondo. Mentre ne prepara la pubblicazione, ha notizia della condanna di Galileo. Decide, quindi, di richiudere nel cassetto quello scritto.

Di quell’autocensura scrive nella sesta e ultima parte del Discorso sul metodo, pubblicato anonimo nel 1637 come prefazione a tre saggi scientifici sulla diottrica, le meteore e la geometria.

“Tre anni or sono – scrive – ero arrivato alla fine del trattato che contiene tutte le cose esposte, e cominciavo a rivederlo per affidarlo alle stampe, quando appresi che persone per cui nutro particolare rispetto e la cui autorità non pesa sulle mie azioni meno di quanto la mia stessa ragione non pesi sui miei pensieri [Cartesio sta parlando del tribunale dell’Inquisizione], avevano disapprovato un’opinione in materia di fisica pubblicata un po’ prima da altri; né voglio dire che io la dividessi, ma solo che prima della loro censura non vi avevo rilevato nulla che potessi immaginare pregiudizievole per la religione o per lo Stato; nulla quindi mi avrebbe impedito di esprimerla nei miei scritti, se per via di ragione me ne fossi persuaso. Ciò mi fece temere che anche fra le mie opinioni ve ne fosse qualcuna in cui mi fossi sbagliato nonostante la gran cura che sempre ho posto nel non dare credito a novità di cui non avessi dimostrazioni certissime, e nel non inserirne nei miei scritti nessuna che potesse volgersi in danno di qualcuno. E’ bastato questo per obbligarmi a modificare la mia decisione di pubblicare le mie teorie. Infatti, benché le ragioni che in precedenza mi avevano spinto a prenderla fossero molto valide, la mia inclinazione, che mi ha fatto sempre odiare il mestiere di comporre libri, me ne fornì subito altrettante per rinunciare. Queste ragioni, in un senso o nell’altro, sono tali che non solo ho un certo interesse ad esporle qui, ma forse anche il pubblico ha interesse a conoscerle”.[2]

Cartesio è fortemente interessato alla ricerca della verità e alla rifondazione del sapere, ma anche a migliorare la condizione umana, soprattutto con la medicina, e a rendere gli uomini “quasi signori e padroni della natura”.

Per realizzare il suo primo interesse ha bisogno di molta serenità, mentre il secondo, che lo spinge a pubblicare i risultati delle sue ricerche, lo espone sulla scena pubblica e al rischio di trovarsi coinvolto in polemiche dispersive, con pesante pregiudizio della serenità di cui ha bisogno.

Cartesio non è un solitario, cerca il confronto, come prova la sua abitudine di far circolare le sue tesi tra gli uomini di cultura, con i quali lo tiene in contatto padre Mersenne, e rispondere alle loro osservazioni e obiezioni con molta cura. Sa bene che dal confronto possono venirgli utili indicazioni per il suo lavoro di ricerca. Non ama, però le polemiche e, soprattutto, non intende scontrarsi con le autorità religiose. A tutto questo si aggiunge un tratto del carattere di cui lui stesso parla in un suo frammento giovanile: “Come gli attori, perché il rossore della vergogna non appaia loro in volto, vestono la maschera, così io sul punto di salire su questa scena mondana, di cui fin qui fui spettatore, mi avanzo mascherato.[3] Al profondo bisogno di tranquillità di ricerca, alla sensazione di non avere abbastanza tempo per l’impresa culturale che considera molto importante, alla grande prudenza nei rapporti con le autorità religiose, si aggiunge, pertanto, una naturale ritrosia a esporsi sulla scena del mondo.

Soppesando le ragioni pro e contro, tra il pubblicare l’intero trattato di fisica e il non pubblicare nulla, Cartesio, come dice in conclusione del Discorso, decide, anche un po’ per orgoglio, di pubblicare a Leida, nel giugno 1637, un volume dal lungo titolo: Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità delle scienze. Più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono i saggi di questo metodo. Un’opera scritta in francese.

Spiega: “E se scrivo in francese, che è la lingua del mio paese, invece che in latino, che è quella dei miei insegnanti, è perché spero che giudichino meglio delle mie opinioni quelli che si servono solo della loro ragione naturale pura e semplice, che non quelli che credono soltanto ai libri antichi. Quanto poi a coloro che riuniscono il buon senso agli studi, i soli che io desideri come giudici, sono sicuro che non saranno tanto parziali per il latino da rifiutare di intendere le mie ragioni perché le spiego il lingua volgare”.[4]

Nel 1640 completa la stesura delle Meditazioni metafisiche in latino, un’opera che aveva cominciato ad abbozzare dal 1629 e che, tramite Mersenne, sottopone al giudizio dei principali filosofi e teologi del tempo. Le Meditazioni escono l’anno dopo con le Obiezioni di costoro e con le relative Risposte cartesiane. Nel 1647 l’opera viene pubblicata in francese.

Nel 1649, dopo aver consegnato alle stampe Le passioni dell’anima, si trasferisce a Stoccolma, a far lezioni di filosofia alle cinque del mattino alla regina Cristina. Muore di polmonite l’11 febbraio del 1650.

Note

[1] Cartesio, Olympica, in Opere filosofiche 1, Laterza 1986, pp. 4-7.

[2] Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche 1, Laterza 1986, I, pp.330-331.

[3] Cartesio, Opere filosofiche 1, Laterza 1986, I, p. 8.

[4] Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche 1, Laterza 1986, I, p. 341.


Torino 13 febbraio 2012

Giuseppe Bailone


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Aggiornamento: 26-04-2015