Considerazioni sulla storia della filosofia

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CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DELLA FILOSOFIA

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La storia della filosofia vera e propria andrebbe studiata da Platone a Hegel, saltando la parte medievale, poiché qui la filosofia si trasforma in teologia, nel senso che la riflessione non è più direttamente sull'uomo ma su dio, ovvero sull'uomo attraverso dio. Certo, tra l'essere della metafisica e il dio della teologia non vi è molta differenza: la principale forse sta nella tradizione, di cui i teologi dovevano tener conto, facendo essi parte di una struttura ecclesiastica determinata. Tuttavia, proprio perché il concetto di dio ha sempre rimandato ad un'esperienza religiosa particolare, è giusto che la trattazione del concetto di essere venga tenuta separata, non foss'altro che per distinguere il piano della ragione da quello della fede. L'oggetto della filosofia può apparire astratto non meno di quello della teologia, ma resta comunque un'astrazione nei cui confronti si è liberi di pensarla diversamente.

Se il credente si serve della propria fede secondo ragione, cioè se considera la propria religione entro i limiti della ragione, ciò è affar suo, è questione della sua coscienza, ma egli non può pretendere che il non-credente sia indotto a considerare la fede o la religiosità come un'esperienza della ragione. Ecco perché filosofia e teologia andrebbero trattate separatamente, anche nel caso in cui fossero considerate come fenomeni sovrastrutturali di una determinata società. In fondo né Platone né Hegel hanno mai pensato di confondere i due concetti di essere e di dio.

Con questo naturalmente non si vuole affermare che la teologia medievale non costituì un progresso rispetto alla filosofia individualistica, aristocratica e decadente del mondo greco-romano; si vuole semplicemente sostenere che gran parte della speculazione medievale non ha nulla a che vedere con la filosofia e andrebbe trattata come un argomento di teologia. Sarebbe interessante, sotto questo aspetto, verificare in che modo la teologia occidentale si è progressivamente separata da quella ortodossa dell'Europa orientale, in che modo si è rapportata alle teologie ebraico-islamiche e indo-buddiste, e in che modo si è scissa al suo interno nelle due correnti del cattolicesimo e del protestantesimo.

Il filosofo può accettare la teologia (e diventare così un filosofo religioso) solo se l'argomento religioso è una parte secondaria e opinabile del proprio sistema filosofico. Non dobbiamo infatti dimenticare che nell'ambito della teologia vi sono definizioni dogmatiche che nessun teologo (che voglia continuare a fare della teologia) potrebbe mai mettere in discussione. La teologia è sempre stata strettamente legata a un'esperienza pratica della religione - ciò che la filosofia ha sperimentato solo a livelli molto marginali.

Un teologo che ridiscute il dogma non ha scelta: o diventa filosofo o cambia confessione religiosa. E' stata comunque una caratteristica del protestantesimo quella di permettere a un filosofo di parlare come se fosse un teologo. D'altra parte questa confusione si verifica anche nelle teo-filosofie indo-buddiste.

Dunque se la filosofia accettasse gli argomenti religiosi come fondamentali, essa diventerebbe eteronoma, indimostrabile nei suoi enunciati. Di tutta la teologia medievale andrebbero ritenuti solo quegli aspetti che più da vicino possono riguardare la riflessione filosofica in senso stretto, che è orientata verso la laicità.

Dopo Hegel comunque si ha non più una "storia della filosofia", cioè una storia del tentativo di superare la teologia medievale, bensì una storia della "crisi" della filosofia, cioè una storia dell'impossibilità di superare quella teologia restando entro i limiti della filosofia.

Già nel momento in cui si formò la Sinistra hegeliana vennero poste le basi di un possibile tentativo di superamento della filosofia, il quale poi cercherà di realizzarsi, invano, nel marxismo. Il marxismo (sulla base dell'esperienza del "socialismo reale") è fallito proprio perché ancora troppo filosofico, cioè troppo ideologico. Sono gli uomini al servizio delle idee o le idee al servizio degli uomini?

Il problema più acuto della filosofia è che non ha un oggetto specifico sul quale misurare la propria credibilità. La filosofia borghese è astratta perché guarda le cose in maniera generica, dando definizioni che vogliono essere "di principio", ma che in realtà, al momento di applicarle, possono dare risultati quanto mai contraddittori. Ad es. se l'Europa avesse applicato i principi di Hume invece che quelli dell'idealismo, Nietzsche sarebbe nato molto tempo prima di Hegel.

La filosofia borghese ha questo di peculiare: quando è astratta (metafisica) pretende di risolvere ogni problema umano; quando è concreta (cioè legata a un oggetto particolare) è cinica e priva di valori.

Ecco perché bisogna costringere la filosofia borghese a misurarsi su di un terreno concreto (ad es. l'economia, la politica, la storia...): solo così è possibile scorgere le sue interne contraddizioni. Se invece la si lascia (cullare) nelle sue astrattezze, nei suoi voli pindarici, diventa più difficile smascherarla, poiché essa, con l'astuzia che si ritrova, è capace di dire una cosa e il suo contrario, oppure di dire una cosa e farne un'altra, lasciando aperte diverse possibilità interpretative e applicative dei suoi enunciati.

L'unico rilievo critico che le si può fare (se non si riesce a fare altro) è appunto quello di essere astratta, slegata da un contesto preciso, circostanziato: il che però può anche essere considerato il suo punto di forza, se l'alternativa all'astrazione è di scarsa consistenza. Questo perché la mancanza di riscontri concreti può facilitare gli atteggiamenti opportunistici, calcolatori, cioè la capacità di modificare le opinioni a seconda della convenienza borghese.

Nello studio della filosofia, per comprendere veramente le sue radici di classe, occorre quindi privilegiare i settori applicativi delle sue teorie (come ad es. la politica, la scienza, l'etica, l'estetica, la religione, il linguaggio...). Dalla filosofia applicata si può poi risalire, agevolmente, alla filosofia astratta, teoretica - sempre che questo sia indispensabile.

Oggi invece si parte dalla filosofia astratta e solo raramente ci si preoccupa di affrontare gli aspetti applicativi della stessa. Di Kant, per es., si studiano abbondantemente le tre Critiche, ma la Metafisica dei costumi, Per la pace perpetua, il Trattato di pedagogia, le sue concezioni gius-politiche e antropologiche, per non parlare di quelle scientifiche, vengono scarsamente prese in considerazione. Eppure, partendo da queste, si potrebbe facilmente risalire alle Critiche, e là dove non fosse possibile, si potrebbe azzardare che forse il danno non è così grande.

Naturalmente non si deve mai aver la pretesa di dire che una scienza non astratta (come ad es. l'economia o la politica), può sempre dimostrare di avere, a differenza della filosofia, dei concetti "chiari e distinti". L'astrattezza di una scienza è insita proprio nel fatto che viene trattata in maniera borghese.

L'ambiguità di un concetto (si pensi ad es. a quello di democrazia o di libertà) è presente in qualunque scienza, persino in quelle naturali. Quanto più l'ambiguità si fa ristretta, tanto meno il concetto ha un valore universale. La capacità di un concetto di mobilitare le masse è tanto più grande quanto più grande è la sua ambiguità. Naturalmente le masse non si muovono solo perché esistono concetti di tal genere!

E tuttavia, nell'ambito delle scienze concrete, applicate, si può verificare meglio il tipo di realizzazione pratica del concetto. In tal caso, per comprendere un determinato concetto, gli uomini non hanno a disposizione solo altri concetti, ma l'esperienza concreta, che possono verificare personalmente.

Ecco perché la filosofia teoretica, metafisica, oggi non ha più ragione d'esistere. Anche quando si fanno delle osservazioni etiche di carattere generale, bisogna sempre riferirsi a qualcosa di determinato sul piano spazio-temporale. Altrimenti i discorsi astratti, fumosi, servono solo al sistema per riprodursi senza modificarsi. La metafisica può insinuarsi, in qualunque momento, anche nelle scienze più concrete. E vi riesce tutte le volte che si perde il contatto con la realtà.

SULLA CONTRADDIZIONE

Il principio aristotelico di non-contraddizione si basa sull'evidenza ed è una formalizzazione logica ma elementare. Quello di negazione della negazione di Hegel si basa invece sulla mediazione ed è una formalizzazione logica e complessa, che implica la consapevolezza cristiana del "peccato", cioè la possibilità di fare il male conoscendo il bene. Ciò che la filosofia greca non avrebbe mai ammesso, poiché bene e male si escludono a vicenda.

Aristotele temeva di cadere nel relativismo di Protagora o nel panta rei di Eraclito, affermando che A può essere, nel contempo, uguale e diverso da B. Per un greco era più facile credere che nell'assoluto divenire l'essere perdesse ogni consistenza, piuttosto che pensare coincidenti essere e divenire.

Hegel invece era convinto che da A scaturisse sia il positivo che il negativo, e che anzi il negativo avesse una funzione più importante del positivo, poiché permette la differenza e quindi la sintesi. Il negativo non solo è l'inevitabile opporsi del non-essere all'essere, ma anche il necessario opporsi, poiché rafforza il positivo.

Il torto di Hegel non sta dunque nell'aver dato dignità all'antitesi, ma nell'averle impedito di dotarsi della stessa forza mediatrice della tesi. L'antitesi, per Hegel, non è che un prodotto derivato (alienato) della tesi, la quale si deve soltanto preoccupare di riassorbirlo con lo strumento della dialettica. Solo così la negazione ha senso.

Viceversa, Marx ha dimostrato (parlando del proletariato) che l'antitesi ha vita propria, ha una propria autonomia, e che, una volta postane l'esistenza, essa può anche determinare una sintesi imprevedibile per la tesi.

Hegel accettò l'idea di contraddizione solo dal punto di vista filosofico o metafisico, come una possibilità reale di cui tener conto, ma poi non è sceso nei particolare, cercando di capire la sostanza fenomenica (sociale) di tale contraddizione.

LA COINCIDENTIA OPPOSITORUM

La coincidentia oppositorum, che è il principio universale supremo, in virtù del quale acquistano significato tutte le cose, è stato affermato, per la prima volta, da Eraclito, ma come se fosse un'azione fine a se stessa, senza vera sintesi razionale, finalistica: un fenomeno oggetto di mera contemplazione.

Poi è stata la volta di Cusano, che però ha riferito il fenomeno alla sola divinità, lasciando la realtà storica in balìa delle proprie contraddizioni.

Bruno, invece, essendo un materialista, l'ha attribuito alla natura (e Schelling l'ha imitato).

Fichte ha tentato di realizzare la coincidentia nell'Io trascendentale, ma ha fallito l'obiettivo. Il compito era troppo arduo. Nell'Io vi potrà essere coincidentia quando il reale sarà già stato riconciliato. Sotto questo aspetto, Kant, escludendo la sintesi, è stato più moderato e realistico.

L'unico che abbia saputo applicare questa teoria alle vicende del genere umano (e dell'universo in senso lato), è stato Hegel, il quale ha voluto non solo immanentizzare il processo, ma anche razionalizzarlo, dandogli una valenza teleologica. Il limite di Hegel sta nell'aver applicato l'idea alla realtà, tralasciando l'esame socio-economico di quest'ultima.

Marx, dal canto suo, ha saputo riempire di contenuto concreto una forma, quella hegeliana, che altrimenti sarebbe rimasta vuota, astratta, arbitraria, perché meramente filosofica. In effetti, considerare lo Stato prussiano o la stessa filosofia hegeliana come "sintesi finale degli opposti", o ritenere che la natura rappresenti il "non-essere" - ciò non ha molto senso, essendo il frutto di un pregiudizio nazionalistico o quanto meno metafisico.

Gli opposti si attraggono per completarsi, ma si respingono per salvaguardarsi nella loro specifica identità. L'identità è data dal rapporto ma quando un elemento tende a prevalere sull'altro, scatta l'opposizione, cioè l'esigenza della diversità.

L'uguaglianza va affermata nella diversità. Anzi, se non ci fosse l'idea di diversità non ci sarebbe neppure quella di uguaglianza, poiché questa ha senso solo fra cose diverse.

L'uguaglianza che livella le diversità, elimina anche le identità, cioè le fagocita, le strumentalizza, le reprime -questo è stato il limite del socialismo amministrato.

Il limite del capitalismo invece è quello di valorizzare al massimo quelle diversità utilizzabili ai fini del profitto, rinunciando a realizzare l'idea di uguaglianza e giustizia sociale (a meno che l'uguaglianza affermata non sia del tutto formale, onde realizzare profitti nella maniera più facile).

Nell'uguaglianza si valorizza meglio la diversità, mentre nella diversità, se non c'è anche l'uguaglianza, all'uguaglianza non si arriva mai. Il socialismo può democratizzarsi valorizzando la diversità, ma il capitalismo non può democratizzarsi, poiché l'idea di uguaglianza sociale lo contraddice alle fondamenta.

Gli opposti dunque si attraggono per realizzare l'uguaglianza e si respingono per salvaguardare la diversità.

SULLA DIALETTICA

Aristotele affermò che Zenone d'Elea aveva inventato l'arte della dialettica, che consiste nel mettere l'interlocutore in uno stato di confusione, mostrandogli che due tesi opposte possono essere entrambe giustificate.

In realtà, questa non era la dialettica, ma la sofistica: cioè la cavillosità, la pedanteria e il vuoto fraseologismo di chi non ha le idee chiare e vuole che anche gli altri non le abbiano. La dialettica qui è uno strumento del vaniloquio, il quale, a sua volta, tende a coprire interessi ben più "materiali".

Con Platone la dialettica consiste nel salire, di concetto in concetto, alle verità più generali, cioè alle idee. Ma anche qui non si tratta di dialettica, quanto di una mera tecnica espositiva che passa dal semplice al complesso o dalla complessità delle cose alla loro unità concettuale. La dialettica serviva a Platone non per dimostrare qualcosa di nuovo, ma per ribadire, servendosi della logica, una teoria vecchia, considerata apodittica, sulla cui verità non sarebbe stato, in realtà, neanche il caso di discutere.

Kant mette in crisi questo modo di usare la dialettica, che praticamente caratterizzò tutto il periodo medievale e tutto il razionalismo. Nella "dialettica trascendentale" della Ragion pura, egli, a chiare lettere, afferma che tutto quanto si ha la pretesa di dire su dio, anima e mondo, può essere contraddetto dal suo contrario, con pari valore argomentativo. La dialettica quindi non serve a nulla, quando sono in causa idee della ragione, oggetto di metafisica, che oltrepassano l'esperienza.

Qui Kant aveva l'ambizione di superare lo stesso empirismo che, a suo giudizio, finiva col diventare dogmatico, nel proprio scetticismo, non meno del razionalismo cartesiano, col proprio fideismo. L'agnosticismo di Kant voleva porsi in alternativa all'ateismo degli empiristi inglesi: in realtà fece un passo indietro. I fatti hanno dimostrato che la riproposizione del problema dell'esistenza di dio e dell'anima e dell'origine dell'universo - dopo che l'empirismo era già arrivato a negare qualunque valore alla metafisica - ha portato Kant non solo all'agnosticismo della Ragion pura, ma anche al deismo della Ragion pratica. Kant non aveva capito che l'oggettività può esistere anche nell'esperienza nel noumeno, a prescindere da qualunque valenza religiosa o metafisica, e naturalmente a condizione di accettare la piena conoscibilità dello stesso noumeno.

Viceversa, Hegel fece dell'antitesi un aspetto più necessario del dovuto, ai fini dell'affermazione e della stessa autoconsapevolezza della tesi. S'egli avesse applicato la dialettica a posteriori, cioè partendo dai fenomeni, e non a priori, partendo dal concetto, probabilmente non avrebbe ritenuto il "male" una necessità all'affermazione del "bene".

Guardando le cose realisticamente, si dovrebbe essere indotti a credere che il male è una possibilità (di cui si deve tener conto, soprattutto quando si manifesta come realtà), ma non è mai una necessità inevitabile. E' una necessità se le condizioni in cui nasce non mutano, cioè se lo rendono inevitabile, ma il mutamento delle condizioni va sempre considerato come una possibilità reale, da non escludersi a priori, per cui anche il male non può mai essere considerato, in ultima istanza, secondo il carattere della ineluttabilità.

Anche quando Hegel riteneva che il nulla fosse già incluso nell'essere, o che l'uomo fosse naturalmente incline al male, in ciò egli rifletteva un condizionamento dovuto alla teologia protestante.

LE IDEE UNIVERSALI E NECESSARIE

L'idealismo può anche aver ragione nel ritenere che debbano esistere idee universali e necessarie, valide per ogni tempo e spazio geografico, ma ha sicuramente torto nel ritenere migliori le proprie idee, e ha ancora più torto quando pretende d'imporle a tutta l'umanità.

Più che sul terreno astratto delle idee, l'idealismo dev'essere combattuto su quello concreto della coerenza pratica. Una filosofia che pretende di far valere la propria superiorità con la forza è, ipso facto, una filosofia regressiva. Come lo è stato il cattolicesimo romano al tempo della Scolastica.

Quanto poi al principio idealistico relativo all'esistenza di idee universali e necessarie, bisognerebbe precisare che il modo concreto di realizzare tali idee differisce enormemente da un popolo all'altro, da una nazione all'altra, da un'epoca storica all'altra.

Un'idea universale e necessaria può essere quella di libertà, un'altra quella di verità, un'altra ancora quella di giustizia. Ma è facile rendersi conto che quanto per noi oggi è "libertà", un secolo o due secoli fa poteva apparire "arbitrio". Per non parlare del fatto che persino oggi esistono sul concetto di "libertà" opinioni del tutto opposte.

Solo con un'analisi storica, relativa alle condizioni sociali e al patrimonio culturale di una determinata epoca, si può comprendere più o meno adeguatamente il limite entro cui poteva essere affermata l'idea di libertà, verità o giustizia. Con un'analisi storica del genere, noi siamo in grado di stabilire dov'era presente il "progresso" e dove la "reazione" - e questo anche se il progresso di allora sarebbe per noi reazionario, se oggi fosse riaffermato. I valori umani universali sono in realtà un obiettivo da conseguire più che un'evidenza da riconoscere. La loro "universalità" potrà essere solo il frutto di un confronto reciproco, alla pari.

Si tratta quindi d'individuare non solo la concretezza spazio-temporale del valore, non solo i limiti entro cui, storicamente, esso poteva porsi (riuscendo o non riuscendo a farlo), ma anche quella linea di continuità storico-evolutiva che permette di cogliere le varie epoche storiche, civiltà o formazioni sociali, come fra loro concatenate, tanto che il significato dell'una risulterebbe incomprensibile senza l'apporto dell'altra. Epoche, civiltà e formazioni che tendono tutte, anche senza saperlo, verso una sempre maggiore autoconsapevolezza umana dei valori della libertà, della verità, della giustizia e di altri valori ancora.

HEGEL E IL CRISTIANESIMO

1. Hegel nacque in una benestante famiglia luterana di idee politiche conservatrici. Da giovane studiò teologia, ma, interessato com'era alla Rivoluzione Francese, non sopportava i concetti cristiani di rivelazione, autorità, miracoli ecc., cioè i concetti indipendenti dalla fede del credente. Voleva una religione entro i limiti della ragione universale (come Kant, Fichte...).

2. I suoi primi tre libri, mai pubblicati per timore di conseguenze sulla sua carriera accademica, furono: Religione di popolo e cristianesimo, Vita di Gesù e La positività della religione cristiana (1793-96).

3. Hegel si scaglia contro il cristianesimo perché lo considera lo strumento principale della conservazione del regime prussiano, dispotico e aristocratico. Lottare contro il cristianesimo (che predica l'obbedienza alle autorità costituite) per Hegel significa lottare, indirettamente, contro la politica del governo prussiano.

4. Al cristianesimo Hegel preferisce la religione popolare (politeistica) delle antiche città-stato greche e della Roma repubblicana, basata sul sentimento, sulla tradizione della polis, sulla morale comune, senza dogmi, comandi o divieti. Era una religione naturale e soggettiva, non giuridica né dogmatica. Essa rispecchiava un tipo di vita democratico, egualitario.

5. Il giovane Hegel non era ateo, ma agnostico-deista e considerava la religione come uno strumento di educazione per il popolo (la filosofia invece era per gli intellettuali).

6. In questi tre libri Hegel sostiene anche che il cristianesimo nasce quando lo Stato antico repubblicano entrò in crisi, cioè quando la ricchezza ottenuta con le guerra portò alla decadenza morale: la virtù del cittadino comune sostituita dalla tirannia del singolo imperatore e di pochi aristocratici, con cui si cercò di conservare il potere acquisito.

7. Il cristianesimo, secondo Hegel, isola l'uomo dalla comunità, portandolo ad accettare la situazione così com'è. Lo schiavo, infatti, è il tipico credente, per il quale la vita eterna diventa il risarcimento di una vita terrena priva di valore. Lo schiavo obbedisce prima alla Chiesa e poi allo Stato. In questo senso il cristianesimo diventa la religione della vita privata, per la redenzione del singolo.

8. Una volta giunto al potere il cristianesimo, convinto di avere il monopolio della salvezza, si ritiene migliore di ogni altra religione e cultura: di qui le crociate, il colonialismo in America e la tratta dei negri. Da un lato quindi il cristianesimo è servilismo, dall'altra è tirannia.

9. Il Cristo dei Vangeli predicava una religione naturale, senza dogmi, fondata su una morale razionale, umana, ma le sue idee vennero strumentalizzate dagli ambienti cristiani di potere. D'altra parte lo stesso Cristo fece dei suoi discepoli una comunità chiusa, settaria (anche se egualitaria). Viceversa, i discepoli di Socrate diventarono statisti, generali, insegnanti...

10. Qualche anno dopo (durante la crisi di Francoforte), Hegel la pensa già diversamente, a motivo della sua mutata posizione nei confronti della Rivoluzione Francese, di cui accetta solo il fatto che dovesse accadere (per lo sviluppo dell'epoca moderna), ma non la conclusione giacobina e il Terrore.

11. Nel libro Lo spirito del cristianesimo e il suo destino ('98-99), il cristianesimo viene visto come religione non di potere ma dell'amore, in quanto avrebbe cercato di conciliare la volontà di Dio (determinata dalla necessità) con quella degli uomini (determinata dalla possibilità), senza però riuscirvi.

12. L'amore infatti non può essere realizzato sulla terra, perché è un ideale irraggiungibile. Cristo non poteva che morire tragicamente. All'amore bisogna preferire il concetto di vita, che include anche gli aspetti negativi dell'esistenza (da accogliersi come una necessità del destino).

13. Il cristianesimo ha aiutato gli uomini a non rassegnarsi, ma li ha portati anche all'illusione. Il vero realismo è solo quello che può essere offerto dalla filosofia, che è in grado di comprendere e giustificare ogni cosa.

14. Nella Fenomenologia dello spirito (1807) Hegel dirà che la coscienza religiosa medievale è infelice, perché desidera Dio e non può raggiungerlo. Il servo della gleba accetta di essere sfruttato dal feudatario, perché da un lato, trasformando la natura col suo lavoro, sa di avere una dignità superiore, mentre dall'altro aspira a una ricompensa ultraterrena.

15. Hegel, in questo senso, preferisce la soluzione rinascimentale, che permette all'uomo di concentrare gli sforzi della ragione verso una realizzazione concreta, sul piano sociale, scientifico ecc. Il Rinascimento ha fallito perché individualistico. La Prussia e la cultura tedesca hanno invece un grande senso dello Stato.

16. In ogni caso il Cristianesimo resta la religione più perfetta (ora Hegel ne accetta i dogmi), ma solo in quanto esso esprime come rappresentazione (simbolica) ciò che la filosofia può esprimere in concetti razionali, per cui la filosofia resta superiore alla religione.

HEGEL (1770-1831) - QUADRO GENERALE SINTETICO

Il giovane Hegel era stato favorevole agli ideali della Rivoluzione francese, perché non sopportava la società aristocratica della Prussia (Germania), né il dominio della religione cristiana (protestante) sulla ragione (filosofica): era rischioso dichiararsi atei o agnostici o deisti.

Ma quando la Rivoluzione francese finisce nel Terrore, Hegel diventa un conservatore. Di tipo particolare però: perché la sua ambizione è quella di conciliare la società aristocratica prussiana con gli ideali democratici francesi, usando soprattutto lo strumento della filosofia.

Hegel cioè è convinto che se la Prussia eredita, sul piano filosofico, gli ideali della Riv. Fr., non avrà bisogno di fare sul piano politico, la rivoluzione democratico-borghese (oppure la farà senza le conseguenze del Terrore).

Ecco perché la sua filosofia è estremamente idealistica (deve suscitare una grande fiducia nella ragione filosofica), onnicomprensiva (ogni aspetto del sapere deve essere analizzato), razionale (cioè logica, rigorosa, per dimostrare la sua superiorità rispetto ad ogni altra filosofia), oggettiva (strettamente legata alla società aristocratica prussiana).

Lo strumento principale che Hegel ha usato per costruire la sua filosofia è stato quello della dialettica. Hegel è stato il primo filosofo della storia a sostenere che le contraddizioni del pensiero e della vita sociale sono un aspetto positivo che aiuta l'umanità a progredire.

La dialettica è lo strumento che permette di capire qual è la verità delle cose. Questa verità la si può capire pensando che:

1. le cose hanno senso solo se contraddittorie e conciliabili (gli opposti non vanno esclusi ma mediati);
2. conciliare gli opposti significa che uno va superato nell'altro, secondo la formula di Hegel la sintesi è la negazione della negazione;
3. tale superamento ha senso solo se avviene dal semplice al complesso (dal più basso al più alto) e dalla quantità alla qualità;
4. e ha senso a condizione che sia infinito, per cui la sintesi che si ottiene deve trasformarsi in tesi per essere poi superata da una nuova antitesi e così via.

Dunque dove sta la verità? Nello svolgimento delle cose, nel divenire della realtà... La verità è sempre relativa: diventa assoluta quando è conforme alla logica dello sviluppo delle cose, ma questo è possibile capirlo solo a posteriori, quando le cose sono già accadute.

La verità assoluta è il risultato di un processo che avviene in maniera necessaria, perché solo la categoria della necessità dà un senso logico alle cose.

Prima di giungere alla verità assoluta, l'uomo deve limitarsi a conseguire la verità oggettiva, superando quella soggettiva: il che è possibile conformando il proprio desiderio alle possibilità effettive di realizzarlo.

La filosofia può partire dall'esame fenomenologico della realtà, ma deve concludersi con la logica (uso del sillogismo).

Perché, pur avendo scoperto i princìpi fondamentali della dialettica, Hegel è sempre stato considerato un filosofo conservatore? E' semplice: perché questi princìpi egli non li ha mai applicati alla propria filosofia e alla società prussiana.

Hegel è rivoluzionario quando usa la dialettica come metodo, ma è conservatore quando considera la sua filosofia e la Prussia come un sistema chiuso, insuperabile. Egli è caduto in questa contraddizione perché ha circoscritto la liberazione del cittadino tedesco nell'ambito del solo pensiero. Da questo punto di vista bisogna dire che il suo concetto di verità è in realtà aprioristico, perché tutto viene misurato a partire dalla presunzione che il sistema filosofico hegeliano e la società prussiana siano le migliori conquiste dell'umanità.

Infatti, nella Filosofia del diritto (1821) - l'ultimo scritto di rilievo - Hegel dirà che:

1. la filosofia ha solo il compito di interpretare il mondo, non di trasformarlo (sua opposizione ai docenti di idee liberali);
2. la verità di una realtà (p.es. la Prussia) può essere decisa solo dal filosofo, l'unico capace di vera razionalità;
3. la realtà sociale e istituzionale più importante della Prussia è lo Stato (famiglia e società civile devono restargli subordinate).

Lo Stato ha una sovranità assoluta e illimitata, che va al di là della morale e del diritto. Hegel esalta il concetto di ragion di stato, nonché gli strumenti della pena di morte per punire i delitti e della guerra per rinnovare popoli e nazioni. Anche la stirpe germanica viene esaltata su tutte.

Cfr il saggio di Tony Smith


Testi di Hegel


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 04-12-2016