Cartesio: ragione geometrizzante e prudenza

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Cartesio: ragione geometrizzante e prudenza

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Cartesio

"Già dall’epoca del collegio avevo imparato che niente di così strano e poco credibile si può immaginare, che non sia stato sostenuto da qualche filosofo; e poi, viaggiando, mi ero reso conto che non tutti quelli che la pensano molto diversamente da noi sono perciò barbari e selvaggi, anzi, molti di loro fanno uso della ragione quanto noi e anche di più; e avevo considerato quanto lo stesso uomo, con le stesse possibilità, allevato fino dall’infanzia tra i Francesi o Tedeschi risulti diverso da quel che sarebbe se avesse sempre vissuto fra Cinesi o cannibali; e come, fino alle mode dell’abbigliamento, la stessa cosa che dieci anni fa ci è piaciuta, e che forse tornerà a piacerci fra meno di dieci, ci sembri stravagante e ridicola; sì che il costume e l’esempio esercitano su di noi molto più efficace persuasione di qualunque conoscenza certa; tuttavia la maggioranza dei suffragi non è prova attendibile per le verità alquanto difficili da scoprirsi, perché è molto più verosimile che le abbia scoperte un uomo solo piuttosto che un intero popolo. Per tutte queste ragioni non potevo scegliere nessuno le cui opinioni mi sembrassero da preferirsi a quelle degli altri, e mi trovavo in certo modo costretto a cercare di trovare una guida in me stesso".[1]

Nella prima parte di questo passo, Cartesio sembra un alunno di Montaigne, nella conclusione si rifà a una tradizione che risale ad Agostino e, più indietro ancora, a Socrate e a Eraclito. Come questi maestri, Cartesio cerca la verità non fuori, ma dentro di sé. Cartesio, però, è anche appassionato di matematica, e la via interiore alla ricerca della verità la pratica con passo geometrico.

Scrive: "Quelle lunghe catene di ragioni, affatto semplici e facili, di cui i geometri si servono abitualmente per portare in fondo le loro dimostrazioni più difficili, mi avevano fatto immaginare che tutte le cose suscettibili di cadere sotto la conoscenza umana si susseguano allo stesso modo e che, se solo ci si astenga dall’accogliere per vera qualcuna che non lo sia, e si mantenga sempre il debito ordine nel dedurre le une dalle altre, non possono esservene di tanto lontane da non essere alla fine raggiunte, né di tanto riposte da non essere scoperte. Né ebbi molto da stentare per stabilire da dove dovevo cominciare: sapevo già che dovevo partire dalle più semplici e facili da conoscersi; e considerando che fra quanti prima d’ora hanno cercato la verità nelle scienze solo i matematici hanno potuto trovare qualche dimostrazione, ossia qualche ragione certa ed evidente, non dubitavo di dover cominciare dalle stesse questioni che essi hanno esaminato; e questo senza sperare di trarne altra utilità all’infuori di un’abitudine della mia intelligenza a pascersi di verità e a non contentarsi di false ragioni".[2]

Chi pratica la matematica acquisisce buone abitudini nell’uso della ragione.

La ragione, o buon senso, cioè "il potere di giudicare rettamente discernendo il vero dal falso", scrive Cartesio all’inizio del Discorso sul metodo, "è a questo mondo la cosa meglio distribuita: ognuno pensa di esserne così ben provvisto che anche i più incontentabili sotto ogni altro rispetto, di solito non ne desiderano di più".

Cartesio non sta facendo dell’ironia. Sostiene che la ragione "è naturalmente uguale in tutti gli uomini. Sicché la diversità delle nostre opinioni non deriva dall’essere gli uni più ragionevoli degli altri, ma solo dalle vie diverse che seguiamo nel pensare, e dalla diversità delle cose considerate da ciascuno".

Aggiunge: "Voglio credere che la ragione, ovvero il [buon] senso, essendo la sola cosa per cui siamo uomini e ci distinguiamo dalle bestie, sia tutta intera in ognuno".

Il metodo

Se la ragione è tutta intera e uguale in ogni uomo, diventa decisiva per arrivare alla verità la via seguita nel pensare, cioè il metodo.

"Fin da giovane, non esito a dirlo, penso di avere avuto la grande fortuna di imboccare strade che mi hanno condotto a considerazioni e massime da cui ho ricavato un metodo per mezzo del quale mi sembra di estendere gradualmente la mia conoscenza elevandola un po’ alla volta alle più alte vette concesse alla mia mediocre intelligenza e alla brevità della mia vita. Infatti ne ho già raccolto tali frutti che, per quanto io cerchi sempre, nel giudicare di me stesso, di propendere alla diffidenza anziché alla presunzione, e per quanto, guardando con occhio di filosofo le diverse azioni e iniziative di tutti gli uomini, non ne trovi quasi nessuna che non mi sembri vana e inutile, sono lo stesso immensamente contento del progresso che credo di aver già fatto nella ricerca della verità, e concepisco tali speranze per l’avvenire che, se fra le occupazioni degli uomini in quanto semplici uomini qualcuna ve n’è che rivesta caratteri di salda validità e importanza, oso credere sia quella da me scelta".[3]

Cartesio è convinto di aver da tempo acquisito buone abitudini nell’uso della ragione, di essere in possesso di un buon metodo. Vuole, pertanto, parlarne, fare un discorso sul metodo, convinto che la cosa possa essere utile agli altri nel trovare la via che porta alla verità. Spera, inoltre, che la cosa giovi anche a se stesso: dalle osservazioni dei lettori possono, infatti, arrivargli indicazioni di nuovi mezzi per raggiungere i fini proposti. Se la ragione è uguale e tutta intera in tutti gli uomini, gli altri possono apprezzare quanto di valido c’è nel metodo di Cartesio e, nello stesso tempo, dargli indicazioni per migliorarlo.

C’è in questo singolare filosofo dell’interiorità innamorato della matematica la confluenza di spirito geometrico e di animo dialogante. Dopo l’illuminazione del 1619, Cartesio cerca di definire il suo metodo di ricerca, modellato sul procedere dei matematici. Nel 1629 scrive le Regulae ad directionem ingenii in cui individua più di venti regole, ma non porta a termine l’opera. Nel Discorso sul metodo, del 1637, semplifica molto le cose, individuando nella sua pratica della ragione solo quattro regole.

Alla semplificazione lo convince anche l’analogia con il mondo politico. "E come la molteplicità delle leggi offre spesso una scusa ai vizi, dimodoché uno Stato risulta molto meglio organizzato quando, avendone pochissime, le vede osservare col massimo scrupolo; così, in luogo della congerie di regole di cui la logica si compone, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare di osservarle neppure una volta.

La prima era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente per tale; ossia evitare con cura la precipitazione e la prevenzione, giudicando esclusivamente di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e distinto da non offrire alcuna occasione di essere revocato in dubbio.

La seconda era di dividere ciascuna delle difficoltà che esaminavo in quante più parti era possibile, in vista di una migliore soluzione.

La terza di imporre ai miei pensieri un ordine, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscersi per risalire un po’ alla volta, come per gradi, alla conoscenza dei più complessi, supponendo un ordine anche tra quelli tra cui non vige nessuna precedenza naturale.

L’ultima era di fare, in ogni occasione, enumerazioni tanto complete, e rassegne così generali da essere sicuro di non dimenticare nulla".[4]

Centrale nel processo conoscitivo cartesiano è l’intuizione, la visione diretta, senza mediazioni, della verità. La prima regola, infatti, avvia il processo conoscitivo solo quando la chiarezza e la distinzione di un’idea rendano possibile l’intuizione della sua verità, senza possibilità di dubbio e di confusione. La seconda, di fronte a un’idea complessa, impone di scomporla nei suoi elementi semplici, di cui sia possibile avere una visione chiara e distinta, un’intuizione. Anche la terza e la quarta regola rinviano alla chiarezza e al rigore del modello matematico geometrico, dove da assiomi immediatamente evidenti si procede per passaggi altrettanto evidenti, intuitivi, fino a conclusioni del tutto impreviste. Siamo molto lontani dall’aristotelismo scolastico che affidava la validità del sapere al rispetto delle regole del sillogismo.

Cartesio è convinto di aver trovato il metodo che porta alla verità. Per saggiarne la validità decide di sottoporlo alla prova del dubbio iperbolico. Il dubbio di Cartesio non è quello delle crisi esistenziali, non è il disorientamento che talvolta paralizza l’esistenza; non è neppure il dubbio scettico, riproposto in Francia pochi decenni prima in termini originali da Montaigne. E’ un esperimento mentale.

Certo, anche Cartesio ha conosciuto la crisi esistenziale, soprattutto nella giovinezza, appena uscito dalla scuola dei gesuiti di La Flèche, quando si è accorto di non essere culturalmente preparato alla vita. La crisi d’entusiasmo del 1619 l’ha però definitivamente portato fuori da quella fase, e l’ha convinto di poter e di dover lavorare per una solida rifondazione del sapere.

L’abitudine di procedere col pensiero come fanno i matematici è una buona abitudine, che Cartesio ha fatto sua da tempo e con buoni risultati, ma la sua concezione del sapere come un albero che ha le radici nella metafisica lo porta a non limitarsi a riflettere sul modo di condurre il pensiero dei matematici e a ricavarne poche regole semplici da rispettare con rigore.

Cartesio è un filosofo sistematico. Pensare correttamente va bene, ma non basta: bisogna trovare il punto da cui partire, la verità prima, assoluta, da mettere a fondamento di tutta la costruzione del sapere. Bisogna trovare la verità indubitabile, la radice prima dell’albero della conoscenza.

Come si trova la verità indubitabile? Si prova a dubitare fin dove si può. Si dubita fino a strappare al dubbio stesso la verità fondamentale, il punto di Archimede per la ricostruzione del sistema del sapere.

O si trova quel punto saldo o si accerta l’impossibilità del sapere. O si esce dal dubbio con sicurezza o ci si accerta di non poterlo fare. In ogni caso si raggiunge una certezza. Cartesio non accetta di vivere nell’incertezza, di restare sospeso nel vuoto, come Montaigne. Non sopporta il rischio, l’insicurezza. Egli vuole la certezza assoluta. La vuole ad ogni costo, anche se questa, dovesse presentarsi solo in termini negativi, come certezza dell’impossibilità di essere raggiunta. Vuole una prova decisiva, positiva o negativa.

Cartesio si sente preparato a questa prova. Pensa di "aver raggiunto un’età così matura" – scrive all’inizio delle Meditazioni metafisiche – che non può "sperarne dopo di essa un’altra più adatta".

Prudente in tutto, Cartesio lo è anche nella scelta del tempo più adatto per il suo esperimento mentale decisivo. Lo tenta nel momento in cui si ritiene più in forma e in condizioni oggettive migliori: "Ora che il mio spirito è libero da ogni cura, e che mi sono procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni".

La morale provvisoria

Prima di cominciare la prova, però, Cartesio, prende le sue precauzioni. Chi progetta, scrive nella terza parte del Discorso sul metodo, di ricostruirsi la casa in cui vive, priva di avviarne la demolizione, si procura un altro alloggio in cui vivere comodamente durante i lavori. "Allo stesso modo, per non restare indeciso nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria, riconducibile a tre o quattro massime sole, che volentieri vi comunico."

"La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, conservando fedelmente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere educato fin dall’infanzia, e regolandomi in tutto il resto secondo le opinioni più moderate, più lontane da eccessi, comunemente praticate fra le persone fornite di maggiore buon senso fra quelle con cui mi sarei trovato a vivere."

"La mia seconda massima era di agire con quanta più ferma risolutezza mi fosse possibile, e di seguire con altrettanta costanza, una volta orientato in un certo senso, anche le opinioni più dubbie come se fossero certissime. Mi attenevo in questo all’esempio dei viandanti che, smarriti in una foresta, non devono andare in giro errabondi, ora in una direzione e ora nell’altra, o, peggio che mai, fermarsi da qualche parte, ma devono andare sempre nello stesso senso".

"La mia terza massima era di cercare sempre di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di mutare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo; e, in genere, di abituarmi a credere che non vi è nulla, al di fuori dei nostri pensieri, interamente in nostro potere".

"Infine, a conclusione di questa morale, ebbi cura di sottoporre ad esame le diverse occupazioni degli uomini in questa vita, proponendomi di scegliere la migliore; e, senza voler criticare in nulla quelle degli altri, pensai che meglio di tutto era continuare in quella stessa in cui ero già impegnato, e cioè dedicare tutta la mia vita a coltivare la mia ragione e progredire, per quanto era possibile, nella conoscenza della verità, secondo il metodo che mi ero prefisso".

E’ chiaro, anche da quest’ultimo passo, che Cartesio è convinto di essere sulla strada giusta. Vuole però trovare, con assoluta certezza, la verità prima e fondamentale, dalla quale avviare, con rigore geometrico, la lunga catena dei ragionamenti necessari alla costruzione del suo nuovo sistema.

Cartesio non si accontenta di argomenti persuasivi in filosofia, vuole evidenze e dimostrazioni certe, come quelle dei matematici. Ha, quindi, bisogno di un principio saldissimo cui agganciare il processo dimostrativo. Cerca la solida roccia, la pietra su cui costruire il suo sistema. La cerca al riparo da contraccolpi pratici: la ricerca, puramente teorica, non deve compromettere il suo comportamento e la sua serenità esistenziale, e non deve essere disturbata dai disagi e dai sentimenti che il dubbio genererebbe se investisse anche le regole pratiche di vita. La fondazione dell’albero del nuovo sapere va tenuta al riparo dalle agitazioni emotive e dai problemi del cuore.


[1] Discorso sul metodo, II, in Opere Filosofiche 1, Laterza 1986, pp. 301-302.

[2]Ib., pp. 303-304.

[3]Ib., pp. 292-293.

[4]Ib. p. 303.


Torino 20 febbraio 2012

Giuseppe Bailone


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Aggiornamento: 26-04-2015