TEORICI
Politici Economisti Filosofi Teologi Antropologi Pedagogisti Psicologi Sociologi...


THOMAS HOBBES (1588-1679)

I - II - III - IV - V - VI

THOMAS HOBBES

QUADRO STORICO

L'Inghilterra da Giacomo I alla rivoluzione

+ Da Enrico VII ad Elisabetta, la dinastia dei Tudor (1485-1603) s'era impegnata in un'organica politica mercantilistica che, unificata la vita economica nazionale, aveva consentito alle forze produttive e mercantili del paese d'inserirsi vigorosamente nel sistema del commercio internazionale.

+ Moltiplicando i suoi interventi nell'ordine economico, la Corona aveva esteso e consolidato di pari passo il potere regio anche nell'ordine politico.

+ Progressivamente però, il mercantilismo economico e l'assolutismo politico vennero svelandosi strumenti sempre meno adeguati ad imprimere ulteriore slancio alla vita civile inglese.

I controlli e i monopoli regi apparivano ormai, infatti, come altrettanti impacci e freni agli occhi di molti operatori economici desiderosi d'investire liberamente nell'industria, nell'agricoltura o nei traffici l'eccedenza di capitali che pur s'erano procurati all'ombra del sistema mercantilistico.

+ E con maggiore insistenza si rivendicava libertà d'iniziativa privata, nell'ordine economico, da parte di quanti si trovavano esclusi dai ristretti gruppi di mercanti e industriali che monopolizzavano, col favore della Corte, i profitti delle Compagnie privilegiate.

Il programma politico dei ceti borghesi

+ L'esigenza di sottrarre alla Corona la direzione della vita economica metteva in discussione anche l'accentramento incondizionato dei poteri statali nelle mani del sovrano: l'opposizione alla politica mercantilistica assunse, perciò, il significato di contestazione dell'assolutismo regio.

+ La lotta politica che ne seguì ebbe come protagonisti, sul piano istituzionale, il Parlamento e la Corona: alla Camera dei Comuni i rappresentanti delle borghesia cittadina e rurale si batterono per trasformare il Parlamento, da organo di difesa di tradizionali privilegi e immunità, in un istituto idoneo a condizionare radicalmente il potere esecutivo e a garantire i diritti personali di libertà.

+ Ma in Inghilterra l'accesso della borghesia alla direzione politica del paese passava necessariamente attraverso una riforma in senso democratico della Chiesa di Stato che, fondata com'era sull'autorità dei vescovi di nomina regia, risultava di fatto piegata a strumento del potere monarchico.

+ Si spiega in tal modo come il programma politico dei ceti borghesi facesse proprie, sul piano etico- religioso, le motivazioni del vasto movimento promosso nel paese dai cosiddetti puritani, e cioè dai calvinisti che miravano ad epurare la Chiesa Anglicana dalle strutture gerarchiche e dai contenuti dogmatici di tradizione romana, per farne una Chiesa ad ordinamento democratico, sull'esempio ginevrino e scozzese.

Il tentativo assolutistico di Giacomo I

Le prime avvisaglie della crisi cominciarono a manifestarsi durante il regno di Giacomo I (1603-25). Figlio di Maria Stuart e già sovrano di Scozia, egli succedette a Elisabetta sul trono di Inghilterra come discendente più prossimo della dinastia dei Tudor, unendo in tal modo le corone dei due regni.

Poco popolare in Inghilterra a motivo delle sue origini scozzesi, egli aggravò ulteriormente questa frattura, manifestando il proposito di regnare come re assoluto per diritto divino in una società in cui forti spinte innovatrici tendevano ormai a condizionare l'esercizio del potere monarchico. Appoggiandosi alla nobiltà delle contee e all'alto clero anglicano, circondato di cortigiani e ministri assai spesso corrotti e screditati, Giacomo I instaurò un governo personale che non tenne conto delle prerogative del Parlamento e intraprese una drastica azione repressiva contro i dissidenti religiosi, sia cattolici che puritani.

Durante questo periodo d'isolamento e di relativa oscurità, gli inglesi lottarono per risolvere due grandi problemi tra loro connessi: religioso il primo, costituzionale e politico il secondo.

Benché Giacomo I fosse stato educato nel calvinismo si accordò bene con la Chiesa anglicana. In Scozia aveva sofferto della democratica libertà dei presbiteriani, non gli dispiaceva quindi di trovare in Inghilterra una chiesa che riconosceva una gerarchia, al sommo del quale stava il re. Elisabetta aveva imposto ai propri sudditi un conformismo rigoroso quanto quello della Chiesa romana. La dottrina anglicana, che era la dottrina dello Stato, veniva attaccata, sulle due ali, dai cattolici romani e dai puritani.

La Chiesa di stato di Elisabetta era quindi ben lungi dal soddisfare i progrediti spiriti religiosi che traevano la loro ispirazione dalle avanzate chiese protestanti della Svizzera.

Elisabetta, durante il suo regno era riuscita ad incanalare il puritanesimo nell'alveo della costruzione unitaria del regno. Il protestantesimo radicale, che riteneva insufficienti le riforme fino allora svolte, rischiava di assumere una posizione eversiva rispetto alla chiesa di Inghilterra, soprattutto rispetto alla struttura episcopale, che era stata fermamente mantenuta.

A tale corrente dell'opinione pubblica Giacomo I e suo figlio Carlo erano decisamente avversi. Non che questi due sovrani intendessero rientrar nel gregge romano. Il titolo di capo supremo della Chiesa d'Inghilterra appagava in pieno la loro coscienza e il loro orgoglio. Ma erano episcopali e in grado diverso - ché Carlo era più deciso di suo padre - sacerdotalisti.

Questa dottrina dell'unione del sacerdozio con la monarchia, divenuta pietra angolare del sistema degli Stuart, fu in un certo senso convalidata da una nuova dottrina vigorosamente predicata dai prelati cortigiani, secondo la quale la corona spettava al re per diritto divino. Giacomo I, i cui diritti alla successione erano alquanto discutibili, fu felice di sentir dire che la monarchia degli Stuart regnava per volontà divina.

Il problema costituzionale consisteva nel risolvere se la vera autorità sovrana appartenesse alla corona o al parlamento.

La vecchia tradizione dell'Inghilterra era parlamentare. Il dispotismo dei Tudor era cosa nuova, accettabile come alternativa alla guerra civile e all'invasione straniera, e sostenuta dal prestigio dal prestigio, la capacità e l'abilità parlamentare dei sovrani Tudor. Finché non fu superato il pericolo rappresentato dall'Armada spagnola, nessuno mai sognò di opporsi, nel parlamento, agli atti della corona. Ma già alla fine del regno di Elisabetta si levarono mormorii, forieri dell'uragano imminente, infatti, Giacomo I s'attirò ben presto una grave opposizione parlamentare.

Il disegno autocratico degli Stuart implica una crescita degli oneri amministrativi e tuttavia, per un lungo tempo, gli introiti fiscali non arrivano a coprire nemmeno la quinta parte dei costi dell'amministrazione civile e militare. Mentre Elisabetta aveva in qualche modo potuto compensare il disavanzo con la confisca e la vendita dei beni ecclesiastici, agli inizi del secolo questi sono ormai stati completamente alienati. Ha quindi inizio un lungo braccio di ferro tra la corona, impossibilitata ad aumentare il gettito fiscale senza l'approvazione parlamentare, e un parlamento deciso ad anteporre a qualsiasi ratifica legislativa la questione di principio di una netta distinzione delle competenze politiche. Il risultato è che gli Stuart, tanto Giacomo quanto Carlo I (nel 1625), per non creare l'opportunità di rivendicazioni finiscono col governare per lunghi periodi senza il parlamento e sono costretti a subordinare la loro politica estera ed interna ad una situazione finanziaria endemicamente deficitaria.

Carlo I e l'opposizione parlamentare

Nel 1628 il figlio e successore di Giacomo I, Carlo Stuart (1625-49), non poté ulteriormente differire la convocazione del Parlamento che suo padre aveva sciolto nel 1614.

L'urto diretto fra la Corona e il Parlamento divenne inevitabile allorché l'assemblea dei deputati, con una solenne Petizione dei diritti, rivendicò, di contro alla politica assolutistica degli Stuart, il rispetto delle prerogative costituzionali delle Camere e delle libertà personali dei cittadini. Carlo I reagì sciogliendo l'Assemblea (1629) ed imponendo nuovi tributi d'autorità, scatenando inoltre una drastica repressione contro gli oppositori.

Fu la Scozia presbiteriana a dare il segnale di un'aperta rivolta armata contro il sovrano (1637), reagendo vigorosamente alla politica ecclesiastica della Corona.

La rivoluzione borghese-puritana

Carlo I fu costretto in questa situazione a riconvocare il Parlamento, che però sciolse di nuovo, per riunirsi poi nel 1640 in aperta ribellione al re, a cui fu imposto l'arresto dei suoi consiglieri. Inoltre, per iniziativa dei deputati puritani, il Parlamento si arrogò il compito di prendere radicali riforme costituzionali, che intendevano sottrarre alla monarchia l'effettivo governo della nazione.

Approfittando dei dissensi nati nel Parlamento tra l'ala moderata e quella radicale-puritana, Carlo I tentò di trarre in arresto questi ultimi, ma l'iniziativa fallì e fu costretto ad abbandonare Londra. Da questo momento, le due parti contendenti si diedero ad approntare i rispettivi eserciti, che entrarono in conflitto con alterni, ma non decisivi successi dell'uno sull'altro, finché la causa del Parlamento non trovò in Olivier Cromwell una guida di singolare levatura politica e militare.

Cromwell

Gentiluomo di campagna animato da intransigente fede puritana, deputato al Parlamento dal 1628, Cromwell riorganizzò le forze armate del partito parlamentare, chiamando a farne parte soprattutto esponenti sia della piccola borghesia agraria che della piccola nobiltà imborghesita, e dei ceti inferiori delle città e delle campagne, accomunati dalla fede religiosa puritana e da antichi risentimenti contro l'oppressione dei notabili e della Corte.

La guerra civile ebbe immediatamente un nuovo corso: Carlo I, ripetutamente battuto, si rifugiò in Scozia, ma fu poi consegnato al Parlamento di Londra.

Ruolo dei ceti popolari nella rivoluzione

Frattanto nel paese si era diffusa una vasta opposizione popolare contro l'oligarchia mercantile che dominava la camera dei Comuni. Essa era rappresentata, sul piano politico, dal movimento dei cosiddetti "Livellatori". Tale movimento avanzava un programma di radicale democrazia, fondato sulla sovranità politica del popolo e sulla giustizia sociale. Su posizioni ancora più radicali si ponevano gli "Zappatori" che chiedevano l'abolizione della proprietà privata della terra e l'instaurazione del collettivismo.

Di fronte alle fratture sopravvenute in seno al Parlamento e alla pressione popolare, l'armata puritana assunse di fatto la guida politica del paese. Guidato dal Cromwell, l'esercito rivoluzionario nel 1648 occupò Londra ed estromise dal Parlamento coloro che erano favorevoli ad un regime di monarchia costituzionale. Così epurato, il Parlamento giudicò Carlo I, condannandolo alla pena capitale (1649).

La Repubblica puritana

Costretto a far fronte alla duplice pressione proveniente dalle forze popolari guidate dai Livellatori e da quelle monarchico-anglicane che si riorganizzavano attorno a Carlo Stuart, figlio del sovrano giustiziato, Cromwell venne progressivamente accentuando il carattere autoritario e personale del suo governo finché, sciolto con la forza il Parlamento (1653), assunse poteri dittatoriali, ispirando la sua opera ai motivi etico-religiosi della tradizione calvinista.

La restaurazione monarchica

La morte di Cromwell mise in crisi tutto il sistema politico da lui creato: la debolezza dello schieramento repubblicano - rimasto privo del sostegno popolare dopo che la rivoluzione ebbe svelato il suo carattere antidemocratico - ridiede vigore alle forze monarchiche. Carlo II (1660-85) poté, in tali condizioni, far ritorno a Londra dall'Olanda e cingere la corona regia.

Non venne meno, tuttavia, nelle forze borghesi, il proposito di difendere i poteri del Parlamento contro le pretese assolutistiche del sovrano. Più volte Carlo II dovette piegarsi alla volontà del Parlamento.

ITER BIOGRAFICO E INTELLETTUALE

+ 1588 Nasce a Malmesbury.

+ 1608 Conseguito a Oxford il bacellierato delle arti, è accolto in casa del barone Cavendish, in qualità di precettore del figlio, in compagnia del quale, nel 1610, intraprenderà un viaggio in Francia e in Italia durato circa tre anni.

+ 1628 Pubblica la traduzione della Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide.

+ 1629 E' di nuovo sul continente, sempre in veste di precettore, in Francia e a Ginevra, dove soggiornerà per più di un anno.

+ 1634-37 Hobbes affronta il suo terzo viaggio sul continente, sempre in qualità di accompagnatore di un giovane Cavendish. Il viaggio ha per Hobbes il significato di un'esperienza fondamentale. Va a trovare Galilei, nel suo confino di Arcetri, entra in contatto, a Parigi, col padre Mersenne e con gli intellettuali di quel circolo; con Gassendi soprattutto, al quale lo lega una certa affinità spirituale, che si compendia nella spiccata propensione per l'empirismo, mescolata a una vena di scetticismo pirroniano, Hobbes inaugura un rapporto di amicizia che sarà tra i suoi più tenaci. E' nel corso di quel viaggio, comunque, che si fa strada in lui il progetto di scrivere un'opera complessiva, gli Elementa philosophiae, che si articola nelle tre successive trattazioni, De corpore, De homine e De cive, tra loro legate da un nesso deduttivo rigorosamente unitario, sulla base di una fondamentale intuizione: che cioè tutti gli aspetti della realtà si riducessero a movimento di corpi, e che in base ad esso andassero spiegati, in una prospettiva meccanicistico-materialistica unitaria, che comprendesse non solo la scienza naturale, ma anche la morale e la politica.

+ 1640 Mentre lavorava ai primi abbozzi dell'opera fondamentale da lui progettata, Hobbes dovette sentire il bisogno di fissare le proprie idee e di saggiare la consistenza di tutto il sistema, o almeno di gran parte di essa, attraverso una sintesi più agile, che riportasse contemporaneamente in primo piano le sue prospettive politiche. Redige quindi gli Elementi di legge naturale e politica, di cui fa circolare tra gli amici alcune copie manoscritte.

+ 1640-51 Si rifugia, timoroso dei torbidi della lotta tra re e parlamento, a Parigi, dove rimarrà in esilio volontario per undici anni. Durante il soggiorno parigino compose, su richiesta di Mersenne, le Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio (1641).

+ 1642 pubblica il De cive. Quando uscì questo libro Hobbes aveva lasciato l'Inghilterra da più di un anno. Aveva infatti raggiunto Parigi sentendosi poco sicuro in patria, dopo che il nuovo parlamento aveva incominciato a perseguitare i partigiani del re: le poche copie manoscritte degli Elementi (1640), a quanto pare, erano circolate fin troppo, tanto da suscitare contro Hobbes le ire dei parlamentari, a causa della propensione hobbesiana, in quell'opera chiaramente espressa, per la monarchia assoluta e per la decisa repressione di ogni forma di insubordinazione al potere regio. La pubblicazione del De cive risponde appunto alla necessità di combattere in forma sistematica le teorie che sostenevano l'azione eversiva delle forze parlamentari nel loro conflitto, sempre più aperto e violento, con Carlo I.

+ 1647 Viene incaricato di tenere lezioni di matematica al principe ereditario Carlo Stuart, esiliato a Parigi.

+ 1651 Fa pubblicare in Inghilterra la traduzione inglese del De cive e il Leviathan. In seguito a una amnistia, rientra in Inghilterra e si riconcilia con Cromwell.

+ 1654 Lascia pubblicare il trattatello Sulla libertà e la necessità, che suscita le ire del vescovo Bramhall.

+ 1655 Pubblica il De corpore, l'opera sua più complessa e tormentata, a circa diciotto anni di distanza dalla stesura del primo abbozzo (nel suo terzo viaggio a Parigi). Essa rappresenta il tentativo di fondare sistematicamente una visione integralmente meccanicistica della realtà naturale. Se il De corpore non ebbe tra i contemporanei quel successo e quel seguito che ci si sarebbe potuti aspettare, ciò fu dovuto, da un lato, alla fama di ateismo e materialismo che pesava sull'intera filosofia hobbesiana, e dall'altro al fatto che l'opera doveva fare i conti con una situazione culturale ben diversa da quella in cui era stata concepita, nel senso che giungeva al compimento quando l'ideale sistematico "cartesiano", almeno in Inghilterra, incominciava a volgere al declino, per dare luogo ai fasti e nefasti della "filosofia sperimentale". In effetti, gli amici ai quali Hobbes si richiama nella dedicatoria come ai principali artefici di quella nuova scienza che nel De corpore troverebbe la propria fondazione sono quasi tutti scomparsi: Galilei, Marsenne, Gassendi, Cartesio.

+ 1656 Pubblica Questioni concernenti la libertà, la necessità e il caso, in risposta al vescovo Bramhall.

+ 1658 Pubblica il De homine.

+ 1660 Salito nel 1658 sul trono d'Inghilterra Carlo II, riceve dal sovrano, suo ex discepolo, una pensione, ma è osteggiato dal clero geloso dei propri privilegi, fatti oggetto di critica da parte del filosofo. Si dovette inoltre difendere dalle accuse di ateismo ed eresia, affrontando anche impegnativi studi sull'argomento.

+ 1675 Traduce dal greco l'Iliade e l'Odissea.

+ 1679 Muore all'età di 91 anni.

QUADRO CULTURALE

Con il filosofo inglese Thomas Hobbes, la nuova cultura filosofica europea, culminante nel razionalismo cartesiano, venne a contatto con la tradizionale tendenza empiristica e logico-nominalistica inglese (si ricordi, ad esempio, Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone, Occam, ecc.), che ultimamente aveva avuto la sua espressione più tipica, per quanto riguarda l'empirismo, in Francesco Bacone. Sul piano metodologico ne risultò un originale tentativo di sintesi, non sempre ben riuscito, fra metodo deduttivo matematico-geometrico, proprio del razionalismo europeo, e metodo induttivo, proprio dell'empirismo inglese, fra nominalismo logico da un lato e realismo metafisico dall'altro.

Su tali basi, Hobbes lavorò alla costruzione di un sistema materialistico-meccanicistico onnicomprensivo, che partendo da elementi primi semplici, e procedendo per successive composizioni, fosse in grado di spiegare ogni fenomeno, da quelli fisici a quelli gnoseologici, da quelli etici a quelli politici. Così la visione meccanicistica della natura, inaugurata da Galileo per il mondo fisico ed estesa da Cartesio anche al mondo animale, venne assunta da Hobbes quale spiegazione scientifico-filosofica di tutto il reale.

ASPETTO ANALITICO E SISTEMATICO

La conoscenza

Nell'impostare la sua visione della realtà, Hobbes, ispirandosi al modello meccanicistico galileiano, ne individua gli elementi primi semplici nel corpo e nel moto, sufficienti di per sé a spiegare ogni fenomeno del mondo fisico ed umano. Sono questi elementi a costituire le qualità oggettive (figura e movimenti dei corpi), già da Galileo e Cartesio distinte da quelle soggettive (le qualità sensibili del colore, suono, sapore, ecc.). Più radicalmente di loro, egli però usa il modulo meccanicistico, connesso con tale distinzione, non solo per spiegare i fatti del mondo esterno, ma anche quelli del mondo interno o mentale dell'uomo: oltre la sensazione, anche l'immaginazione e le idee, e poi il pensare, il ragionare, ecc.

Una volta ridotti tutta la realtà a movimenti corporei, al moto locale, rimane tuttavia un problema: la realtà materiale, come può apparire? Come può risultare ad una coscienza? Non è facile giustificare ciò come un semplice effetto del movimento. E infatti - lo riconosce Hobbes - "Di tutti i fenomeni che sono intorno a noi, il più mirabile è lo stesso phainesthai [=apparire], cioè il fatto che alcuni corpi naturali hanno in sé stessi i modelli di quasi tutte le cose, mentre altri non ne hanno alcuno: di modo che, se i fenomeni sono i principi della conoscenza di tutte le altre cose, si deve dire che la sensazione è il principio della conoscenza di quegli stessi principi e che ogni scienza deriva da essa e che, per la ricerca delle sue cause, non si può cominciare da un altro fenomeno che non sia essa stessa".

Negli Elementi (1640) e nel De corpore (1655) Hobbes sviluppa una spiegazione espressa in chiave rigorosamente meccanicistica, del prodursi della sensazione, della formazione delle immagini, del meccanismo del piacere e del dolore, che a sua volta dà origine alle passioni. Si tratta di una riduzione audacemente materialistica di tutte quelle funzioni che tradizionalmente venivano attribuite all'anima, e che qui vengono interpretate in termini di movimento delle parti corporee, in un discorso che va ben oltre la cartesiana meccanizzazione delle facoltà sottostanti al senso comune, per investire spregiudicatamente l'ambito stesso della volontà e del pensiero.

Hobbes, quindi, tenta di spiegare, ricorrendo a semplici movimenti dei corpi, al loro comporsi secondo determinate azioni e reazioni, tutta la vita mentale dell'uomo, sia conoscitiva che affettiva e volitiva.

Secondo Hobbes il nostro conoscere è in divenire: le immagini

sorgono e scompaiono; ora ogni divenire non è altro che il moto locale, quindi la sensazione è un complesso di movimenti originati dalla pressione dei corpi esterni sui nostri organi di senso (un'idea che Hobbes riprende da Cartesio). Tale pressione produce un movimento che attraverso i nervi si trasmette fino al cervello e al cuore. Ivi si ha una reazione meccanica che suscita un contro-movimento diretto dall'interno verso l'esterno, e proprio durante tale reazione dell'organo di senso al moto proveniente dall'oggetto si produce il fantasma, l'immagine. Esso è dunque dentro il corpo senziente, è un modo di essere del soggetto senziente. Ma poiché nasce da una reazione ad un moto che viene da fuori, poiché è un moto centrifugo, sembra che l'immagine sia fuori, dov'è l'oggetto, ma è solo un'apparenza; l'immagine-fantasma o concetto, idea non è altro che il permanere in forma attenuata di una sensazione passata.

Hobbes, quindi è costretto ad introdurre una proprietà che possederebbero solo i movimenti dei corpi senzienti, cioè quella di essere accompagnati da fantasia, ovvero la facoltà di produrre immagini, di tradurre la sensazione nell'immagine di qualcosa esistente fuori di noi.

Per Hobbes ogni conoscenza avviene sempre a livello di concetti, e si svolge nell'ambito della mente, avendo a che fare solo mediatamente con una supposta "realtà" esterna. La mente, quindi, è popolata di concetti, che a loro volta si distinguono in sensazioni e immagini. Generalmente, da un punto di vista soggettivo, cioè considerandole solo per quel che riguarda la presenza di concetti nella mente, le sensazioni non si differenziano dalle immagini - o idee - se non per la loro maggiore forza o chiarezza.

Il ripetersi delle stesse sensazioni dà luogo alla memoria, che è la capacità di confrontare un'immagine attuale con le altre immagini passate. Così Hobbes fa nascere dai moti dei corpi tutto il complesso delle idee e delle funzioni mentali (ragione, riflessione, associazione fra idee) secondo una successione di azioni e reazioni meccaniche.

Il problema del rapporto tra esperienza e scienza

Accogliendo la fondamentale lezione galileiana, Hobbes sostiene che tutto ciò che di qualitativo troviamo nella sensazione è il prodotto di una agitazione o alterazione meccanica operata dall'oggetto su di noi pertanto non ha alcuna realtà fuori di noi. Ci sembra che essa sia insita nell'oggetto, solo perché quel movimento che ne è la causa, il cervello "lo ripercuote ai nervi in direzione dei sensi".

Negli Elementi (1640) e nel De corpore (1655) si prospetta quindi il tentativo di costruire una teoria della mente, attraverso una indagine sulle idee, a prescindere da una spiegazione circa la loro origine extramentale, che è pure presente nelle due opere.

Se ciò che nell'uomo è immagine o concetto è frutto di un puro rapporto meccanico tra i movimenti dei corpi esterni e gli organi di senso, tutto quanto è fuori da questo rapporto non avrà alcuna realtà fuori di noi. Il dato puramente empirico non offre cioè mai nulla che rinvii a qualcosa che stia al di là di esso: al più sarà possibile, prudentemente prevedere che, dato un antecedente è lecita l'aspettativa di un conseguente e viceversa. Infatti, Hobbes sottolinea che "la mente può correre quasi da ogni cosa ad ogni altra", a significare l'assoluta assenza di qualsiasi vincolo di carattere metafisico-ontologico al libero combinarsi delle idee in nessi che si organizzano in funzione di esigenze esclusivamente pratiche.

Per quel che riguarda il legame di causa ed effetto, esso non trae la propria legittimazione dal fatto che l'effetto sia in qualche modo implicito nella causa, e che ne sia quasi deducibile, bensì, humianamente, dal fatto che la sensazione di ciò che chiamiamo causa preceda regolarmente la sensazione di ciò che chiamiamo effetto, in modo tale che, al presentarsi dell'idea della prima, le si colleghi nella nostra mente l'idea del secondo e viceversa.

Ma si tratta pur sempre di un legame che viene garantito dalla più o meno numerosa ripetizione delle esperienze, in un progressivo accrescersi delle probabilità, che non esce tuttavia dall'ambito congetturale.

Hobbes aveva dato del nostro conoscere una spiegazione puramente meccanicistica (corpi in movimento): tutte le nostre conoscenze reali si riducono a esperienze di fatto, senza poter mai giungere ad alcuna universalità, se non quella puramente arbitraria imposta da noi stessi alle nostre conoscenze. Siamo noi infatti a costruire un sistema di conoscenze universali (cioè puramente arbitrarie) che, proprio in quanto nostra costruzione, resterebbero valide anche se tutto il mondo fisico fuori di noi si annientasse (ipotesi annichilatoria).

Nominalismo e logica meccanicistica

Nel campo della logica, il modulo meccanicistico, usato per spiegare ogni fatto del mondo dei corpi e in particolare quello della conoscenza, si sintetizza in Hobbes con le tendenze nominalistiche della tradizione inglese.

Nella nostra mente, ritiene Hobbes, le varie immagini (idee, pensieri, concetti) si uniscono fra loro in modo vario, talora a caso, talora secondo un determinato ordine, in virtù di qualche idea direttrice che le indirizza ad un determinato fine e le tiene stabilmente unite. Elemento indispensabile, per organizzare i nostri pensieri, è il linguaggio. Esso permette di trasformare il discorso mentale (connessione o successione di immagini) in discorso verbale (connessione o successione di parole), più atto ad ordinare in modo stabile i pensieri e a comunicarli ad altri. In base al linguaggio l'uomo si distingue dall'animale ed è capace di scienza.

L'imposizione di un nome ad un correlato mentale è per Hobbes l'atto fondamentale dell'intelletto, la cui funzione consiste unicamente nel collegare i concetti ai nomi. Dato che tale collegamento è compiuto dall'intelletto in modo del tutto arbitrario, ne segue sia la completa convenzionalità del linguaggio sia anche un rigido nominalismo sulla questione degli universali. L'universale è il nome di nomi, in quanto la parola universale riassume i nomi delle cose particolari a cui esso si riferisce.

Dalla connessione dei nomi nasce la proposizione, normalmente costituita da un nome concreto avente funzione di soggetto e da un astratto avente funzione di predicato, uniti insieme dalla copula. Come i nomi, così anche le proposizione prime e gli assiomi (che sono le proposizioni fondamentali) sono frutto dell'arbitrio di coloro che per primi stabilirono i nomi o che li accolsero.

La definizione per Hobbes è nominale, cioè non esprime (come volevano Aristotele e tutta la logica classica e medievale) l'"essenza" della cosa, ma semplicemente "il significato dei vocaboli". Le definizioni sono arbitrarie, come i vocaboli.

La successione dei concetti nella mente può essere casuale o incoerente, ma può anche "avvenire ordinatamente, come quando il primo pensiero dà adito al secondo", e questo è il caso del "discorso mentale" o "ragionamento".

Il ragionare, per Hobbes, è un connettere (o disgiungere) nomi, definizioni e proposizioni conformemente alle regole, fissate per convenzione. Il ragionamento è essenzialmente calcolo, e le sue operazioni fondamentali sono la somma e la sottrazione.

La critica a Cartesio

Per quanto riguarda le regole del calcolo, si ricordi, ad esempio, che per Hobbes si può avere un vero e proprio calcolo logico solo se si uniscono nomi di corpi con nomi di corpi, nomi di qualità con nomi di qualità, ecc. Ed è in base a tali regole che egli criticò la famosa espressione di Cartesio: "io penso, dunque io sono pensiero". Ciò che è qualità (= il pensare) di un soggetto corporeo (= l'uomo che pensa) non può essere predicato del soggetto come sua sostanza senza venir meno alle regole della logica. Sarebbe come dire: "io cammino, dunque io sono una passeggiata". C'è da dire però, che il tentativo cartesiano di fondare sul cogito la distinzione di una sostanza pensante dalla corporea, e quindi la deduzione dell'esistenza di una sostanza pensante, è inaccettabile agli occhi di Hobbes soprattutto per l'identificazione radicale, da lui operata, tra il concetto di sostanza e quello di corpo. Secondo il filosofo inglese, Cartesio non è in grado di confutare questa identificazione, dimostrando positivamente che "la cosa che pensa", in quanto soggetto, non sia "qualcosa di corporeo".

Un'altro obbiettivo principale di Hobbes, nelle Obiezioni alle Meditazioni (1641) è la negazione della possibilità di dimostrare con argomenti filosofici l'esistenza di Dio, che si fonda sulla

divergenza fondamentale tra i due pensatori sul significato da attribuire al termine idea. Per Cartesio, idea è "tutto ciò che viene immediatamente percepito dalla mente", cioè qualsiasi oggetto del pensiero, mentre per Hobbes è un'immagine, che deve quindi derivare dall'esperienza: d'altra parte, solo il possesso di un'idea - in questa sua accezione "empiristica" - certifica secondo Hobbes dell'esistenza di una cosa, per cui non è possibile andare al di là della probabilità, se si vuol dimostrare con argomentazioni filosofiche, cioè razionali e naturali, l'esistenza di ciò che è trasmesso dai nostri sensi. Non è difficile rendersi conto che queste premesse hobbesiane colpiscono alla radice la prova "ideologica" cioè il tentativo cartesiano di dimostrare l'esistenza di Dio partendo dall'idea che ne abbiamo.

In questa obiezione risalta la distinzione hobbesiana tra ciò che viene rappresentato da un'immagine o idea, e ciò cui si perviene attraverso un'elaborazione razionale, e a cui viene dato un nome, benché non se ne abbia alcun concetto. A quest'ultima categoria appartiene Dio, la sostanza e l'anima.

In sostanza la posizione hobbesiana, che si collega a quanto già emerso negli Elementi (1640), è la seguente: il punto di partenza di ogni conoscenza è costituito dai concetti, i quali possono essere, o sensazioni, o immagini da esse derivate; queste ultime si dicono anche "idee". Quanto ai nomi, vengono attribuiti, sia ai concetti, sia a ciò che non viene dai sensi, ma è dedotto dalla ragione, come appunto nel caso dei nomi di Dio, dell'anima, o della sostanza.

Una distinzione di questo genere, tuttavia, anche agli effetti immediati della polemica anticartesiana, si ridurrebbe a una semplice disputa terminologica, se per Hobbes "ciò che si deduce per via razionale" avesse il medesimo rilievo di ciò che viene rappresentato da un concetto: in realtà, Hobbes è ben lontano dal conferire alla ragione il carattere "realizzante" che le attribuisce Cartesio; per lui l'evidenza razionale, che l'autore delle Meditazioni esalta come "magna lux in intellectu", si riduce alla pretesa dogmatica di chi vuol fare prevalere la propria opinione, anche se a torto, e la ragione non è altro che un procedimento puramente formale di connessione di nomi, secondo princìpi che non da essa hanno tratto origine, essendo in ultima analisi il risultato di un atto di volontà, di un arbitrio.

Quanto detto ci pare sufficiente per comprendere la differenza profonda che si ha fra la ragione matematico-deduttiva di Cartesio (e in genere del razionalismo moderno), cui Hobbes indubbiamente si ispira, e la ragione che sta alla base del calcolo logico-meccanicistico di Hobbes. Mentre per Cartesio l'evidenza razionale è criterio del reale (diversamente dall'esperienza sensibile che è completamente svalutata), per Hobbes l'evidenza razionale ha valore unicamente sul piano formale della connessione logica dei nostri concetti. Essa è certamente molto utile quale strumento logico al servizio dell'esperienza, ma in nessun modo la può sostituire: "L'origine di tutti [i pensieri] è ciò che chiamiamo senso (poiché non c'è alcuna concezione della mente umana che non sia stata dapprima, in tutto o per parti, generata negli organi del senso). Il resto è derivato da quella origine". Per passare dal piano dei concetti e dei nomi al piano della realtà è quindi necessario l'abbandono del metodo deduttivo e il passaggio a quello induttivo.

Metodo deduttivo e induttivo

Si è visto che la scienza, per Hobbes, una struttura puramente formale. Il suo rigore logico non implica per nulla che vi sia una corrispondenza fra ordine dei nomi e ordine dei corpi esterni. "Dobbiamo guardarci dal pensare - egli dice - che anche i corpi fuori dalla mente si compongano allo stesso modo". E ciò è facilmente comprensibile all'interno del suo sistema, data la convenzionalità con cui l'intelletto impone i nomi alle immagini della mente e la non corrispondenza fra queste immagini e i corpi esterni. Nonostante queste affermazioni, Hobbes non conclude ad una inutilità del calcolo logico-razionale, quasi pura costruzione fantastica senza corrispondenza nella realtà, bensì solo all'impossibilità di far corrispondere immediatamente e semplicemente la perfetta razionalità di un sistema logico deduttivo di tipo matematico con le connessioni reali che si danno fra i corpi, costruendo a priori una filosofia della natura. A tal fine è necessario ricorrere all'esperienza, e quindi al metodo induttivo. Solo l'esperienza ci può infatti dire se le costruzioni logiche della ragione hanno riscontro nella realtà. Il passaggio dal campo delle connessioni logico-razionali al campo dell'esperienza induttiva implica però l'uscita dal rigore assoluto del sapere per entrare nell'ambito della conoscenza soltanto probabile delle ipotesi scientifiche. Un esempio di questa duplicità di piani e di rigore conoscitivi si ha in Hobbes a proposito della disputa fra il sistema astronomico tolemaico e quello copernicano. Per Hobbes entrambi i sistemi sono ugualmente rigorosi sul piano della pura e semplice costruzione logico-matematica. Sul piano della realtà fisica, Hobbes parteggia invece per il sistema copernicano, ritenendolo più probabile perché meglio spiega i fenomeni celesti che si offrono all'esperienza.

Risulta quindi evidente che in fisica la spiegazione non può che essere ipotetica, anche se si possono dare spiegazioni più o meno verosimili. Al fisico si richiede solo di elaborare ipotesi che non siano prive di senso, e che diano ragione dei fenomeni mediante dimostrazioni rigorose, che non implichino d'altra parte contraddizioni o incongruenze rispetto ad altri fenomeni o ad altre dimostrazioni cui siano legate.

Il linguaggio e la scienza

Per Hobbes la possibilità di concludere dall'esperienza una qualsiasi proposizione universale è legata alla provenienza di tale conclusione dal "ricordo dell'uso di nomi imposti arbitrariamente dagli uomini". Arbitrario quindi anzitutto il linguaggio e con esso la scienza. Il linguaggio, infatti, è un uso convenzionale di contrassegni con cui l'uomo fissa i correlati mentali (immagini-concetti) degli oggetti esperiti, dando ad essi dei nomi.

E' caratteristico l'immediato collegamento istituito da Hobbes tra una conoscenza certa ed universale - cioè la scienza - e il linguaggio: l'universalità delle conclusioni scientifiche sembra infatti derivare loro solo dal fatto di essere espresse mediante dei nomi. "E' grazie al vantaggio dei nomi che siamo capaci di scienza, mentre le bestie, mancando di essi non lo sono": se l'esperienza accomuna, nella sua incertezza, l'uomo agli altri animali, è pur vero che le congetture e le reminescenze umane sono meno confuse di quelle dei bruti; questo avviene perché i bruti non hanno a disposizione dei contrassegni con cui distinguere le proprie idee, e soprattutto ricordarle, mentre l'uomo fissa i propri concetti mediante i nomi.

Come si vede, il nome non limita la sua funzione al raffinamento dell'esperienza umana, ma pone l'uomo in condizione di trascendere il piano puramente sperimentale, rendendolo "capace di scienza": ciò si deve al fatto che è possibile contrassegnare un gran numero di idee simili con un solo nome, l'universale, fermo restando che "non vi è nulla di universale, tranne i nomi", dato che i nostri concetti sono tutti particolari, sicché a una serie di connessioni tra singoli concetti, ripetute quante volte l'esperienza possa permettere, si sostituisce un'unica connessione tra due termini universali, cioè si formula una proposizione universale.

L'imposizione di un nome a una classe di concetti è dunque un atto di arbitrio, in virtù del quale gli uomini decidono di denotare con uno stesso segno o nome la stessa cosa. Il nome non suppone dunque alcuna realtà dietro di sé, ma è solo il contrassegno per una serie di rappresentazioni simili e solo in questo è dotato di universalità.

A questo punto entra in gioco la questione del vero e del falso, che acquista un senso solo a livello proposizionale. Anche questo problema è risolto da Hobbes in rapporto a questa sua concezione del carattere arbitrario del linguaggio e del suo rigido nominalismo.

Per Hobbes "la proposizione è un discorso costituito dalla connessione di due nomi, mediante il quale chi parla intende significare che egli pensa che il nome seguente è nome della medesima cosa cui si riferisce il nome che precede; ovvero (che è lo stesso) che il nome che precede è contenuto nel nome che segue". Quando il nome seguente, ossia il predicato è nome della medesima cosa di cui è nome il soggetto, la proposizione è vera.

Vero e falso riguardano allora il modo di connessione dei nomi fra loro, e verità o falsità di una proposizione dipenderà appunto dal fatto che le connessioni tra nomi vengano operate in modo corretto, nel senso che il secondo termine comprenda o meno il primo (o non lo comprenda, nel caso della negazione), come nel caso: "la carità è una virtù", "l'uomo è un animale". In questo modo, la connessione tra due termini è detta vera quando rispetta, anzi riproduce un certo tipo di connessione, alla quale si deve fare riferimento: ma come si opera la verifica di queste connessioni archetipiche, qual è la fonte alla quale attingiamo il criterio per stabilire ad es. se "la carità è una virtù"? Secondo Hobbes, questa verificazione avverrebbe semplicemente attraverso il controllo della rispondenza della connessione proposta da una proposizione, con la connessione archetipica, stabilita all'atto della denominazione originaria:

" [...] le verità assolutamente prime sono nate dall'arbitrio di coloro che per primi imposero nomi alle cose o che adattarono nomi già posti da altri. Infatti, ad esempio, è vero che l'uomo è un animale, per il fatto che è parso opportuno imporre quei due nomi alla medesima cosa".

La scienza Per Hobbes garantisce la verità dei propri assunti solo in quanto elabora corrette connessioni nominali, per la cui verifica rimanda ad altre connessioni nominali, finché si perviene alle connessioni fondamentali, che sono implicite nel primitivo atto della denominazione: se a tutte le cose cui è stato imposto il nome uomo è stato imposto anche il nome animale, sarà sempre e incontestabilmente vero che l'uomo è un animale.

Ciò equivale a ridurre la scienza a nomenclatura.

Così se la mente opera sui segni e se i segni non hanno più alcun legame ontologico con il mondo esterno, il contenuto delle conclusioni dei discorsi scientifici non potrà mai venire riferito a un ambito diverso da quello dei segni stessi, non potrà mai pretendere di corrispondere ad una realtà extramentale.

Tuttavia, nella concezione che Hobbes ha della scienza, emergono due istanze conflittuali: da un lato sta l'ideale convenzionale di una scienza, la cui verità è garantita dal fatto, che si deducono semplicemente le conclusioni, già implicite nelle primitive imposizioni di nomi alle cose; dall'altro vi è la necessità di spiegare in chiave meccanicistica - cioè di generazione meccanica - l'intera realtà naturale.

Nel De corpore (1655) queste due esigenze vengono mediate da Hobbes ponendo come principio autoevidente della scienza, in quanto primo nell'ordine delle cause, il moto. La causa più generale di tutte è il moto, che è anche il nome più universale, in quanto tutti gli altri nomi si risolvono in esso.

Nel De corpore (1655) Hobbes dà la seguente definizione della filosofia - o scienza: "La filosofia è la conoscenza, mediante ragionamento rigoroso, degli effetti o fenomeni in base alla concezione delle loro cause o generazioni, e per converso, delle possibili generazioni, in base alla conoscenza degli effetti".

La filosofia, per Hobbes, ha il compito di ricercare le cause degli "universali e semplici", ossia le cause degli aspetti comuni a tutte le cose; queste cause sono le proprietà geometriche e, sopra tutto, il moto, poiché anche la varietà delle figure nasce dalla varietà dei movimenti coi quali si costruiscono, e il moto non ha altra causa che il moto. Le qualità sensibili non hanno altra causa che il moto. Hobbes mutua questa persuasione di fondo da Galileo: "Galileo per primo ci ha aperto la porta principale di tutta la fisica: la natura del moto" (Epistola dedicatoria del De corpore) E Galileo ha aperto questa porta, ossia ha fondato la fisica come scienza, perché ha applicato alla fisica la geometria. Ora la geometria è una scienza rigorosamente dimostrata perché siamo noi che costruiamo le figure geometriche. "Poiché le cause delle proprietà delle singole figure dipendono da quelle linee che noi stessi abbiamo tirato, e le generazioni delle figure dipendono dal nostro arbitrio, per conoscere le proprietà di qualsiasi figura si richiede solo la considerazione di ciò che consegue dalla costruzione che noi stessi facciamo nel delineare la figura. E' dunque perché noi stessi creiamo le figure che la geometria c'è, ed è dimostrabile [è scienza rigorosa]".

Quindi, Hobbes ritiene che la scienza richieda la conoscenza delle cause e che "i nomi delle cose di cui si comprende che possano avere una causa debbono avere nella propria definizione quella stessa causa o modo di generazione", come nel caso del circolo, che viene definito come una "figura generata dalla rotazione di una linea retta su un piano".

Se si risolve una cosa nelle sue cause, cioè se si va alle sue componenti più universali, ovvero le proprietà geometriche, e quindi si definisce quella cosa stessa, la definizione deve far riferimento alla causa di questi universali stessi, cioè il moto. Ma questo procedimento è possibile solo perché in questo caso siamo noi ad aver prodotto quel movimento stesso, ad esempio, nel caso del circolo, siamo noi ad aver prodotto le sue proprietà geometriche attraverso un movimento di rotazione.

In conclusione, per Hobbes, la scienza è conoscenza delle cause, ma si ha vera scienza solo di ciò di cui si è causa. Le scienze soggette al metodo sintetico-deduttivo (come la geometria e la meccanica) sono in nostro potere in quanto costruite dal nostro volontario arbitrio e perciò perfettamente trasparenti alla nostra comprensione. Il principio che ciò che è fatto da noi è vero per noi, è l'unico criterio di verità valido per le scienze deduttive.

Diverso è il caso della scienza naturale (induttiva) in quanto non siamo noi a produrre gli esseri di natura; essi sono prodotti da Dio e perciò gli uomini non ne conoscono le cause, cioè il modo in cui essi sono generati o prodotti. Per essi, quindi, una dimostrazione necessaria, che vada dalla causa all'effetto, non è possibile. Si può risalire soltanto dagli effetti, cioè dai fenomeni che vediamo in natura, alle loro cause supposte, ma poiché uno stesso effetto può essere prodotto da cause diverse si raggiungono così conclusioni probabili ma non necessariamente vere.

E' questo un punto di vista che, già accettato da Cusano, sarà accettato da Vico e posto a fondamento della sua filosofia. Vico lo espresse dicendo che il vero e il fatto significano la stessa cosa, che si può conoscere con verità solo ciò che si fa e che perciò mentre la scienza delle cose naturali è riservata a Dio che le ha create, e di esse l'uomo può avere solo una scienza approssimativa o probabile, la scienza delle cose fatte dall'uomo, cioè degli enti matematici e degli eventi storici è il patrimonio proprio dell'uomo stesso.

L'autentica conoscenza scientifica, quella dimostrativa, va dalla causa all'effetto e può ottenersi solo di quegli oggetti che sono creati dall'uomo. E Hobbes ritiene che solo le scienze matematiche e le scienze morali, cioè la politica e l'etica, hanno oggetti di questa natura. Difatti come l'uomo stesso costruisce le figure geometriche tracciandone a suo arbitrio le linee, l'uomo stesso crea le cause della giustizia e dell'ingiustizia, stabilendo le leggi e le convenzioni che sono alla base dell'etica e della politica: perciò nella matematica, nell'etica e nella politica si possono avere dimostrazioni necessarie che costituiscono vere e proprie scienze.

Il materialismo

Se la ragione e la scienza possono rivolgersi con successo solo ad oggetti di cui si può conoscere la causa produttrice, quindi ad oggetti generabili, quando si tratta di oggetti non generabili come Dio, gli angeli e in generale tutte le cose incorporee, la ragione non ha modo di esercitarsi e la scienza non è possibile. Poiché i soli oggetti generabili che in quanto tali hanno una causa conoscibile della loro genesi, sono i corpi, gli oggetti estesi o materiali sono, secondo Hobbes, i soli oggetti possibili della ragione.

In questa tesi consiste il materialismo di Hobbes. Egli riproduce su questo punto la dottrina degli Stoici, i quali affermavano che solo il corpo esiste, perché solo il corpo può agire o subire una azione. La parola "incorporeo", afferma Hobbes, è per l'uomo priva di significato; anche quando è riferita a Dio, esprime non un suo attributo autentico, ma solo la pia intenzione di onorarlo con un attributo che lo distingue da ciò che c'è di più grossolano nella natura. Nella polemica con il vescovo Bramhall, Hobbes afferma che dire che Dio è incorporeo equivale a dire che non esiste affatto.

Da questo punto di vista, è ovvio che neppure lo spirito umano è incorporeo. La sensazione non è che l'immagine apparente dell'oggetto corporeo che la produce nei nostri organi di senso. Ma sia l'oggetto sia la sensazione non sono altro che movimenti: movimenti sono, difatti, le qualità sensibili che sono nell'oggetto; e movimenti sono le sensazioni che tali qualità producono nell'uomo. Movimento è anche l'immaginazione che conserva le immagini dei sensi ed è quindi una specie di inerzia dei movimenti che si originano dall'esterno con la sensazione. La stessa anima pensante è materiale; e non potrebbe non esserlo, dato che i suoi atti (idee, sentimenti, ecc.) sono movimenti, prodotti dai movimenti dei corpi esterni.

Il corpo è l'unica realtà, cioè l'unica sostanza che esista realmente in sé stessa; e il movimento è l'unico principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali, giacché ad esso si riducono anche i concetti di causa, di forza e di azione.

Il meccanicismo

La fondazione di questa visione materialistico-meccanicistica che investe tutti campi della realtà, dalla natura all'uomo, ha luogo nella Filosofia prima, la seconda parte del De corpore, in cui Hobbes isola ed analizza i concetti e le nozioni generali di cui fa uso la scienza (compresi i principi della geometria), cioè i concetti di spazio e tempo, e le nozioni di corpo e moto, cercando di mostrare come essi siano i più semplici e universali, in quanto stanno alla base di ogni altro concetto analizzabile. Ciò è reso possibile dal ricorso a quell'ipotesi annichilatoria già presente negli Elementi e che pure in quel libro serviva a mostrare come la scienza abbia a che fare esclusivamente con i concetti della nostra mente, e non con una realtà esterna, alla quale i concetti stessi ci rimandano, ma che permane oggetto di supposizione, seppure verisimile.

Il concetto più semplice e indeterminato che si possa presentare a una mente che abbia subito la riduzione illustrata dall'ipotesi annichilatoria, è quello della pura esteriorità, cioè dello spazio, che Hobbes chiama immaginario, in quanto è il "concetto di spazio", quasi a sottolineare l'esclusivo "mentalismo" dell'analisi. E' tuttavia innegabile che nel concetto di spazio sia implicita la nozione di corpo, tant'è vero che Hobbes definisce lo spazio come "il fantasma di una cosa esistente, in quanto esistente". Il medesimo discorso vale per il concetto di tempo: il tempo implica il moto, e viene infatti definito come "il fantasma del moto, in quanto nel moto immaginiamo un prima e un poi, cioè una successione".

Il corpo e il moto sono quindi i veri principi di spiegazione di tutto ciò che si presenta alla mente, ma compaiono successivamente nella deduzione hobbesiana, in quanto sono meno semplici delle pure immagini di spazio e tempo, e soprattutto non sono immagini o concetti, bensì nozioni ricavate per via razionale.

Secondo Hobbes, la nozione di corpo prende forma nella mente quando si pensi a qualcosa che si collochi nello spazio precedentemente immaginato; ma l'elemento veramente nuovo che lo distingue dallo spazio immaginario è la sua indipendenza dall'immaginazione. Operando quindi dall'interno della mente, Hobbes isola una nozione il cui carattere essenziale consiste nell'essere indipendente da quella stessa mente dalla quale è ricavata, con un meccanismo di pensiero che richiama per qualche aspetto la prova ontologica di S. Anselmo.

Dedotte in questo modo, le nozioni di corpo e di moto, con i loro correlati concettuali, lo spazio e il tempo, Hobbes è in grado di fondare quell'interpretazione rigorosamente meccanicistica della realtà, in tutte le sue manifestazioni. Al rigoroso meccanicismo si accompagna un altrettanto rigoroso determinismo, nel senso che ogni fatto trova la sua causa necessaria in un altro fatto e tale causa universale e necessaria di tutti gli aspetti della realtà è il moto.

La realtà, nella visione hobbesiana, appare quindi come una successione concatenata e necessaria di fatti, prodotti dal movimento dei corpi, e dalla trasmissione del movimento da un corpo all'altro. Resta tuttavia il problema della oggettiva esistenza di una struttura meccanicistica così intesa, visto che i principi suesposti sono stati ricavati esclusivamente attraverso un'analisi dei contenuti mentali, che costituiscono una sorta di diaframma tra il soggetto e l'esteriorità.

Il problema cartesiano della garanzia circa la reale struttura del mondo esterno, risolto dal pensatore francese con il ricorso alla credibilità di Dio, trova in Hobbes una soluzione ancora "mentale": in seguito all'ipotetica annichilazione, l'uomo avrebbe a che fare con immagini che, "benché siano solo idee e fantasmi, aventi riferimento allo stesso soggetto immaginante, appariranno nondimeno come esterne, e per nulla dipendenti dalla creatività dell'anima". Certe immagini hanno quindi come connotazione caratteristica e peculiare di presentarsi come dotate di oggettività, anche se ciò che ne possiamo affermare con certezza è solo la loro appartenenza all'ambito della mente.

Due quindi sono i modi in cui è possibile considerare tali immagini: o come modo d'essere del soggetto senziente ("accidenti interni dell'animo") o come realtà intermedie tra il soggetto conoscente e la realtà conosciuta ("specie delle cose esterne"), cioè non come qualcosa di realmente esistente, ma che appare esistere, cioè "stare fuori".

In ogni atto del processo conoscitivo quindi l'uomo non potrà mai oltrepassare i limiti della soggettività, per prendere diretto contatto con l'oggettivo, che gli è precluso nella sua immediatezza dalla barriera mediatrice rappresentata dai concetti: come Hobbes dirà a proposito del corpo, il reale sta al di là dell'immagine di spazio, ed è oggetto di supposizione, in quanto "non coi sensi, ma solo con la ragione si comprende che lì vi sia qualcosa". L'esistenza di una realtà fuori di noi, e soprattutto che sia strutturata meccanicisticamente, essendo il risultato di una deduzione razionale, non può quindi che essere oggetto di una supposizione, indubbiamente fondata, ma mai interamente verificabile.

L'antropologia e l'etica naturalistica

L'ambito in cui Hobbes cercò di applicare con più impegno il suo ideale scientifico fu quello dell'etica e della politica. Impressionato dalle lotte che dilaniavano a quel tempo l'Inghilterra, egli volle fondare una rigorosa scienza delle azioni umane, capace di riportare la pace e l'ordine nei rapporti fra gli uomini: "Se si conoscessero con egual certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria, sarebbero debellate l'ambizione e l'avidità, il cui potere si appoggia sulle false opinioni del volgo intorno al giusto e all'ingiusto" (De cive. Epistola dedicatoria).

Hobbes, quindi, contrapponeva il sapere matematico al dogmatico, mai immune da controversie e discussioni "perché confronta uomini e interferisce nel loro diritto e profitto": solo applicando il rigore logico della matematica alla considerazione del comportamento umano, battendo in breccia le mistificazioni della retorica, egli sperava di poter essere considerato un giorno - come confiderà nella dedicatoria del De corpore (1655) - il fondatore della scienza politica, così come Copernico e Galileo avevano fondato la nuova astronomia, Harvey la nuova fisiologia, Gassendi e Marsenne la nuova fisica.

L'etica è per Hobbes lo studio dei moti dell'animo, così come la fisica è lo studio del moto dei corpi. I vari moti dell'animo, desiderio o avversione, amore o odio, speranza o timore, ecc., non sono altro che il risultato della pressione esercitata in noi dai corpi esterni. Se l'azione dei corpi esterni favorisce il movimento vitale del corpo animato, che per natura sua tende all'autoconservazione, questi reagisce col desiderio; in caso contrario reagisce con l'avversione. Amore e odio sono desiderio o avversione nei confronti delle cose presenti; speranza e timore sono desiderio o avversione di cose future. Quanto alle nozioni di bene e di male, esse sono introdotte unicamente per indicare l'oggetto del desiderio o dell'avversione. Bene è ciò che piace, male ciò che dispiace. Dato che bene e male vanno quindi individuati nelle composizioni di movimenti centripeti che vanno dalla periferia al cuore e "dato che ognuno differisce da un altro nella costituzione fisica, così ci si differenzia l'uno dall'altro anche riguardo alla comune distinzione di bene e male". "Infatti queste parole: bene, male e spregevole, sono sempre usate in relazione alla persona che le usa, non essendoci niente che sia tale in se stesso e in senso assoluto e nemmeno una comune regola del bene e del male che si possa ricavare dalla natura stessa delle cose".

Sarebbe difficile trovare, tra i contemporanei di Hobbes, dei pensatori che relativizzassero in modo più completo ed esplicito questi due concetti, a partire da una coerente riduzione meccanicistica della realtà.

L'impostazione meccanicistica conduce inoltre Hobbes a negare l'esistenza di una volontà razionale e soprattutto l'esistenza della libertà. Le reazioni umane ai moti dei corpi esterni sono pienamente determinate dal concatenamento necessario dei moti che vi hanno dato origine. Se si parla di libertà è solo nel senso di "assenza di opposizione" al moto naturale di un corpo (sia esso animato o meno, animale o umano), da parte di un corpo esterno.

L'etica di Hobbes è di chiara impronta naturalistica. Ove per etica naturalistica si intende quell'etica che ritiene di dover spiegare la vita morale dell'uomo unicamente in base ai processi istintivi naturali propri dell'organismo umano, senza necessità di ricorrere in alcun modo a principi o valori riconosciuti con la ragione e liberamente attuati.

Giusnaturalismo e positivismo giuridico nelle formulazioni sistematiche della teoria politica

Pubblicando il De cive (1642), Hobbes era cosciente del fatto che l'apparizione di quest'opera, che doveva essere la terza nell'ordine logico degli Elementa philosophiae, prima delle altre due sezioni, poteva apparire una sorta di tradimento dell'ideale deduttivo che egli, con quella disposizione delle parti, intendeva invece proporre (il corpo-l'uomo-il cittadino). Tant'è vero che egli si sentirà indotto a fornire nella prefazione ai lettori aggiunta alla seconda edizione, una sorta di giustificazione teorica del fatto, invocando non solo i motivi politici contingenti ("la rivoluzione gloriosa"), ma anche il possibile sganciamento metodico della scienza politica dalle altre: "non miè parso che avesse bisogno delle precedenti, fondata com'è su principi propri, provati dall'esperienza".

Il richiamo all'esperienza (esperienza storica e introspezione individuale) sembra creare comunque una frattura nello svolgimento apodittico della scienza generale da lui auspicata, anche se il modello metodico della scienza politica rimane la rigorosa deduzione delle conclusioni da principi certi e indubitabili, che trova il proprio riscontro migliore nella geometria.

I presupposti che stanno alla bse della costruzione di Hobbes della società e dello Stato sono fondamentalmente due.

1) in primo luogo, il nostro filosofo ammette che, pur essendo relativi tutti i beni, vi sia fra di essi un primo e originario bene, che è la vita e la conservazione della medesima (e quindi un primo male che è la morte).

2) In secondo luogo, egli nega che esistano una giustizia e una ingiustizia naturali, dato che, come abbiamo visto, non ci sono "valori" assoluti, e sostiene che questi siano frutto di "convenzioni" stabilite da noi stessi, e che quindi siano conoscibili in maniera perfetta e a priori, insieme a tutto ciò che da esse scaturisce.

1) "Egoismo" e 2) "convenzionalismo" sono, dunque, i cardini della nuova scienza politica, che, secondo Hobbes, potrà dispiegarsi come sistema deduttivo perfetto, così come quello della geometria euclidea.

La nuova concezione politica di Hobbes costituisce il rovesciamento più radicale della classica posizione aristotelica. Lo Stagirita sosteneva, infatti, che l'uomo è "animale politico", cioè fatto per vivere con gli altri in una società politicamente strutturata; egli inoltre assimilava questo essere "animale politico" dell'uomo con lo stato proprio altresì degli animali, quali le api e le formiche, che desiderando e fuggendo le stesse cose e dirigendo le loro azioni a fini comuni, si aggregano spontaneamente. Hobbes contesta vivacemente la proposizione aristotelica e il paragone. Ciascun uomo, per lui, è profondamente diverso dagli altri uomini e quindi da esso staccato (è un atomo di egoismo). Pertanto ciascun uomo non è affatto legato agli altri uomini da un consenso spontaneo come quello degli animali, che si basa su un "appetito naturale". Il movente determinante dell'azione umana è invece l'utilità.

Lo Stato dunque, non è un fatto naturale, ma artificiale. Esso nasce nel modo seguente.

La condizione in cui gli uomini naturalmente si trovano è quella di guerra di tutti contro tutti. Ciascuno tende ad appropriarsi di tutto ciò che serve alla propria sopravvivenza e conservazione. E poiché ciascuno ha diritto su tutto, e non v'è limite posto da natura, ne nasce l'inevitabile sopraffazione degli uni sugli altri. E' in questo contesto che Hobbes usa la frase di Plauto homo homini lupus, che non denota tuttavia un'impronta di pessimismo morale, ma un rilievo sulla condizione naturale dell'uomo, derivante dalla necessità dell'autoconservazione.

In questa situazione, l'uomo rischia di perdere il bene primario, che è la vita, essendo in ogni istante esposto al pericolo di una morte violenta. Tutto ciò deprime ogni iniziativa ed attività produttive.

Da questa condizione l'uomo esce facendo leva su due elementi basilari:

a) su alcuni istinti e b) sulla ragione.

a) Gli istinti sono il desiderio di evitare la guerra continua, per avere salva la vita, e il bisogno di procacciarsi il necessario alla sussistenza.

b) La ragione è qui intesa non tanto come valore in sé, quanto come strumento atto a realizzare quei desideri di fondo.

Nascono, in questo modo,le "leggi di natura", che non sono se non la razionalizzazione dell'egoismo, le norme che permettono di realizzare l'istinto dell'autoconservazione.

Solitamente si ricordano le prime tre, che sono le principali. Ma Hobbes, nel Leviatano (1651), ne elenca diciannove. Il modo in cui egli le pone e le deduce dà un'idea del come gli si servisse del metodo geometrico applicato all'etica e del come intendesse reintrodurre, sotto nuova veste, quei valori morali che aveva escluso, e senza i quali non si costruisce alcuna società.

1) La prima e fondamentale regola comanda di sforzarsi di cercare la pace.

2) La seconda regola impone di rinunciare al diritto su tutto, ossia a quel diritto che si ha nello stato di natura, e che è quello che scatena tutte le contese.

3) La terza legge impone, una volta che sia sia rinunciato al diritto su tutto "che si adempiano i patti fatti". Nasce di qui la giustizia e l'ingiustizia (giustizia è stare ai patti, ingiustizia trasgredirli).

Queste leggi, tuttavia, non bastano ancora di per sé per costituire la società, giacché occorre anche un potere che costringa a rispettarle: i "patti senza la spada che ne imponga il rispetto" non servono ad ottenere lo scopo che ci si prefigge. Per conseguenza, secondo Hobbes, occorre che tutti gli uomini deputino un unico uomo (o un'assemblea) a rappresentarli.

Ma si noti bene: il "patto sociale" non è stretto dai sudditi con il sovrano, bensì dai sudditi tra di loro. (totalmente diverso sarà il patto sociale di cui parlerà Rousseau). Il sovrano resta fuori del patto e resta il solo depositario delle rinunce dei diritti dei sudditi, e, dunque, unico a mantenere tutti gli originari diritti. Se anche il sovrano entrasse nel patto, non si eliminerebbero le guerre civili, perché nascerebbero tosto contrasti vari nella gestione del potere. Il potere del sovrano (o dell'assemblea) è indiviso e assoluto. E, questa, la più radicale teorizzazione dello Stato assolutistico, dedotta non dal "diritto divino", (come era stata dedotta in passato), ma dal "patto sociale" sopra descritto.

Poiché il sovrano non entra nel gioco dei patti, una volta ricevuti nelle sue mani tutti i diritti dei cittadini li detiene irrevocabilmente. Egli è al di sopra della giustizia (perché la terza regola vale, come le altre, per i cittadini, non per il sovrano). Egli può intervenire anche in materia i opinione, giudicare, approvare o proibire determinate idee. Tutti i poteri debbono concentrarsi nelle sue mani. La stessa Chiesa deve essergli soggetta. Lo Stato interverrà quindi anche in materia di religione. E poiché Hobbes crede nella Rivelazione e quindi nella Bibbia, lo Stato che egli ipotizza, a suo avviso, dovrà essere arbitro anche in materia di interpretazione delle Scritture e di dogmatica religiosa, troncando in tal modo ogni motivo di discordia. L'assolutismo di questo stato è veramente totale.

Angelo Papi - Contatto

Bibliografia

Critica


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26-04-2015