IL GIOVANE HEGEL, UN ILLUMINISTA INNAMORATO DELLA GRECIA CLASSICA

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IL GIOVANE HEGEL, UN ILLUMINISTA INNAMORATO DELLA GRECIA CLASSICA

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Giuseppe Bailone

Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce a Stoccarda nel 1770.

La madre è colta e proviene da una famiglia di mercanti, il padre è un alto funzionario del ducato del Württemberg. Respira, pertanto, fin da piccolo cultura borghese e il mondo della corte non gli è estraneo. Ha ottimi precettori privati e studia nella migliore scuola di Stoccarda. Si appassiona all’antichità classica, soprattutto a quella greca. Ama particolarmente Sofocle, nella cui tragedia Antigone vede esemplarmente espressa la bellezza e la profondità dello spirito greco. Si forma così, già in questi anni adolescenziali e giovanili, l’amore per il mondo greco antico, che costituirà il fondo delle sue grandiose costruzioni filosofiche.

Dal 1788 al 1793 frequenta lo Stift, l’università-seminario protestante di Tubinga, dove compie studi filosofici nei primi due anni e teologici nel triennio finale. L’insegnamento che ne riceve è “ispirato a un illuminismo adattato alle condizioni delle corti”.1 Proprio in quell’istituto ha però la ventura di entrare in stretto rapporto con due giovani eccezionalmente geniali, suoi compagni di stanza, Hölderling e Schelling. Con loro rielabora l’influenza individualistica e libertaria della letteratura francese e della prima produzione romantica tedesca, medita le tesi di Rousseau, di Kant, di Herder e di Fichte, e segue con entusiasmo gli eventi della Francia rivoluzionaria.

Il giovane Hegel sviluppa presto un forte atteggiamento critico verso la religione tradizionale e la teologia dello Stift, accompagnandolo con la riflessione sulla funzione della religione nella formazione del senso civico delle coscienze popolari. Si forma in lui l’idea di una filosofia impegnata a promuovere la trasformazione della realtà sociale e politica; l’idea di farsi, come si era già proposto Fichte, filosofo educatore delle coscienze popolari. E il cristianesimo, proprio per il suo peso nella formazione di una mentalità popolare inerte e passiva, diventa oggetto della sua riflessione critica, anche alla luce di una visione della religione greca capace di creare forte coesione sociale e senso di viva e libera partecipazione alla vita politica.

Conclusi gli studi universitari, non volendo intraprendere la carriera ecclesiastica cui sarebbe destinato, accetta di fare il precettore presso una famiglia nobile di Berna, dove si ferma per tre anni. In questo periodo scrive molte pagine, rimaste per più di un secolo inedite, sulla religione e sul rapporto di questa con la morale e con l’etica popolare. Continua, così, e matura le riflessioni iniziate a Tubinga sulla religione e sul suo peso nella vita dei popoli. In queste pagine emergono quelli che diventeranno i suoi interessi permanenti fondamentali: la vicenda umana e i rapporti sociali, giuridici e politici che in essa s’intrecciano. Hegel non ha l’interesse ammirato di Kant e di Schelling per la natura: per lui la vita umana è incomparabilmente più ricca e profonda di quella della natura (nel diario di un viaggio nelle Alpi bernesi manifesta una sorprendente insensibilità alle bellezze naturali: “L’aspetto – scrive – di queste masse eternamente morte m’ha dato un’impressione monotona e, alla lunga, noiosa”)2. Ha invece un forte interesse per la morale, che, come Fichte, sviluppa nel senso etico-politico. La centralità e la profondità dell’interesse per la storia etico-politica, insieme al peso della formazione religiosa biblico-cristiana, promuovono in lui una visione molto antropocentrica, e, più in particolare, eurocentrica: il mondo è per lui quello della storia umana europea, cui la natura fa da teatro d’azione e gli altri continenti da contorno.

La pubblicazione, avvenuta solo nel 1907, degli scritti di questo periodo (1793-96), col titolo Scritti teologici giovanili, ha offerto elementi importanti per capire il processo di formazione giovanile del pensiero hegeliano.

In un testo su religione popolare e cristianesimo, scritto ancora a Tubinga nell’ultimo anno di corso, in apertura si legge:

“La religione è una delle questioni più importanti della nostra vita. Fin da bambini ci è stato insegnato a balbettare preghiere alla divinità, ci han fatto congiungere le manine per alzarle verso l’essere supremo, la nostra memoria è stata sovraccaricata di un insieme di proposizioni, che ci risultavano allora incomprensibili, ma che ci sarebbero state di utilità e di conforto nel futuro”.3

L’educazione religiosa infantile è fondamentale: chi si propone di agire sulla coscienza popolare, deve farne oggetto di profonda riflessione. E in questa riflessione Hegel è guidato soprattutto dalla lezione morale kantiana, ripensata in vista della trasformazione dell’ordine sociopolitico esistente.

“Kant – spiega Lukács – esamina i problemi morali dal punto di vista dell’individuo; il fatto morale è per lui la coscienza. […] I problemi sociali nascono, in Kant, solo in seconda istanza, dalla connessione a posteriori dei soggetti individuali indagati in prima istanza. Mentre il soggettivismo tutto rivolto alla prassi del giovane Hegel è fin dall’inizio collettivo e sociale. In Hegel è sempre l’attività, la prassi sociale, a costituire il punto di partenza come l’oggetto centrale dell’indagine”.4

Hegel si progetta scrittore etico-politico e sogna una rivoluzione tedesca che realizzi il dover essere illuministico-kantiano. E, nel 1795, scrive a Schelling:

“Dal sistema kantiano e dal suo più alto perfezionamento [ad opera di Fichte]

prevedo in Germania una rivoluzione […]. Credo che non vi sia nessun altro segno dei tempi migliore di questo: che l’umanità è rappresentata come degna di stima in se stessa. Questa è una prova che va scomparendo l’aureola attorno al capo degli oppressori e degli dei della terra. I filosofi dimostrano questa dignità e i popoli impareranno a sentirla; non si accontenteranno più di esigere i loro diritti calpestati nella polvere, ma essi stessi li riprenderanno e se ne approprieranno. Religione e politica hanno vissuto in comunella: la prima ha insegnato ciò che il dispotismo voleva: disprezzo del genere umano, incapacità di esso a realizzare un qualunque bene, ad essere qualcosa con le sue sole forze. Con la diffusione delle idee che mostrano come ogni cosa deve essere, scomparirà l’indolenza delle persone soddisfatte, di prendere tutto come viene. Questa forza vivificante delle idee (anche se esse dovessero sempre contenere una limitazione, come quella di patria, di costituzione ecc.) innalzerà gli spiriti ed essi apprenderanno a sacrificarsi per esse, poiché attualmente lo spirito delle costituzioni ha fatto lega con l’egoismo e su di esso ha fondato il suo regno”.5

E nel testo sulla religione già citato, dopo aver distinto la religione “oggettiva”, arido sistema di dogmi e di pratiche prive di vita spirituale, dalla religione “soggettiva”, spiritualmente viva, spiega, con esplicito riferimento a Lessing:

“La religione soggettiva si trova negli uomini buoni, quella oggettiva può aver qualsivoglia colore, che però è pressappoco uguale. «Ciò che a voi mi fa sembrar cristiano, a me vi fa sembrar ebreo», dice Nathan. Infatti la religione è affare del cuore, che spesso agisce inconseguentemente di fronte ai dogmi che il suo intelletto o la sua memoria accolgono. Gli uomini più degni di rispetto non sono invero sempre quelli che hanno moltissimo speculato sulla religione, e che hanno molto spesso mutato in teologia la loro religione, hanno cioè scambiato la pienezza ed il fervore della fede con fredde conoscenze e con sfilate di parole. La religione ben poco guadagna con l’intelletto; le operazioni di questo, i suoi dubbi, possono anzi più raffreddare che riscaldare il cuore. E colui che ha trovato che i modi di pensare di altre nazioni, o dei pagani come si dice, contengono molte assurdità, e si rallegra dei suoi punti di vista superiori, del suo spirito che egli spinge più in là di quanto lo spinsero i più grandi uomini, costui non conosce l’essenza della religione. […] Quando il cuore, come avviene nel monaco nella scena del Nathan da cui sono tratte le parole su riportate, non parla più forte dell’intelletto, e restando chiuso lascia a questo il modo di ragionare su un’azione, il cuore di costui non vale più molto. L’amore non abita in lui”.6

Per modificare le coscienze bisogna agire sui sentimenti, sulla fantasia, sul cuore. Non basta una critica puramente razionale, astratta. Bisogna tener conto di molti fattori e intrecciare l’analisi critica della religione con quella storica, culturale e politica.

“La religione popolare produce e nutrisce le grandi disposizioni d’animo, procede di pari passo con la libertà.

La nostra religione vuole educare gli uomini a cittadini del cielo, il cui sguardo è sempre rivolto in alto, dove i sentimenti umani divengono loro estranei. Nella nostra massima festività pubblica ci si avvicina a gustare il dono santo vestiti a lutto, con lo sguardo chino; nella festa che dovrebbe essere quella dell’affratellamento generale, molti temono di essere contagiati dal calice fraterno ad opera di un sifilitico che lo ha accostato alla bocca prima di loro, e così l’animo non è attento, non è preso da santi sentimenti, e durante l’Actus l’offerta la si prende dalla tasca e la si pone sul piatto. Invece i greci si avvicinavano agli altari dei loro buoni dèi recando gli amichevoli doni della natura, inghirlandati di fiori, vestiti coi colori della gioia, diffondendo letizia con il loro aspetto aperto, invitante all’amicizia e all’amore.

Spirito del popolo, storia, religione, grado della libertà politica popolare non possono essere considerati separatamente, né in rapporto al loro reciproco influsso né in rapporto alla loro natura. Essi sono intrecciati insieme in un solo nodo, come tre colleghi d’ufficio, di cui nessuno può fare qualcosa senza l’altro ma ognuno riceve qualcosa dall’altro. Formare la moralità di singoli uomini è affare di una religione privata, dei genitori, dei propri sforzi e circostanze, formare lo spirito del popolo è invece per un verso cosa della religione popolare, per un altro dei rapporti politici”.7

Hegel vede in quella greca una religione veramente “popolare”, pubblica, che si manifesta nel costume e nelle istituzioni popolari, che rinsalda i legami sociali; una religione “soggettiva”, che impegna il cuore e la fantasia. Vede invece in quella cristiana una religione “oggettiva”, fissata in un libro e custodita da un clero autoritario; una religione “privata”, che chiude l’individuo in un rapporto tutto interiore con Dio.

Agisce sul giovane Hegel il mito, particolarmente vivo in Germania, della Grecia classica, promosso da Winckelmann, Schiller, Goethe e Hölderling. In questa visione idealizzata del mondo greco, i cittadini sono liberi membri vivi di un organismo unitario superiore, la polis, non individui atomizzati di un aggregato che li tiene insieme per legami esterni e di coercizione, come avviene nel mondo cristiano, nel quale la libertà è soffocata.

In queste pagine hegeliane, religione pubblica e religione soggettiva tendono a identificarsi, dando ai due aggettivi il significato che essi esprimevano nella libera polis greca; così come religione positiva e religione privata tendono a identificarsi nel mondo cristiano antico, medievale, moderno e attuale.

A Berna compone altre parti del testo iniziato a Tubinga; e scrive, inoltre, nel 1795, La vita di Gesù, ispirandosi a Kant, e in particolare alla sua Religione nei limiti della sola ragione. Per il giovane Hegel l’insegnamento di Gesù consiste nell’illustrare in modo popolare gli imperativi della ragione pratica. Hegel arriva a mettere in bocca a Gesù la stessa formulazione kantiana dell’imperativo categorico.

“Agite secondo una massima tale che, ciò che voi volete che valga come legge universale tra gli uomini, valga anche per voi: questa è la legge fondamentale della moralità, il contenuto di tutte le legislazioni e dei libri sacri di tutti popoli”.8

Commentando l’incontro di Gesù con il giovane ricco, che ascolta “con malinconia” l’invito a donare le sue ricchezze ai poveri, Hegel scrive:

“Gesù lo vide e disse ai suoi discepoli: «Quanto saldamente può irretire gli uomini l’amore per la ricchezza, e quale ostacolo può divenire per la virtù! La virtù richiede sacrificio, mentre l’amore per la ricchezza vuole sempre nuovi guadagni; quella richiede che ci si limiti a se stessi, questo vuole che ci si espanda e s’ingrossi quel che si può chiamare nostro proprio». I discepoli di Gesù gli domandarono: «Ma come si può sperare che questo impulso della natura umana non renda impossibile l’esser virtuosi?». «La contraddizione di questi impulsi, rispose Gesù, vien tolta dal fatto che Dio ha conferito ad uno di essi un vero e proprio potere legislativo che comanda il dovere, gli ha concesso di pervenire ad una preminenza sugli altri, e gli ha dato anche la forza di poter fare ciò». Pietro, uno dei discepoli, ribatté allora: «Tu sai che noi abbiamo abbandonato tutto per adeguarci ai tuoi insegnamenti e per dedicarci soltanto alla moralità». «Per quel che avete abbandonato, disse Gesù, l’acquisto della coscienza di aver vissuto solo per il dovere è una larga ricompensa in questa vita e in tutta l’eternità»”.9

Come mai, allora, dal messaggio di Gesù, così puramente spirituale, è nato il cristianesimo, una religione pesantemente positiva, fatta cioè di dogmi e di obblighi che pesano sulla coscienza dall’esterno? È la domanda cui Hegel cerca una risposta in La positività della religione cristiana, scritta nel 1795-96.

Questo testo hegeliano inizia chiarendo il significato di religione positiva:

“Il concetto della positività di una religione è sorto e divenuto importante solo in tempi recenti; una religione positiva si oppone a quella naturale e con ciò si presuppone che vi sia solo una religione naturale, poiché la natura umana è solo una, ma che di religioni positive ve ne possono essere molte. Già da questa contrapposizione risulta che una religione positiva sarebbe una religione o antinaturale o sovrannaturale, che contiene conoscenze trascendenti il nostro intelletto e la nostra ragione, e che richiede sentimenti e azioni che non sorgerebbero nell’uomo naturale, ma, per quel che riguarda i sentimenti, questi sono suscitati e approntati solo con la violenza, e per ciò che riguarda le azioni, queste sono fatte solo su comando o per ubbidienza, senza un proprio interesse.

Da questo chiarimento generale si vede che, per poter dichiarare positiva una religione o una parte di essa, si deve prima determinare il concetto di natura umana e quindi anche il suo rapporto alla divinità. In tempi recenti ci si è molto occupati di questo concetto, e si è creduto di aver abbastanza chiaro il concetto della destinazione dell’uomo per poter passare con esso, come unità di misura, a vagliare la religione.

È dovuta trascorrere una lunga serie di gradi di cultura, estendentesi nei secoli, prima che potesse giungere un tale periodo in cui i concetti sono divenuti così astratti da dare la convinzione di avere abbracciato l’infinita molteplicità dei fenomeni della natura umana nell’unità di pochi concetti universali.

Questi concetti semplici, per la loro universalità, divengono al contempo concetti necessari e caratteri dell’umanità. Ogni rimanente varietà di costumi, abitudini ed opinioni dei popoli o dei singoli individui, per il fatto che quei caratteri sono fissati, diviene accidentalità, pregiudizi, errori e con ciò la religione che si sia adattata a questa varietà diviene una religione positiva, poiché la sua stessa relazione alle accidentalità è un’accidentalità, ma, come parte della religione, è al contempo sacro comandamento”.10

C’è una, e una sola, religione naturale, che nasce e vive nella coscienza, e ce ne sono molte che s’impongono alle coscienze individuali dall’esterno e con forza, diventando impositive, positive. Anche nel cristianesimo c’è un nucleo originario naturale, ma le sue realizzazioni storiche tutte sono positive.

Come si spiega questo?

Per Hegel, la positività della religione cristiana è dovuta all’ambiente ebraico in cui Gesù ha operato e in cui si è diffuso il suo messaggio.

“Triste era la condizione della nazione ebraica, che derivava la sua legislazione dalla stessa suprema saggezza, ma il cui spirito era sommerso sotto il peso di precetti statutari che pedantemente prescrivevano una regola per ogni banale azione della vita quotidiana, dando all’intera nazione l’aspetto di un ordine monastico. Egualmente ciò che vi è di più sacro, il culto di Dio e l’esercizio della virtù, era predisposto e costretto in formule morte”.11

Quel mondo, con la sua cultura, ha agito anche su Gesù, che, ebreo lui stesso e condizionato dal pubblico cui si è rivolto, ha dovuto lottare contro la positività con una forza adeguata, cioè facendosi autorità, presentandosi mandato da Dio.

“La concordanza delle sue parole con la volontà di Dio, «Chi crede in me crede nel padre» – che è, specialmente nel vangelo di Giovanni, l’idea dominante e sempre ricorrente – conferiva a Gesù quell’autorità senza di cui non avrebbe potuto avere efficacia sui suoi contemporanei, per quanto eloquente fosse la sua concezione del valore della virtù. Può darsi che egli abbia avuto coscienza di un legame fra sé e Dio, o che semplicemente abbia ritenuto la legge, radicata nel nostro petto, un’immediata rivelazione di Dio o una scintilla divina, e che abbia potuto divenire conscio della concordanza del suo insegnamento con la volontà divina, per la certezza di insegnare ciò che questa legge ordinava. Ognuno può vedere quotidianamente esempi della misura in cui gli uomini rinunciano alla forza e libertà originaria e spontaneamente si sottomettono ad una eterna tutela; e la dipendenza delle catene imposte alla ragione diviene tanto maggiore quanto più esse sono pesanti. Perciò Gesù, oltre al raccomandare una religione basata sulla virtù, fu costretto anche a mettere in gioco se stesso, il maestro di questa religione, a richiedere fede nella sua persona, della quale fede la sua religione razionale aveva bisogno per opporsi alla positività”.12

E, data l’attesa ebraica del Messia e dato il fatto che solo dal Messia gli ebrei avrebbero accolto un insegnamento diverso da quello delle tradizionali fonti sacre, egli accettò di essere considerato il Messia.

Inoltre, un elemento di forza decisivo a sostegno della sua predicazione sono stati quelli che i suoi discepoli hanno ritenuto miracoli.

“Niente ha contribuito più di questa fede nei miracoli a rendere positiva la religione di Gesù e a fondarla interamente sull’autorità. Benché Gesù esigesse fede non per questi miracoli, ma per la sua dottrina, benché le verità eterne per la loro stessa natura, se devono essere universalmente valide e necessarie, possono fondarsi solo sull’essenza della ragione e non su fenomeni del mondo sensibile, che sono per essa accidentali, tuttavia la strada presa dal convincimento intorno all’obbligatorietà della virtù fu la seguente: furono i miracoli accettati con fiducia e fede che fondarono la fede dell’autorità del loro autore e l’autorità di questi divenne il principio dell’obbedienza della morale. Se i cristiani avessero seguito sempre questa via fino in fondo, avrebbero di molto sopravanzato gli ebrei; ma, dopo tutto, si fermarono a metà strada, e come gli ebrei ridussero l’essenza della loro religione a sacrifici, a cerimonie ed a una fede servile, così i cristiani la ridussero a culto orale, ad azioni esterne, a sensazioni interne e ad una fede storica. Questa via tortuosa, che porta verso la moralità passando per i miracoli e l’autorità di una persona, e che lungo il percorso ha alcune fermate obbligatorie, ha il difetto, proprio ad ogni via del genere, di rendere la meta più lontana di quanto in realtà non sia, e facilmente per le deviazioni e per le distrazioni offerte dalle fermate può far smarrire la strada al viandante. Oltre a ciò, tale via reca offesa alla moralità, che essendo autonoma respinge ogni altro fondamento ed essendo autosufficiente vuol essere fondata solo su se stessa”.13

Infine, Gesù impone ai suoi discepoli un radicale cambio di vita, li isola dalla società e li rimodella come uomini il cui tratto essenziale diventa l’essere suoi discepoli. Inoltre, ne fissa il numero a dodici. E crea, in questo modo, le premesse per la costituzione della chiesa, col suo clericalismo.

“Con l’attribuire la massima considerazione ad un numero determinato di persone si venne a fondare la preminenza di determinati individui, e questo fatto divenne sempre più essenziale nella costituzione della chiesa cristiana, quanto più essa si estendeva, rendendo possibili i concili che decisero delle singole verità in base ad una maggioranza di voti e imposero al mondo i loro decreti come norme di fede”.14

Un rapido sguardo alla condizione dei discepoli di Socrate evidenzia subito un altro importante elemento di distanza tra il mondo del nascente cristianesimo e quello idealizzato della Grecia classica.

“Amavano Socrate per la sua virtù e per la sua filosofia e non la virtù e la sua filosofia per amor suo. Socrate stesso aveva combattuto per la patria, aveva adempiuto ad ogni dovere di libero cittadino, in guerra da valoroso soldato, in pace da giusto giudice; così anche i suoi amici erano qualcosa di più che solo inoperosi filosofi, qualche cosa di più che semplici scolari di Socrate. Essi erano infatti in grado di rielaborare nella propria testa quel che imparavano, di imprimervi lo stampo della propria originalità; molti fondarono scuole e furono nella loro autonomia grandi quanto Socrate”.15

Gesù, in una situazione ambientale ostile, di cui la sua stessa formazione culturale ha risentito, ha tentato di “estirpare la superstizione negli ebrei” e di “diffondere l’eticità”, ma non è riuscito neppure a portare “molto innanzi su questa via i suoi più fedeli amici anche dopo lunghi anni di sforzi e di familiarità”.16 Il messaggio cristiano non poteva quindi che appesantirsi di positività nel corso del tempo, una volta affidato ai suoi discepoli. Inoltre le condizioni di crisi del mondo romano, in cui si afferma questo messaggio uscendo dalla Palestina, aggravano questo male, che, poi, continua a crescere nel corso della storia.

Con l’affermarsi del cristianesimo nasce un tipo d’uomo privo di virtù politiche, prigioniero di una fede in un dio trascendente, di una fede che, raggrinzita nel privato, isola il fedele in una soggettività oppressa da dogmi e norme del tutto esterne. Lo schiavo diventa il credente più appropriato di questa religione privata ed esteriore, impositiva, che prospetta la vita eterna quale risarcimento di una vita terrena senza valore. E questa religione, che ha nelle Crociate, nella colonizzazione violenta e sterminatrice d’America, nella tratta degli schiavi, le tappe più immorali della sua storica affermazione, diventa, nelle diverse fasi della sua storia, la religione del dispotismo, la nemica della libertà civile, l’educatrice all’obbedienza servile.

Torino 14 marzo 2016

NOTE

1 L’espressione è di G. Lukács e si trova a p. 30 del suo Il giovane Hegel, Einaudi 1975.

2 Rosenkranz, H.s Leben, p. 482. Cit. da Abbagnano, Storia della filosofia III, UTET 1963, p. 98.

3 Hegel, Religione popolare e cristianesimo in Scritti teologici giovanili, Guida editori Napoli, 1972, p. 31.

4 G. Lukács, Il giovane Hegel, Einaudi 1975, p. 35.

5 Lettera a Schelling del 16 aprile 1795, in Karl Rosenkranz, Vita di Hegel, Oscar Mondadori 1974, p. 89.

6 Hegel, Religione popolare e cristianesimo in Scritti teologici giovanili, Guida editori Napoli, 1972, pp. 39-40. Nathan è il protagonista di un dramma di Lessing, Nathan il saggio.

7 Ib. p. 58.

8 Hegel, La vita di Gesù in Scritti teologici giovanili, Guida editori Napoli, 1972, p. 132.

9 Ib. pp. 163-64. In realtà Gesù, nel vangelo di Matteo, risponde: “In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sederà sul suo trono di gloria, sederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. E chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna. Molti primi saranno ultimi e molti ultimi saranno primi” (Matteo 19, 28-30). Nel vangelo di Marco, non c’è il riferimento ai dodici troni e il centuplo arriva “già nel presente”, anche se “insieme a persecuzioni”(Marco 10, 29-31).

10 Hegel, La positività della religione cristiana, in Scritti teologici giovanili, Guida editori Napoli, 1972, pp. 219-220.

11 Ib. p. 234.

12 Ib. pp. 241-242.

13 Ib. p. 244.

14 Ib. p. 247.

15 Ib. pp. 246-247.

16 Ib. p. 248.

ANNO ACCADEMICO 2015-16 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Cfr il saggio di Tony Smith


Testi di Hegel


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 04-12-2016