HEGEL: LA PREFAZIONE ALLA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

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HEGEL: LA PREFAZIONE ALLA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

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Giuseppe Bailone

“Chi ha capito la prefazione alla Fenomenologia ha capito Hegel”, ha scritto H. Glockner, un importante interprete di Hegel, per indicarne l’importanza nella produzione filosofica hegeliana matura.

Scritta ad opera compiuta, essa presenta al lettore la nuova filosofia come frutto maturo del proprio tempo, come la risposta appropriata, razionale, al vivo bisogno di filosofia. Bisogno di filosofia cui Kant, Fichte, Schelling e i romantici avevano risposto in modo ancora inadeguato, ma contribuendo a creare le condizioni del parto della nuova filosofia.

“In una prefazione – scrive Hegel – si offre di solito un chiarimento preliminare intorno al fine che l’autore si prefigge nel suo libro, ai motivi da cui egli fu sollecitato, e al rapporto ch’egli crede di scorgere tra il proprio lavoro e le trattazioni precedenti o contemporanee, del medesimo soggetto; ma un chiarimento di tal sorta, oltre che superfluo, sembra a dirittura sconveniente a uno scritto di carattere filosofico e contrario allo scopo” (1).1

Fare la prefazione a un’opera filosofica non è come presentare un’opera di matematica, di fisica o di qualsiasi altra scienza: si rischia di tradire la filosofia. La prefazione, infatti, nasce esterna al prodotto che presenta: cosa del tutto compatibile con il sapere parziale e particolare delle varie scienze, ma non con la verità filosofica.

La verità filosofica non può essere presentata senza tener conto del cammino che ha portato a essa. La verità filosofica è l’intero, comprensivo del percorso di pensiero che è stato necessario per raggiungerlo. È una verità di cui non si può parlare come di una realtà ormai definita ed esterna a chi ne parla, come di una cosa in sé compiuta, cui la presentazione non aggiunge né toglie nulla.

E la differenza tra la nuova filosofia e le altre non va irrigidita fino a farne delle posizioni alternative che si escludano a vicenda. Il rapporto tra le diverse filosofie deve, invece, essere approfondito fino a che le differenze e contraddizioni siano riconosciute come momenti necessari di un processo dialettico, attraverso il quale la verità filosofica si attua.

Accostarsi alla filosofia non è come entrare in un supermercato e scegliere tra i tanti prodotti esposti quello che meglio sembra rispondere ai propri bisogni: il bisogno di filosofia e la sua risposta sono momenti della vita dello spirito, non possibilità astratte, indipendenti dal tempo in cui nascono.

Di solito il vero e il falso sono intesi come cose ben distinte e contrapposte. Per Hegel, invece, il falso è, in filosofia, un momento necessario del processo conoscitivo, è parte ineliminabile di quell’intero che è la verità: non può essere isolato da quel processo e considerato, e magari condannato, come se fosse una cosa a sé stante.

Il superamento del falso, spiega Hegel, non va inteso come l’espulsione delle scorie dal metallo puro. Né l’unità del vero e del falso va intesa come quella che si ottiene mettendo insieme “l’olio e l’acqua che, senza mescolarsi, si trovano insieme solo esteriormente” (39).

È superficiale la concezione della verità, e dell’errore, come dati statici e immobili. La verità va, invece, intesa come punto d’arrivo del movimento dello spirito e l’errore come momento necessario di quel movimento.

“Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento, vorrebbero valere come particolari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra di là rigidamente isolate senza reciproca comunanza. Contro una simile concezione si deve decisamente affermare che la verità non è moneta coniata, la quale così com’è, possa venir spesa e incassata” (39).

Un’immagine per esprimere in qualche modo la natura temporale e, nello stesso tempo, universale della verità filosofica, può essere quella della crescita personale, che nel presente supera e contiene, nello stesso tempo e necessariamente, tutto il suo passato, come passato e come elemento anche costitutivo del presente.

In questo scritto, infatti, Hegel prende sì radicalmente, e con espressioni anche pesanti, le distanze da Schelling, col quale ha collaborato negli anni importanti della maturazione del suo pensiero, ma, nello stesso tempo, spiega come l’idea schellinghiana di assoluto, e, più in generale, le tesi romantiche abbiano costituito momenti necessari del processo dialettico che ha prodotto le sue attuali posizioni.

Alla verità filosofica non ci si accosta come alle verità matematiche.

È vero che anche la verità matematica è il punto d’arrivo di un percorso di conoscenza; ma quel che conta in matematica è solo il risultato, non il processo per raggiungerlo, che riguarda solo il soggetto: “Il movimento della dimostrazione matematica non appartiene all’oggetto, ma è un operare esteriore alla cosa” (42).

Per Hegel è arrivato il momento che la filosofia cessi di essere solo “amore del sapere per essere vero sapere”, che diventi scienza, intesa come rigoroso movimento di concetti. L’idea in realtà non è nuova. Tuttavia la tendenza generale ancora dominante va in direzione opposta, verso un accesso immediato all’Assoluto.

Questa tendenza può essere superata solo se compresa nella sua ragion d’essere in questa fase storica, apertasi con la fine del Medioevo e giunta alla sua massima espressione con l’illuminismo e con quelle che Hegel chiama “filosofie della riflessione”. L’uomo moderno, inaugurando l’età della critica e della riflessione astratta, ha perso, insieme al rapporto con la realtà concreta, la rassicurante certezza medievale di vivere in un mondo voluto e ordinato da Dio. Ha perso il divino e ne soffre.

Viene da pensare alla fase fichtiana della “compiuta peccaminosità”.

Le filosofie del sentimento e dell’intuizione dell’Assoluto sono risposte inadeguate alla crisi dell’uomo moderno e al suo bisogno del divino.

“A questa esigenza corrisponde un certo affannoso e molto zelante lavorio per sollevare il genere umano dall’abbrutimento nel sensibile, nel volgare e nel singolo, e per indirizzarne lo sguardo alle stelle; quasi che gli uomini, del tutto obliosi del divino, siano sul punto di appagarsi, come i vermi, di polvere e d’acqua. Un tempo essi avevano un cielo fatto di vasti tesori di pensieri e di immagini. Il significato di tutto ciò che è, stava nel filo di luce che tutto al cielo teneva attaccato; una volta rifugiatosi in cielo lo sguardo, anziché soffermarsi sulla presenzialità di questo mondo, vi scivolava su verso l’essenza divina, verso, se così si possa dire, una presenza fuori del mondo. L’occhio dello spirito dovette a forza venir rivolto al terreno, e qui venir trattenuto; e c’è voluto tempo assai prima di introdurre, nell’ottusità e nello smarrimento in cui si trovava il senso dell’al di qua, quella chiarezza che solo il sopraterreno possedeva, prima di riconsacrare all’interessamento umano quell’attenzione a ciò che è presente, la quale vien detta esperienza. – Ora sembra che ci sia bisogno del contrario; sembra che il senso sia talmente abbarbicato ai valori terreni, da rendersi necessaria altrettanta violenza a sollevarlo da questi. Lo spirito si mostra così povero, che sembra impetrare, per un po’ di ristoro, il magro sentimento del divino, simile al viandante che nel deserto brama una sola goccia d’acqua. Dalla facilità con cui lo spirito si contenta, si può misurare la grandezza di ciò che ha perduto.

Tuttavia quella discrezione nel ricevere e quella parsimonia nel dare, non giovano alla scienza. Chi cerca soltanto edificazione, chi pretende di avvolgere nella nebbia la terrena varietà della sua determinata esistenza e del pensiero, chi invoca l’indeterminato piacere di quella indeterminata divinità, veda pure dove possa trovare tutto ciò; egli troverà facilmente il mezzo di vagheggiare qualche fantasma e di farsene bello. Ma la filosofia deve ben guardarsi dal voler produrre edificazione” (8-9).

A Hegel dà particolarmente fastidio che questa rinuncia alla scienza pretenda di presentarsi come superiore alla scienza stessa.

“Questo parlare da profeti crede di restarsene nel centro e nel profondo della cosa; getta uno sguardo sprezzante sulla determinatezza (il horos) e, a bella posta, si tiene a distanza dal concetto e dalla necessità come da quella riflessione che sta di casa solo nella finitezza. Ma come c’è una vuota estensione, così c’è una vuota profondità; come c’è un’estensione della sostanza che si riversa in un’infinita varietà, senza aver forza di tenerla a freno, così c’è un’intensità priva di contenuto, la quale, comportandosi come la forza senza espansione, coincide con la superficialità. […] Mentre si abbandonano all’incomposto fermentare della sostanza, costoro, imbavagliando la coscienza e rinunciando all’intelletto, si ritengono i Suoi ai quali Iddio, durante il sonno, infonde la saggezza; ma ciò che durante il sonno essi effettivamente concepiscono e partoriscono altro non è che sogno” (10).

Il disprezzo di queste filosofie per la precisione e per l’attenzione al particolare è l’indice della loro superficialità e inconsistenza: il loro sapere si riduce ad arbitrio e fantasticheria. Questa tendenza sta, però, per essere travolta. Sta nascendo la nuova filosofia come scienza.

“Del resto non è difficile a vedersi come la nostra età sia un’età di gestazione e di trapasso; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione. Invero lo spirito non si trova mai in condizioni di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo. Ma a quel modo che nella creatura, dopo lungo placido nutrimento, il primo respiro – in un salto qualitativo – interrompe quel lento processo di solo accrescimento quantitativo, e il bambino è nato; così lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente; […]. Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell’intero, viene interrotto dall’apparizione che, come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo” (11).

E, come il neonato deve crescere, come una ghianda non è ancora la quercia in tutta la sua maestosità, così si deve attuare in tutte le sue determinazioni lo sviluppo del nuovo concetto di scienza filosofica. E questo sviluppo deve recuperare il sapere dell’intelletto astratto dell’età illuministica e metterlo a frutto sul nuovo terreno della scienza filosofica.

“Arrivare mediante l’intelletto al sapere razionale, questa è la giusta esigenza della coscienza che si accinge alla scienza” (13).

Solo per questa strada si supera l’opposizione tra l’istanza romantica del sapere immediato dell’Assoluto e quella illuministica dell’analisi precisa ma finita dell’intelletto. Il superamento romantico dell’illuminismo va superato col recupero dell’analisi illuministica nella nuova scienza, mentre vanno messi in evidenza i limiti della filosofia romantica della natura. Questa, infatti, pretende di applicare il nuovo principio della neonata idea assoluta senza mediazioni a ogni contenuto d’esperienza, che, così, “tuffato dal di fuori in questo statico elemento”, le resta estraneo.

Il procedere della filosofia romantica della natura diventa un vuoto “formalismo monocromatico” (15). Essa precipita e dissolve ogni differenza reale “nell’abisso della vacuità”, nell’idea dell’Assoluto concepito come l’assoluta identità.

“La considerazione della determinatezza di qualsivoglia esserci come si dà nell’Assoluto, si riduce al dichiarare che se ne è bensì parlato come di un alcunché; ma che peraltro nell’Assoluto, nello A = A, non ci sono certe possibilità perché lì tutto è uno. Contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, o alla conoscenza che sta cercando ed esigendo il proprio compimento, questa razza di sapere, che cioè nell’Assoluto tutto è uguale, – oppure gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, tutto ciò è l’ingenuità di una conoscenza fatua”(16).

Sferrato questo attacco pesantissimo all’amico Schelling, Hegel passa a spiegare la sua idea di sapere e di verità.

Il vero va inteso ed espresso “non come sostanza”, ma “come soggetto”.

L’unità del soggetto hegeliano va intesa come il risultato di un processo di composizione unitaria del molteplice, mediante il quale l’Assoluto si attua.

E si attua attraverso “la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo”. Infatti, la “vita di Dio” non può essere espressa fino all’insipidezza come semplice “gioco dell’amore con se stesso” (19).

“Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto e divenire-se-stesso” (20).

L’Assoluto è soggetto vivente. La verità è l’intero. Il negativo è momento importante nello sviluppo dell’intero.

Sta in questi principi il cuore della filosofia hegeliana. E nel chiarire questi principi Hegel apre una critica non troppo esplicita, ma radicale, anche alla concezione religiosa tradizionale di Dio. Essa, infatti, concepisce Dio come un ente fisso cui si applicano dall’esterno certi predicati.

“Il soggetto vien preso come punto fermo al quale, come a loro sostegno, i predicati aderiscono mediante un movimento che appartiene a chi sa di esso; ma che non si deve riguardare come appartenente al punto stesso; eppure solo mediante quel movimento il contenuto sarebbe rappresentato come soggetto. Dato il modo come quel movimento è costituito, esso non può appartenere al soggetto; d’altronde, presupposto quel punto, il movimento non può essere costituito diversamente: può soltanto essere esteriore” (23).

Se il soggetto è l’auto movimento che si realizza nel processo dialettico del reale, la sua realtà non può essere espressa come principio assoluto ed eterno posto staticamente all’inizio del sapere, ma può essere presentata solo come sistema: “Che il vero sia effettuale solo come sistema, o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’Assoluto come Spirito” (25).

Lo spirito è il soggetto che, attraverso la sua alienazione da sé, ritorna a se stesso e giunge alla piena autocoscienza. Agisce in questo pensiero l’idea cristiana di Dio che si fa uomo, muore in croce e trionfa come Dio risorto. Idea di cui c’era già un riflesso nel passo conclusivo di Fede e sapere, dove Hegel accennava alla morte di Dio, alla “durezza della sua assenza” del “Venerdì Santo speculativo”, dalla quale egli “può e deve resuscitare”.

Con la Fenomenologia dello spirito Hegel vuole portare la coscienza individuale e finita, quella dell’uomo della strada, attraverso un cammino tortuoso e dialettico, a rivivere come proprie le tappe dello sviluppo culturale già compiuto dall’umanità nella sua storia. Pensa così di promuovere la formazione umana fino alla maturità raggiunta dall’epoca storica in corso, quella che sta ormai giungendo alla pienezza del sapere assoluto.

L’approdo alla maturità filosofica, alla comprensione della vita dello spirito, non è affidato all’intuizione estetica di Schelling, ma al recupero dialettico della funzione dell’intelletto. In questo percorso il vero e il falso si rivelano non come entità a se stanti che si escludono, bensì come momenti contraddittorii di un intreccio vitale per la formazione filosofica.

Il dogmatismo, che ha come modello le verità matematiche e storiche, considera la verità un risultato fisso, che il soggetto conoscente raggiunge attraverso un processo che resta esterno al risultato. Infatti, il tempo, la fatica, l’esperienza che faccio per capire un teorema non aggiunge né toglie nulla all’oggettività definita e fissa del teorema stesso: “Il movimento della dimostrazione matematica non appartiene all’oggetto, ma è un operare esterno alla cosa” (42).

Questo modo di procedere ha il vantaggio dell’evidenza, di cui va orgogliosa la conoscenza matematica. Questa evidenza, però, si regge sulla povertà delle pretese del sapere matematico, sulla natura astratta, inerte, priva di vita, dei suoi oggetti. La filosofia, invece, non si occupa di elementi astratti, ma della realtà viva, considerata nella totalità dei suoi momenti vitali. La verità filosofica non è statica, si attua attraverso la forza del negativo e l’opposizione dialettica.

Il metodo della ricerca filosofica, pertanto, non si può esporre in una prefazione, prima della sua pratica, trattandosi di un metodo che non è esterno all’oggetto cui si applica, ma vive la vita e il movimento di questo. Il pensiero filosofico non deve applicare dall’esterno uno schema astratto, sia pur quello triadico, al suo oggetto, come fanno Schelling e i suoi seguaci con il loro formalismo nella costruzione della filosofia della natura. “Questa maniera di conoscenza finisce in una pittura assolutamente monocromatica”; affonda le differenze “nella vuotaggine dell’Assoluto” (51).

La vera filosofia si organizza “soltanto mediante la vita propria del concetto”; si cala nelle singole determinazioni del contenuto e, così, riesce, riconoscendone il movimento vitale interno a far emergere l’intero di cui sono elementi dialettici. Non sovrappone astrattamente una logica ai suoi contenuti, ma, abbandonandosi al loro movimento riconosce la loro natura concettuale e comprende che l’essere “è essenzialmente il pensiero”.

“La natura di ciò che è, è di essere, nel proprio essere, il proprio concetto; e in ciò sta, in generale, la necessità logica; essa sola è il razionale, il ritmo della totalità organica; essa è sapere del contenuto, non meno di quello che il contenuto sia concetto ed essenza […]. La concreta figura, muovendo se stessa, fa di sé una determinatezza semplice; si eleva quindi a forma logica, ed è nella propria essenzialità; il suo concreto esistere non è che questo movimento, ed è immediatamente esistenza logica. È perciò inutile addossare dall’esterno il formalismo al contenuto concreto; questo è, in lui stesso, il passare nel formalismo, il quale però cessa di essere formalismo esteriore, giacché la forma è essa stessa il connaturato divenire del contenuto concreto” (56).

Questa filosofia che si abbandona alla vita della cosa per comprenderne il movimento razionale interno, non solo si contrappone al dogmatismo, ma anche all’idea romantica che affida al genio l’accesso alla verità e non di meno all’idea semplicistica che la filosofia sia questione di buon senso. Per Hegel “urge che con la filosofia si ricominci a fare sul serio”, a considerarla lavoro faticoso, che richiede un esercizio di apprendimento molto rigoroso.

“Quanto alla filosofia genuina, noi vediamo come l’immediata rivelazione del divino e il buon senso, che non si è mai curato di coltivarsi né con la filosofia né con altra forma del sapere, si considerino senz’altro quale perfetto equivalente e ottimo surrogato della lunga via della cultura, di quel ricco e profondo movimento per cui lo spirito giunge al sapere, quasi come si decanta la cicoria quale surrogato del caffè. È penoso notare come l’insipienza e la grossolanità senza gusto né forma, incapace di fermare il pensiero su proposizioni astratte singolarmente prese, e ancor meno sul loro nesso, si atteggino ora a libertà e tolleranza del pensiero, ora a genialità. Quest’ultima, come oggi nella filosofia, imperversava un tempo in egual misura – com’è ben noto – nella poesia. Ma quando il produrre di questa genialità aveva un senso, esso, in luogo di poesia, partoriva della prosa triviale; se poi usciva dalla prosa, finiva in discorsi strampalati. Così oggi un filosofare naturale che disdegna il concetto, stimandosi, proprio in grazia dell’assenza di esso, un pensare intuitivo e poetico, getta sul mercato una serie di arbitrarie combinazioni nate da una fantasia per la quale il pensiero è solo un elemento di disorganizzazione: immagini che non sono né carne né pesce, né poesia né filosofia.

Viceversa, scorrendo tra i facili argini del buon senso, il filosofare naturale riesce tutt’al più a fornire una retorica di verità banali: se gli si mostra che queste non dicono nulla, esso assicura per contro di averne in cuore il senso e il contenuto, e che altrettanto deve avvenire negli altri, mentre presume di esser giunto, mercé l’innocenza del cuore e la purezza della coscienza e simili, a dire l’ultima parola, su cui non si possa sollevar eccezione, e oltre la quale non possa esigersi progresso alcuno” (68).

Questo soggettivismo che “fa appello all’oracolo interiore del sentimento”, rompendo la comunicazione con chi non senta in se stesso la stessa verità, “calpesta la radice dell’umanità”, che per natura “tende ad accordarsi con gli altri”. Questo fermarsi al sentimento è “non umano”, “animalesco”.

Hegel, però, è convinto che i tempi siano maturi per accogliere la sua rigorosa concezione del sapere filosofico.

“Dobbiamo persuaderci che la natura del vero è quella di farsi largo quando è arrivato il suo tempo, e che solo allora appare, quando il tempo è venuto; e che quindi non appare mai troppo presto, né trova un pubblico non maturo; dobbiamo anche persuaderci che l’individuo ha bisogno di questo evento per confermarsi in quella che è ancora la sua convinzione solitaria, e per esperire come un qualcosa di universale quella convinzione che dapprima appartiene solo al singolo” (71).

Torino 26 aprile 2016

Note

1 Hegel, Fenomenologia dello spirito, traduzione di Enrico De Negri, La Nuova Italia ed. 1960. In questa, come nelle citazioni successive, è indicato tra parentesi il numero del paragrafo.

ANNO ACCADEMICO 2015-16 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Cfr il saggio di Tony Smith


Testi di Hegel


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 04-12-2016