L'allegoria della caverna e la formazione dello statista nella Repubblica platonica

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PLATONE (428-27/347)

Mito della caverna platonica

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L'allegoria della caverna e la formazione dello statista nella Repubblica platonica

Nel Libro VII della Repubblica1, Platone, con quel suo modo curioso di scrivere in forma dialogica, in cui l'interlocutore (in questo caso Glaucone, suo fratello) dà sempre ragione a Socrate (dietro cui si cela lo stesso Platone), delinea il suo mito più famoso, quello della caverna, che gli serve per presentare in forma simbolico-metaforica quanto già detto, in maniera razionale, nei libri precedenti.2

La situazione descritta nel mito è piuttosto inverosimile, in quanto gli uomini chiusi in una caverna sotterranea (e qui si potrebbe pensare a degli schiavi in miniera) lo sono fin da bambini, incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e poter guardare solo in avanti, cioè verso la parete di fondo. Le catene sembrano rappresentare ciò che dall'esterno impedisce di comprendere la verità delle cose, la quale brilla, nella veste del sole, dietro di loro. Ma poi, leggendo tutto il testo, si ha l'impressione che le catene siano qualcosa che lo schiavo si mette da solo e da cui però non riesce più a liberarsi, a motivo dell'abitudine: ecco perché ha bisogno di un aiuto esterno, la cui natura o identità non viene però precisata adeguatamente.

Dall'ingresso della caverna-carcere entra la luce del sole-verità, non direttamente, ma passando sopra un muricciolo, oltre il quale vi è la società (qui non è importante sapere se essa sia composta di individui liberi o meno). Platone infatti ha di mira non la società in generale, ma alcuni singoli individui, quelli più legati (incatenati) ai loro pregiudizi.

Le catene infatti rappresentano i pregiudizi più forti, quelli ai quali non si vuole rinunciare. Quindi non necessariamente gli uomini della caverna sono schiavi: semmai sono schiavi dei loro preconcetti, dei loro idoli. Viceversa quelli che camminano oltre il muro rappresentano la gente comune, la quale non necessariamente è consapevole della verità delle cose. Queste persone forse non hanno neppure un'opinione su quale sia o debba essere tale verità: semplicemente si limitano a portare oggetti sulle loro spalle e tra loro parlano, in maniera del tutto naturale.

I pregiudizi (o le false credenze) sono talmente forti che chi ne è prigioniero vede soltanto ombre in fondo alla parete della caverna: quelle di se stesso e quelle degli oggetti, in pietra o in legno, che altri viandanti portano sulle loro spalle al di là del muro. Quindi ha una percezione falsa sia di sé che della realtà.

Per questi schiavi di se stessi tutto è ombra, anche se, non avendo alcuna esperienza della verità, le ombre vengono scambiate per persone reali, soprattutto quando oltre il muro i passanti parlano. I pregiudizi fanno confondere la realtà con la fantasia. E Platone sostiene che questo qui pro quo non è affatto un'eccezione bensì la regola. Questi "strani prigionieri" - dice infatti a Glaucone - "sono simili a noi".

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Improvvisamente uno dei prigionieri si libera delle catene. Come faccia non è chiaro. Nessuno l'ha aiutato, almeno apparentemente. Platone sembra lasciar intendere che lo schiavo si sia liberato da solo. In realtà non può essere altri che il filosofo a sciogliere il prigioniero dalle catene dei suoi pregiudizi: infatti è lui che, usando modi piuttosto autorevoli, lo costringe ad alzarsi, a girare lo sguardo e a camminare verso l'uscita.

La liberazione non è descritta come fosse sociale o politica, tant'è che solo uno viene liberato. In un certo senso la liberazione è di tipo esistenziale (o filosofico) e quindi del tutto individuale: si tratta in realtà di una "illuminazione interiore", simile a quella buddistica. Infatti l'ex-prigioniero deve abituarsi progressivamente al bagliore della luce, che per lui è cosa del tutto inedita.

Ora, siccome Platone è un idealista, che considera la realtà una semplice copia sbiadita delle vere idee, è evidente che non può accontentarsi di dire (come farebbe uno scienziato o un fenomenologo) che l'ex-prigioniero vede gli oggetti così come sono. Gli oggetti infatti, nell'idealismo platonico, non sono mai così come sembrano. Per capire la verità delle cose, bisogna andare oltre le cose stesse. Ecco perché afferma che il neo-illuminato deve essere "costretto a guardare proprio verso la luce".

Dunque, mentre prima, nella grotta, era costretto dai pregiudizi a confondere le cose, ora invece, all'aperto, è costretto a comprenderle adeguatamente. Da chi? verrebbe da chiedere. Platone non lo dice, ma è evidente che l'artefice di questa illuminazione tendenzialmente "forzata" è lo stesso filosofo, cioè colui che presume di sapere già tutto (contrariamente a quanto diceva Socrate).

L'ex-schiavo deve infatti essere "trascinato a forza su per una salita aspra e ripida", che porta alla luce del sole. Platone dà per scontato che agli uomini non interessa la verità, essendo pigri di natura, conformisti. Ecco perché deve necessariamente usare le maniere forti. Sta esponendo le cose come se si trattasse di un esperimento da laboratorio, in cui lo schiavo liberato fa la parte della cavia. In ciò risulta ben evidente tutto l'aristocraticismo della sua filosofia, e di quella idealistica in generale.

E che lo sperimentatore sia proprio un filosofo e non uno scienziato, Platone lo fa capire quando scrive che, al cospetto della luce solare, il prigioniero-cavia, accecato dal bagliore, "non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri". Infatti solo la filosofia è la vera scienza.

Man mano che l'illuminato sale su per la strada, riesce a capire bene la differenza tra oggetti reali (inclusi gli uomini) e le loro ombre (riflesse nell'acqua). L'ultima cosa che deve contemplare è lo stesso sole, "così com'è nella sua realtà e nella sua sede". Nel Medioevo, alla teologia agostiniana in primis, non ci vorrà molto per sostituire il Sole con la Trinità. In entrambi i casi, infatti, si tratta di una visione beatifica della perfezione, per quanto l'idealismo platonico, rispetto alle fantasie della teologia cristiana, si mantenga sempre entro limiti umanamente accettabili. Il sole infatti va contemplato proprio per capire ch'esso "regola le stagioni e gli anni e governa tutto quanto è nel mondo visibile": il che qualunque moderno ecologista non avrebbe difficoltà ad accettare.

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A questo punto però avviene l'ulteriore metamorfosi. Il neo-illuminato, riconoscente della "grazia" ricevuta, si sente in dovere di andare ad aiutare i suoi ex-compagni di prigionia. Tale altruismo è del tutto normale, anche se qui Platone s'involve in un pensiero piuttosto contorto. Infatti, mentre parla dello stato d'animo di questo schiavo liberato, intenzionato a raccontare ai suoi compagni di un tempo come stanno veramente le cose, in realtà sembra stia parlando di se stesso, cioè stia facendo dell'autobiografia.

Il succo del pensiero, in sostanza, sta nelle seguenti domande: una volta capita la verità delle cose, ci si può piegare a dei compromessi? Si può desiderare di vivere una vita gaudente, come quella di chi non comprende la verità? Si può accettare di mescolarsi, come se nulla fosse, con la gente comune, del tutto disinteressata alla ricerca della verità? Platone si sente politicamente uno sconfitto e qui vuole giustificare la sua scelta univoca e definitiva a favore della filosofia.3

Il suo dramma personale sta proprio in queste parole: se l'ex-schiavo tornasse tra i suoi, completamente trasformato, riuscirebbero mai a capirlo? O rischierebbe addirittura d'essere ucciso, se provasse a liberare gli altri? Platone qui fa la parte del rassegnato, di colui che non crede più in una liberazione sociale e politica e che, nonostante ciò, non può rinnegare completamente il suo passato, soprattutto il suo discepolato presso il grande maestro Socrate.

Pur scrivendo un testo eminentemente politico, come la Repubblica, egli giustifica una posizione strettamente filosofica, che, per sua natura, è elitaria, aristocratica, individualistica.4 Lo dice espressamente a Glaucone: "non meravigliarti che chi è giunto fin qui non voglia occuparsi delle faccende umane, ma la sua anima tenda sempre a dimorare in alto". Il disinteresse per la vita politica non necessariamente è un difetto.

Il filosofo illuminato non vuole apparire "ridicolo", né fare "brutte figure", né vuole sentirsi costretto "a difendersi nei tribunali" dalle "ombre della giustizia". Egli deve per forza isolarsi, perché, al cospetto dei tanti pregiudizi della società, si trova come paralizzato, impotente.

Tuttavia non vuole diventare un filosofo ozioso né, tanto meno, rancoroso: vuole sentirsi utile e, nel contempo, in pace con se stesso, con la propria coscienza. Qualora incontrasse un'anima "incapace di vedere, non riderebbe sconsideratamente", ma ne avrebbe "compassione", perché avrebbe consapevolezza che l'anima fa anzitutto un danno a se stessa.

Platone ovviamente non vuole sostenere che il primato concesso alla filosofia è conseguente alla sua sconfitta come politico. Si limita semplicemente a prendersela con chi (nella fattispecie i sofisti) s'illude di "instillare la scienza nell'anima che non la possiede", cioè senza indurre il soggetto a compiere un lavoro introspettivo su di sé. Ecco dunque l'alternativa ch'egli pone: fare della filosofia una pedagogia filosofica dal valore esistenziale e morale. Il traguardo supremo è quello di poter diventare un filosofo-legislatore, benché egli sappia bene che questo, almeno per quanto lo riguarda, è un obiettivo irraggiungibile, una pura utopia.

In che cosa consiste questa paideia? Nell'essere "distolti dal divenire", al fine di poter "contemplare l'essere". Il divenire non è altro che distrazione, passioni, cattive abitudini - in una parola: perdita di tempo. Per vincere il divenire, occorre fare un lavoro autocritico su di sé. E, a tale scopo, non è detto che l'intelletto, di per sé, aiuti. Occorre proprio una disposizione d'animo, qualcosa che va oltre l'intelligenza e che deve riguardare tutti.

Il filosofo non è altro che uno stoico, che ha rinunciato all'effimero, alla vanagloria, al fine di poter trasmettere il sapere assoluto (l'essenza del bene) al discepolo che lo vorrà ascoltare, mettendo in pratica il suo insegnamento (che è un insegnamento etico, linguistico, metafisico e, se si vuole aggiungere anche "politico", bisogna intendere questo aggettivo in maniera indiretta, come può esserlo una filosofia della politica).

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Platone è sì un filosofo aristocratico (come, in genere, lo sono tutti i filosofi, almeno finché restano tali), ma la sua è un'aristocrazia forzata, obbligata dalle circostanze che non gli hanno permesso di realizzare i suoi ideali politici, i quali erano indubbiamente degli ideali democratici, gli stessi di Socrate.

Siccome ancora crede in questi ideali, la domanda a cui egli deve rispondere non può che essere la seguente: avendo rinunciato politicamente a realizzarli, com'è possibile riproporli? La risposta è una sola: vengono riproposti in chiave pre-politica, cioè etica (se si preferisce usare l'aggettivo "ontologica", lo si faccia pensando che la sostanza resta inalterata).

Il filosofo - che lui chiama "legislatore" o "custode" - non può distogliere l'ex-schiavo illuminato dalla realtà; non lo può far vivere come se avesse acquisito la verità una volta per tutte. Il compito del discepolo è quello di "ridiscendere tra quei prigionieri e partecipare alle loro fatiche e ai loro onori, che siano più o meno seri".

Il "bene", infatti, non è astratto, ma è un bene comune a tutta la polis. Chi è sufficientemente "illuminato" deve sforzarsi di agire per aiutare gli altri nello stesso compito. Se il filosofo ambisce a diventare politico, deve saper produrre delle leggi volte a realizzare il bene comune. Chi non si prende cura degli altri, non solo è un cattivo politico, ma è anche un pessimo filosofo.

La filosofia platonica non avrebbe mai potuto essere come quella aristotelica, la quale, essendo stata subordinata alla dittatura macedone, inevitabilmente tendeva a separare in maniera piuttosto netta la filosofia dalla politica (come, più tardi ancora, farà la filosofia ellenistica, oppressa dalle dittature post-alessandrine).

Platone è sì un uomo sconfitto politicamente, ma ancora crede che la sua filosofia possa servire, indirettamente, a produrre degli ottimi politici. Già al suo tempo esistevano filosofi che non partecipavano alla vita politica, ma Platone non smetterà mai d'interessarsi di politica: ecco perché la sua filosofia rappresenta il vertice della filosofia greca. Su molti aspetti il suo discepolo Aristotele è stato più grande di lui, ma non nel campo della politologia.

Platone ambiva a formare dei discepoli filosofi che, una volta completati gli studi, accettassero di sporcarsi le mani a contatto coi problemi della gente comune. Non voleva fare della filosofia una scienza fine a se stessa. In ciò indubbiamente sta la sua grandezza. "Dovete scendere nella dimora degli altri e abituarvi a guardare ciò che è avvolto nella tenebra" - così dice a Glaucone, che qui però fa la parte dello smemorato e dello sprovveduto.

Se si pensa che, una volta usciti dalla grotta dei propri pregiudizi, si abbia il diritto di estraniarsi dai problemi sociali o di assumere atteggiamenti di supponenza, si sta perdendo il proprio tempo, poiché si rischia di passare da una condizione schiavile a un'altra. Platone sta mettendo alla berlina tutti quei politici che non sono passati attraverso la sua Accademia di formazione filosofica e pedagogica alla politica. Chi s'improvvisa politico e non accetta il duro tirocinio della filosofia, è destinato a comportarsi in maniera autoritaria e a disprezzare il bene comune e la pubblica proprietà.

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Ma quali sono le scienze che un politico deve apprendere nella scuola filosofica di Platone? A testimonianza che la sua scuola non formava alla politica se non molto indirettamente, sono proprio le discipline (di stampo pitagorico) che devono trascinare "l'anima dal divenire all'essere": ginnastica (senza la quale non si può essere "atleti della guerra"), musica (che dà il senso delle proporzioni), aritmetica (utile in guerra e stimolo alla riflessione intellettuale, in quanto va oltre i sensi), geometria piana e solida (utile sempre alla guerra, ma anche a conoscere "ciò che eternamente è"), astronomia (perché comprendere bene le stagioni, i mesi e gli anni non serve solo all'agricoltura e alla navigazione, ma anche alla strategia militare), dialettica (la scienza che ricerca "l'essenza di ogni singola realtà", con l'aiuto della sola ragione: è la disciplina superiore a tutte perché l'unica "in grado di definire razionalmente l'idea del bene". Essa va insegnata per ultima, quando si è in grado di avere una visione olistica delle cose, tenendosi ben lontani dal modo sofistico di usarla, sempre finalizzato a un interesse utilitaristico).

Dunque, poste tali discipline (che vanno insegnate senza costrizione, proprio per capire chi è meglio predisposto ad assimilarle), chi è in grado di diventare statista nella Repubblica platonica? Qui la selezione diventa durissima. "Sono da preferirsi gli uomini più saldi e coraggiosi, e se possibile più belli d'aspetto... dal carattere nobile e dignitoso... forniti di acutezza d'ingegno... di buona memoria, tenaci e molto amanti della fatica... E devono indignarsi fortemente quando gli altri mentono".

Politici del genere non possono certamente essere giovani. Infatti per assimilare la dialettica ci vuole un quinquennio e per esercitarla nella società un altro quindicennio. La grotta dei pregiudizi è un banco di prova: solo chi ne esce indenne è in grado di dirigere una polis. In teoria quindi si potrà farlo soltanto verso i cinquant'anni.

Qui però Platone diventa nebuloso, come è inevitabile quando si affrontano le cose in maniera esclusivamente filosofica. Infatti, dopo aver detto che per un quindicennio l'aspirante statista deve esercitare tutte le magistrature, al fine di mettersi alla prova, arrivato alla saggezza filosofica cosa deve fare di preciso? Sappiamo che nel suo idealismo la filosofia è superiore alla politica. Diventa difficile quindi interpretare in maniera concreta il seguente pensiero: "dovranno essere condotti alla perfezione e costretti a volgere verso l'alto il lume dell'anima e a guardare l'essere in sé che dà luce a ogni cosa".

In pratica, dopo un quindicennio di attività politica, gli statisti hanno un ultimo dovere: quello di diventare dei veri filosofi. Eppure devono continuare a svolgere attività politica, per il bene della polis. Infatti, "dopo aver visto il bene in sé, dovranno usarlo come modello per ordinare, ciascuno a turno, la città, i privati cittadini e se stessi per il resto della loro vita, dedicando la maggior parte del tempo alla filosofia". Questo significa che continueranno sì a fare politica, ma solo in quanto filosofi, poiché non avranno più bisogno di mettersi alla prova. I filosofi-politici sono più "cercatori del sapere" che dei legislatori veri e propri, a meno che le circostanze non lo richiedano esplicitamente."E quando arriva il loro turno, dovranno impegnarsi nel travaglio della politica e del governo della città, pensando di compiere un'opera non bella, ma necessaria". Che significa questa frase se non che per Platone la politica è qualcosa di inferiore alla filosofia? È qualcosa che bisogna fare, ma fino a un certo punto, poiché la meta finale è quella di "abitare nelle isole dei beati", come una sorta di divinità, cui spettano "monumenti e sacrifici pubblici".

È incredibile come egli fosse convinto di aver espresso non "semplici desideri, ma proposte fattibili", per le quali, peraltro, non si sarebbe neppure dovuta fare alcuna differenza di genere, in quanto le donne, potenzialmente, appaiono avere le stesse capacità degli uomini.

Quale sarà dunque il governo degli statisti filosofi? Sarà una sorta di "governo in ultima istanza", quello in cui i filosofi intervengono soltanto quando gli uomini sono incapaci a risolvere i loro problemi o quando non sanno darsi delle leggi che soddisfino le esigenze del bene comune. Ma siccome i filosofi non si fidano dei cittadini che devono governare, saranno costretti a prendere delle decisioni spiacevoli. E la più grave sarà questa: "manderanno in campagna tutti i cittadini al di sopra dei dieci anni", per sottrarli all'influenza dei loro genitori, e li educheranno ad apprendere le discipline citate sopra. In tal modo la polis, nel futuro, potrà essere più facilmente governata.

A leggere queste cose, dal sapore vagamente spartano e certamente non ateniese, viene da sospettare che il testo di Platone sia stato manomesso da chi voleva mettere in ridicolo tutto il suo impianto. Ci si può però esimere da questa congettura pensando che tutta la Repubblica si riferisce non tanto a una polis reale quanto a una kallipolis, cioè a una bella città utopistica, da cui i filosofi, in definitiva, cercano, quando possono, di tenersi lontani.5

Fonti

Adorno, F., Introduzione a Platone, Bari 1978.

Caccia, G., Platone, Repubblica, premessa, tr. it. e note, in Maltese, V. (a cura di), Platone, Repubblica, Roma 2011, pp. 1735-2185.

Droz, G., I miti platonici, trad. it. a cura di P. Bollini, Bari 1994.

Erler, M., Platone, Torino 2008.

Ferrari, F., I miti di Platone, Milano 2006.

Gaiser, K., Il paragone della caverna: variazioni da Platone a oggi, Napoli 1985.

Gastaldi S., Storia del pensiero politico antico, Roma-Bari 1998 (pp. 93-158).

Isnardi Parente, M., Il pensiero politico di Platone, Roma-Bari 1996.

Leonardi, F., La Repubblica di Platone. Il tiranno e il filosofo: una affinità elettiva, in Koinè, anno xvi - 2009, pp. 3-25.

Trabattoni, F., Platone, Roma 1998.

Vegetti, M., Quindici lezioni su Platone, Torino 2003.

Vegetti, M., Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Bari 1999.

Vegetti, M., Platone, La Repubblica, vol. v, libri vi- vii, Napoli 2003.

Vegetti, M.-Abbate M. (a cura di), La Repubblica di Platone nella tradizione antica, Napoli 1999.

1Qui ci si avvale di E.V. Maltese (a cura di), Platone. Tutte le Opere, Roma 1997. La Repubblica, il cui primo nucleo pare preceda il primo viaggio a Siracusa (389/8 - Platone muore nel 347 a.C.), ed è dunque giovanile (cfr. L. Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Roma-Bari 2014, cap. II: La Repubblica nasce prima del primo viaggio in Sicilia, pp. 16-32; «la Repubblica è opera in fieri di un Platone circa quarantenne», ivi, p. 178), venne finita di comporre probabilmente dopo il 387 a.C., insieme al Clitofonte, al Timeo e al Crizia (di dubbia paternità). L’immagine della caverna, probabilmente di origine orfica, era già stata utilizzata da Eraclito ed Empedocle per indicare il cammino dall’oscurità della situazione terrena, illusoria e dolorosa, alla luce della contemplazione di una realtà superiore.

2Nel Libro VI aveva scritto che il filosofo deve governare la polis, essendo l'unico a conoscere adeguatamente l'essere e la verità. È vero che, nonostante la sua sincerità, temperanza, ascesi, intelligenza e senso della misura, può corrompersi per compiacere il volgo, come fanno i sofisti. Ma è anche vero ch'egli non può restare coerente con le proprie idee isolandosi dalla collettività. In ogni caso è sempre meglio un filosofo al potere che un demagogo senza scrupoli.

3Condivido pienamente la tesi di Eric Vögelin, secondo cui il Platone politico va studiato come un pensatore essenzialmente impolitico, che avrebbe racchiuso ogni considerazione relativa alle istituzioni della polis in un ambito etico-psicologico, delineando una sorta di “città interiore” che avrebbe poi prefigurato, seppur senza l'avallo esplicito della teologia, l’agostiniana civitas dei. (cfr Order and History. Plato and Aristotle, vol. III, Bâton Rouge: Lousiana State Univ. Press, 1966).

4Lo statalismo della proprietà comune – che ha fatto pensare a una sorta di comunismo ante-litteram – non è che il rovescio speculare dell'individualismo, come sempre accade là dove si parla di “socialismo statale”, nel senso che ai difetti dell'individualismo non si riesce a trovare una vera soluzione democratica, se non appunto quella statalistica, che di democratico non ha nulla, essendo lo Stato uno strumento di classi sociali oppressive. In tal senso ritengo che K. Popper, nel suo The Open Society and its Enemies (1944), in cui è convinto che il liberalismo borghese sia superiore a qualunque statalismo, abbia capito assai poco della Repubblica di Platone. Quest'ultima non può essere paragonata ai testi del moderno totalitarismo (di destra e di sinistra), in quanto in Platone lo Stato etico viene incontro, all'interno della polis, alle deficienze dell'individuo singolo, nei cui confronti si ha un atteggiamento compassionevole o paternalistico, nella consapevolezza che il mondo sensibile, terreno, è soltanto una copia sbiadita del perfetto Bene ultraterreno. Viceversa nelle dittature vicine ai nostri tempi, molto laicizzate, il potere dello Stato viene usato da pochi individui, schiavi delle loro ideologie, totalmente privi di scrupoli, contro la volontà della stragrande maggioranza dei cittadini, interni ed esterni a una determinata nazione (senza poi considerare che il totalitarismo contemporaneo è del tutto spersonalizzato, frutto di una gestione perversa del capitale e dei mercati, che condiziona la volontà di chiunque e che non tiene conto di alcun confine geografico). Il “totalitarismo platonico” – se questa espressione è lecita – al massimo può trovare un qualche paragone nella teologia politica di Agostino d'Ippona. Non a caso Nietzsche considerò Platone il vero fondatore del cristianesimo.

5Non è da escludere – come ha giustamente sottolineato Leo Strauss in in The city and man, Chicago 1964, ed. it. La città e l'uomo. Saggi su Aristotele, Platone, Tucidide, ed. Marietti, Genova-Milano 2010 – che le esagerazioni palesi nei testi politici di Platone (e in quello della Repubblica in particolare) facciano parte di una forma di “dissimulazione” attuata allo scopo di evitare il rischio di urtare l'opinione dominante dei suoi contemporanei, che avrebbe anche potuto implicare sanzioni di varia natura, che nel suo maestro avevano addirittura portato a una sentenza capitale. In tal senso i veri contenuti politici dei suoi testi sarebbero stati accessibili solo a dei lettori che avessero saputo andare al di là delle suddette esagerazioni. Il fatto stesso ch'egli non si esprima mai in prima persona nelle sue opere rientra in questa particolare strategia difensiva, che forse è stata la stessa adottata nel Vangelo di Giovanni. Peraltro, parlando delle discipline che si devono apprendere, Platone non manca mai di sottolineare la finalità militare, quella che alle istituzioni della polis risultava centrale, e certamente non alla filosofia.

Testi di Platone

Testi su Platone


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento:13-09-2016