Essere e Nulla nella Logica di Hegel

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ESSERE E NULLA NELLA LOGICA DI HEGEL

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Logica ateistica e conservativa

Nella Scienza della Logica Hegel ha una strana concezione dell'essere. Lo ritiene un "concetto in sé" (§ 84), un "puro pensiero" o "l'immediato indeterminato, semplice" (§ 86). "L'essere può essere definito come Io=Io, come l'indifferenza o identità assoluta" o "intuizione intellettuale" (ib.), una sorta di "definizione metafisica di Dio" (§ 85). Tuttavia, per lui, la definizione che ne davano gli Eleati: "l'assoluto è l'essere", è "la più astratta e la più misera" (§ 86).

Su questi suoi pensieri, abbastanza sconcertanti (tanto più per un idealista), in quanto, a suo parere, un essere di tal fatta non vale nulla, anzi coincide col nulla (e qui sembra prendersela coi teologi alla F. H. Jacobi), è costretto però a scrivere ben due Aggiunte.

Nella prima spiega che se questo essere non si manifesta all'uomo, resta del tutto inconoscibile, per cui che esista o non esista materialmente, è per l'uomo del tutto irrilevante. Qui, in sostanza, fa lo stesso ragionamento di Fichte: il noumeno kantiano non può essere pensabile e insieme inconoscibile; o è conoscibile o non esiste. Hegel non nega ovviamente ed esplicitamente la sua esistenza (altrimenti avrebbe potuto dire addio alla sua carriera di docente), ma si limita a precisare che, finché esso non si estrinseca, non si media in qualcosa, la sua esistenza è del tutto astratta e quindi irrilevante per l'uomo: "non è qualcosa di cui si possa avere sensazione, intuizione o rappresentazione" (Aggiunta n. 1).

Più significativa dell'essere è l'essenza, poiché essa non è priva di mediazioni. Far coincidere l'essere col nulla è, per la teologia, una chiara forma di ateismo o, nel migliore dei casi, di panteismo, e nessun teologo si farebbe convincere del contrario sentendo Hegel che equipara l'essere a dio o che parla di dio alla maniera scolastica, come di un "ente realissimo" (§ 86). Qui infatti è evidente ch'egli fa delle concessioni per puro opportunismo, essendo rettore di un prestigioso ginnasio a Norimberga e intenzionato a diventare accademico a Heidelberg.

Nella Aggiunta n. 2 ci tiene a precisare che, scrivendo un testo di logica, doveva per forza partire dalla dottrina dell'essere, che nel mondo greco coincideva con l'inizio della stessa filosofia. Cosa, in realtà, non vera, in quanto quella filosofia inizia con una riflessione sulla natura, in opposizione alla mitologia classista del mondo aristocratico. La filosofia parmenidea, nella sua astrazione relativa all'essere che non può non essere, rappresentava già un passo indietro rispetto alla concretezza e alla democraticità della filosofia della natura.

Cioè sin dalle primissime pagine della Logica Hegel vuole essere chiaro: è solo il pensiero che conta. Solo a partire da Parmenide "il pensiero puro è stata affermato ed è divenuto oggetto a se stesso" (Aggiunta n. 2); "soltanto mediante il pensiero gli uomini si distinguono dagli animali" (ib.). Gli Eleati però - secondo lui - "sarebbero andati troppo oltre" (ib.), "avendo negato ogni verità a tutto ciò che costituisce altrimenti l'oggetto della nostra coscienza" (ib.).

Quindi, da un lato Hegel si riallaccia a Parmenide, in quanto ritiene l'astrazione del pensiero superiore a qualunque realtà concreta; dall'altro però vuole che la realtà concreta acquisti una verità indiscutibile da parte del pensiero.

Hegel ha una concezione dell'essere del tutto astratta, ma siccome non vuole apparire come un teologo, arriva a dire che l'essenza è più importante dell'essere; e siccome vuole restare filosofo, deve per forza arrivare a dire che il concetto è più importante dell'essenza. Riduce l'essere a un'astrazione concettuale, presume di dargli consistenza attraverso una mediazione materiale (l'essenza, che è la natura, il mondo), per poi ribadire che l'essere altro non è che un pensiero, non puro come in origine, ma ricco di significative determinazioni, quelle che si ottengono grazie alla dialettica degli opposti, secondo cui l'essere si rovescia nel nulla, in modo tale che insieme formano un divenire, secondo la dottrina eraclitea, che considera essere e nulla equivalenti, dipendenti entrambi dal divenire.

A Hegel non interessa né dare una definizione di essere (in quanto, finché questi rimane tale, resta indicibile), né una definizione di nulla, ma gli interessa soltanto il passaggio, la transizione dall'uno all'altro, che avviene a causa di una contraddizione strutturale, presente nello stesso essere. Il quale, a quanto pare, non è pago di sé, o comunque è qualcosa che si sente indotto a estrinsecarsi in un oggetto. La contraddizione non è altro che un desiderio insoddisfatto, un "impulso", qualcosa che vuole prendere forma uscendo dalla purezza originaria, vaga e indeterminata.

Se questo essere è dio, bisogna aggiungere - dice Hegel al § 87 - che questo ente supremo "non è nulla", cioè è una "negatività", un "ineffabile", una "semplice opinione". Ora, se non è ateismo questo, che cos'è? Scrive nell'Aggiunta al § 88: "è di scarso interesse anche il problema dell'essere di Dio, giacché Dio è in sé infinitamente concreto". Si noti quindi l'antinomia delle due affermazioni: una ateistica e l'altra fideistica. Come potrebbero stare insieme se non in maniera ambigua?

Egli dice chiaramente di rifarsi alla filosofia buddista, quella per cui essere e nulla coincidono: "il nulla di cui i buddisti fanno il principio di tutto" (§ 87); "alla definizione di Dio come semplice essere, si contrappone con ugual diritto quella dei buddisti, secondo cui Dio è nulla" (Aggiunta). Persino l'uomo può diventare dio nella misura in cui "annulla se stesso" (lo dice sempre in riferimento al buddismo).

Hegel ha una concezione del nulla come di qualcosa che, se non esistesse il divenire, impedirebbe all'essere di essere se stesso, di autoidentificarsi. L'essere, quindi, in sé non ha alcuna vera autonomia. Il nulla (o non-essere) non è qualcosa che entra in gioco quando l'essere si formalizza, perde di spessore o di autenticità; il nulla non rappresenta una nuova possibilità, una nuova forma di vita al cospetto delle contraddizioni insolute dell'essere. Ma è soltanto un mezzo, uno strumento che serve all'essere per confermare se stesso. L'essere ha un rapporto meramente strumentale col nulla, e il divenire non è che un passaggio dall'essere al nulla, per far sì che l'essere torni ad essere quel che è, in maniera potenziata, arricchita dall'esperienza, dall'essenza in cui si è manifestato.

In sostanza Hegel sembra sì fare un discorso ateistico, ma all'interno di un impianto conservativo. Fa coincidere l'essere col nulla per differenziarsi dal modo teologico di vedere le cose, ma poi fa dell'essere un'idea che deve giustificare l'esistente. La contraddizione che muove l'essere verso l'essenza è sempre relativa, sempre mediabile, componibile, proprio perché viene affrontata unicamente con gli strumenti astratti del pensiero filosofico.

A Hegel interessa senza dubbio la relazione, ma deve essere una relazione che conferma qualcosa di già esistente. Una tale concezione filosofica porta, sul piano politico, al paternalismo delle istituzioni. Queste cioè si preoccupano di tener conto delle opposizioni al sistema, accettando alcune loro rivendicazioni, a condizione però che il sistema, nel suo complesso, nelle sue linee di fondo (che sono autoritarie), venga confermato.

L'opposizione tra essere e nulla è quindi sempre molto relativa: non esistono, nell'impianto logico e metafisico di Hegel, delle contraddizioni irriducibili o irrisolvibili, per le quali occorre un affronto radicale, risoluto (Marx dirà "rivoluzionario"). "La filosofia è la dottrina che ha lo scopo di liberare l'uomo da una serie infinita di scopi e di intenti finiti e di renderglieli indifferenti... " (§ 88). Cioè è la dottrina filosofica che deve indurre l'uomo a relativizzare i suoi problemi personali e a guardare gli interessi nazionali, il bene dello Stato, che rappresentano l'essere determinato, privo di "irrequietezza", proprio perché "unilaterale e finito".

L'ATEISMO IMPLICITO DI HEGEL

Sicuramente Hegel è stato un grande filosofo quando ha avuto il coraggio di dire che non solo non può esistere un noumeno pensabile (o desiderabile) e inconoscibile, come diceva Kant (in questo già criticato da Fichte, il quale aveva aggiunto che tutto ciò che non è pensabile non esiste); ma arrivò anche a dire che il pensabile, solo perché pensato, è reale, è esistente. Cioè il noumeno in realtà è soltanto un fenomeno razionale, in quanto se fosse soltanto un essere privo di estrinsecazione (che lui chiama "essenza") sarebbe equivalente a un nulla.

Tutto può essere considerato virtualmente esistente se il pensiero lo pensa in maniera logica. Di qui il famoso principio hegeliano: "ciò che è reale è razionale e viceversa". Il che voleva dire che il pensiero serve per trovare nella realtà il senso razionale delle cose (i nessi logici), e quando l'ha trovato, la realtà gli corrisponde adeguatamente. Ecco perché egli accettò la prova anselmiana dell'esistenza di dio: di ciò di cui non possiamo pensare nulla di maggiore, quello è dio. Accettò la prova sul piano logico, anche se non necessariamente egli avrebbe detto - essendo un filosofo e non un teologo - che l'assoluto è dio. L'assoluto può essere anche il pensiero autoconsapevole, l'universo cosciente di sé, cioè l'uomo stesso che pensa sapendo di pensare.

Quello che di Hegel va rifiutato è il processo di sintesi tra tesi e antitesi. Non perché vada negata la causalità dei fenomeni storici o naturali. Non perché non si debba credere nel principio secondo cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Ma semplicemente perché la sintesi non può essere una mera tesi potenziata. Cioè se si vuole considerare positivamente l'antitesi - come lui ha fatto -, bisogna essere coerenti sino in fondo, arrivando ad ammettere ch'essa può essere anche più importante della tesi.

Quando nella Fenomenologia dello Spirito parla del rapporto contraddittorio tra servo e padrone, la tesi è il padrone, il servo è solo l'antitesi. Tra questi due soggetti non ci può essere mediazione o sintesi. Se l'antitesi ha la stessa dignità della tesi, anzi, se sente di averne di più, proprio perché oggetto di sfruttamento, essa non può cercare un compromesso con chi la opprime, ma deve lottare per emanciparsi completamente. L'antitesi (il servo della gleba o l'operaio salariato) può essere stata causata dalla tesi, ma, una volta posta, essa acquista una propria autonoma personalità, che, in questo caso, non ha nulla a che vedere con quella del feudatario o del capitalista. L'opposizione è irriducibile. Se la sintesi è un mero potenziamento della tesi, chi ci rimette è sempre l'antitesi. Sotto questo aspetto faceva bene Kierkegaard a parlare di aut-aut e non di et-et.

Con questo non si ha intenzione di dire che la contraddizione non sia il motore della storia, il significato della natura, l'essenza dei rapporti umani. Si vuol semplicemente dire che bisogna uscire, definitivamente, dalle contraddizioni antagonistiche, che, per definizione, non possono essere conciliate, mediate, pacificamente risolte. L'antitesi deve diventare tesi, ma senza dover provocare una nuova antitesi irriducibile.

Hegel era continuamente a favore della mediazione perché vedeva le cose come un filosofo, non come un politico; tutti gli antagonismi erano per lui filosoficamente componibili. Inevitabilmente egli, sul piano politico, si poneva come un conservatore. Tra tesi e antitesi era solo la tesi che andava conservata; l'antitesi andava ricompresa, sussunta. Quando usa la parola Aufhebung (intraducibile in italiano) intende appunto qualcosa che va, nel contempo, superato e conservato. Ciò che si conserva, più che l'antitesi, è la tesi, la quale, nel confronto dialettico con l'antitesi, si arricchisce di nuove potenzialità, di una nuova consapevolezza.

Così facendo però, il processo dialettico non esce dai limiti del paternalismo. Le istituzioni accettano di confrontarsi con le opposizioni, ma solo per poter essere confermate nel loro autoritarismo. La mediazione è una finzione, uno sforzo moralistico, un'attività diplomatica, un puro e semplice negoziato tra due soggetti che, in ultima istanza, non muteranno di molto le rispettive posizioni di partenza, anche perché l'antitesi continuerà a restare subordinata alla tesi divenuta sintesi.

Cfr il saggio di Tony Smith


Testi di Hegel


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 04-12-2016