Cartesio: perché l’errore

TEORICI
Politici Economisti Filosofi Teologi Antropologi Pedagogisti Psicologi Sociologi...


Cartesio: PERCHE' L'ERRORE?

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X

Cartesio con la regina Cristina di Svezia

Se tutto il mio essere viene da Dio, si domanda Cartesio nella quarta meditazione, perché sbaglio?

Dio non m’inganna. Non può, quindi, avermi “dato una facoltà per errare” insieme alla “facoltà di giudicare”; non può aver messo in me “nessuna causa di errore o di falsità”. Dove si radica, allora, la possibilità dell’errore?

“Io sono, scrive Cartesio, un termine medio tra Dio e il nulla, cioè posto in tal modo tra il sovrano essere e il non essere, che, a dir vero, non si trova in me nulla che possa indurmi in errore, in quanto un sovrano essere mi ha prodotto, ma che, se mi considero come partecipante in certo modo del niente o del non essere, cioè in quanto non sono io stesso il sovrano essere, mi trovo esposto ad un’infinità di mancamenti, di modo che non mi debbo stupire se m’inganno.

Così io conosco che l’errore, in quanto tale, non è qualcosa di reale, che dipende da Dio, ma è solamente un difetto, e pertanto che io non ho bisogno per errare di qualche facoltà che mi sia stata data da Dio particolarmente per quest’effetto, ma che accade che io m’inganni pel fatto che la facoltà, che Dio mi ha dato per discernere il vero dal falso, non è in me infinita”.[1]

Cartesio adatta qui all’errore la teoria agostiniana, di origine neoplatonica, del male come non essere.

“Tuttavia – continua Cartesio – ciò non mi soddisfa ancora del tutto; perché l’errore non è pura negazione, cioè non è il semplice difetto o mancamento di qualche perfezione, che non mi è dovuta, ma piuttosto è una privazione di qualche conoscenza, che sembra che io dovrei possedere. E considerando la natura di Dio, non mi sembra possibile ch’egli m’abbia dato qualche facoltà che sia imperfetta nel suo genere, cioè che manchi di qualche perfezione che le sia dovuta; perché, se è vero che più l’artigiano è esperto, più le opere che escono dalle sue mani sono perfette e compiute, quale essere immagineremo noi essere stato prodotto da questo sovrano creatore di tutte le cose, che non sia perfetto ed interamente compiuto in tutte le sue parti? E certo non vi è dubbio che Dio avrebbe potuto crearmi tale, che io non mi potessi mai ingannare; certo è anche che egli vuole sempre il meglio: m’è, dunque, più utile errare che non errare?”.[2]

Se Dio c’è, non m’inganna, non ha messo in me la radice dell’errore e “vuole sempre il meglio”, come si spiegano i miei errori?

Cartesio si riconosce in grave difficoltà, ma attribuisce la cosa alla sua natura “estremamente debole e limitata, al contrario di quella di Dio che è immensa, incomprensibile ed infinita”. Si riconosce quindi nell’impossibilità “di scoprire i fini impenetrabili di Dio”. Deve, però, in qualche modo conciliare la bontà assoluta di Dio con la propria imperfezione e scrive:

“Di più, mi viene ancora in mente che, quando si cerca se le opere di Dio siano perfette, non si deve considerare una sola creatura separatamente, ma in generale tutte le creature assieme. Perché la stessa cosa, che potrebbe forse, con qualche sorta di ragione, sembrare imperfettissima se fosse sola, si trova essere perfettissima nella sua natura, se è considerata come parte di tutto questo universo”.

Cartesio non sa ancora dell’esistenza del mondo. Sa, però, che Dio, nella sua infinita potenza, può aver creato un mondo nel suo insieme ottimo. Può, quindi, scrivere: “Non saprei negare che egli abbia prodotto molte altre cose, o almeno che possa produrne, in modo che io esista e sia posto nel mondo come appartenente all’università di tutti gli esseri”.[3]

Adesso, la domanda, rimasta inespressa quando Cartesio ha accertato di non essersi creato da sé, perché, pur avendo l’idea di perfezione, si ritrovava imperfetto, può venir fuori e trovare risposta nell’idea che la sua imperfezione sia parte di un ordine perfetto che la rende perfettissima.

Un’idea questa, che lo aiuta a trovare una ragione dei suoi errori e scrivere: “Dopo di che, guardandomi più da vicino, e considerando i miei errori (i quali soli testimoniano che in me v’è dell’imperfezione), trovo che dipendono dal concorso di due cause, e cioè dalla facoltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere, o libero arbitrio: ossia dal mio intelletto ed insieme dalla mia volontà. Poiché, con l’intelletto solo, io non affermo né nego alcuna cosa, ma concepisco solamente le idee delle cose, che posso affermare o negare”.[4]

L’intelletto pensa le idee, ma il potere di “affermare o negare” è della volontà.

Una cosa sono i pensieri dell’intelletto, altra cosa sono i giudizi, le sentenze, affermative o negative, della volontà.

Mentre, però, l’intelletto ha dei limiti, la volontà non ha limiti, è libera.

Capita così che essa possa esprimere giudizi anche quando l’intelletto non le metta a disposizioni idee chiare e distinte. Sta in questo potere libero della volontà la possibilità dell’errore.

Cartesio si vede limitato in tutte le sue facoltà eccetto che nel libero arbitrio.

“Io non posso neppure – scrive – lamentarmi che Dio mi abbia dato un libero arbitrio, o una volontà assai ampia e perfetta … Non vi è che la sola volontà [voluntas sive arbitrii libertas], che io sperimenti in me così grande, che non concepisco l’idea di nessun’altra più ampia e più estesa: di modo che essa principalmente mi fa conoscere che reco l’immagine e la rassomiglianza di Dio. Perché, sebbene essa sia incomparabilmente più grande in Dio che in me, così in ragione della conoscenza e della potenza, che trovandovisi congiunte la rendono più ferma e più efficace, come in ragione dell’oggetto, in quanto essa si riferisce ad un numero infinitamente maggiore di cose, essa non mi sembra, tuttavia, più grande, se la considero formalmente e precisamente in se stessa. Poiché essa consiste solamente in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè affermare o negare, seguire o fuggire); o piuttosto solamente in questo: che, per affermare o negare, seguire o fuggire le cose che l’intelletto ci propone, noi agiamo in modo, che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore”.[5]

“Dunque, donde nascono i miei errori? Da ciò solo, che la volontà essendo molto più ampia e più estesa dell’intelletto, io non la contengo negli stessi limiti, ma l’estendo anche alle cose che non intendo, alle quali essendo di per sé indifferente, essa si smarrisce assai facilmente, e sceglie il male per il bene, o il falso per il vero. E questo fa sì ch’io m’inganni e pecchi”.[6]

Ma, l’errore si può evitare.

Infatti, “se io mi astengo dal dare il mio giudizio sopra una cosa, quando non la concepisco con sufficiente chiarezza e distinzione, è evidente che del giudizio fo un ottimo uso, e non sono ingannato; ma se mi determino a negarla o ad affermarla, allora non mi servo più come debbo del mio libero arbitrio; e se affermo ciò che non è vero, è evidente che m’inganno, e quand’anche m’avvenga di giudicare secondo verità, questo non accade che per caso, e perciò io erro ugualmente ed uso male del mio libero arbitrio; perché la luce naturale c’insegna che la conoscenza deve sempre precedere la determinazione della volontà”.[7]

La possibilità dell’errore non è, quindi, un difetto della nostra natura.

“Essendo la volontà – spiega Cartesio – una cosa sola, ed il suo soggetto essendo come indivisibile, sembra che la sua natura sia tale, che non si saprebbe nulla toglierne senza distruggerla”.[8]

Una volontà che avesse gli stessi limiti dell’intelletto e fosse da questo determinata sarebbe del tutto risolta nell’intelletto.

Per Cartesio c’è in Dio e nell’uomo il primato della volontà sull’intelletto, anche se l’indifferenza della volontà è in Dio, come abbiamo già visto, “prova grandissima della sua onnipotenza”, mentre nell’uomo lo espone all’errore.

L’uomo può, però, acquisire l’abitudine a non errare abituandosi a non dare mai l’assenso su cose che l’intelletto non gli presenti con chiarezza e distinzione, allenandosi a subordinare le decisioni della volontà all’intelletto.

L’uomo assomiglia a Dio soprattutto per la volontà perfetta, libera, senza limiti. Ciò, però, lo espone all’errore, che egli può evitare solo abituandosi a imporre alla volontà i limiti dell’intelletto, rinunciando, cioè a decidere come Dio nell’indifferenza. Assomiglia a Dio, ma è bene che rinunci alla prerogativa della facoltà che lo avvicina di più a lui.

L’intelletto umano può arrivare ad acquisire idee chiare e distinte, ma i giudizi di verità o di falsità sono atti della volontà.

La verità è una questione di potere sia in Dio che nell’uomo.

Dio impone la verità e il bene con la sua volontà onnipotente, cioè esercitando liberamente il suo potere; l’uomo raggiunge la verità se rinuncia a usare la libertà di pronunciare giudizi di verità quando l’intelletto non lo guidi con chiarezza e distinzione d’idee, cioè rinunciando a un uso della propria volontà senza vincoli.

Dio crea la verità con la sua libera e onnipotente volontà, l’uomo arriva alla verità obbedendo, limitando la sua libera volontà ad agire nei rigorosi limiti posti dall’intelletto.

La prudenza pratica di Cartesio, la sua tendenza a non opporsi all’autorità, trova nella sua metafisica l’espressione suprema.


[1] Cartesio, Opere filosofiche 2, Laterza 2009, p. 51.

[2] Ib., pp. 51-52.

[3] Ib., pp. 52-53.

[4] Ib., p. 53.

[5] Ib., pp. 53-54.

[6] Ib., pp. 54-55.

[7] Ib., pp. 55-56.

[8] Ib., p. 56.


Torino 12 marzo 2012

Giuseppe Bailone


Testi di Cartesio

Testi su Cartesio


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26-04-2015