L'ultimo Platone politico

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PLATONE (428-27/347)

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L'ULTIMO PLATONE POLITICO

Essendo filosofo impenitente e, per giunta, idealista, cioè astratto, Platone, ogni volta che provava a dare un risvolto politico alle sue idee, riempiva la sua Accademia di fantasticherie.

Lo faceva soprattutto nei testi dedicati alla politica: principalmente Repubblica, Politico e Leggi. Siccome non riusciva a rassegnarsi all'idea di non poter realizzare alcun "sogno politico", cercava continuamente di aggiustare il tiro, proponendo versioni più ammorbidite delle sue tesi surreali (p.es. il divieto di proprietà privata e di matrimonio per i politici e i militari; la comunanza delle donne per gli uomini di potere; l'obbligo di un'educazione statale dei figli sin dalla nascita; la funzione della donna come mero oggetto riproduttivo; gli accoppiamenti realizzati tramite un sorteggio pilotato, che favorisse una sorta di eugenetica ante litteram, e così via).

Il vertice delle sue assurdità è sciorinato - come noto - nella Repubblica, mentre le revisioni sono delineate nel Politico, nel Crizia e nelle Leggi (quest'ultima rimasta incompiuta a causa della sua morte, ma nel progetto avrebbe dovuto essere la più estesa di tutte).

La politica quindi era un suo chiodo fisso, sin dalla gioventù (forse perché seguace di Socrate), e si può anzi dire che la passione per la filosofia gli venne come forma di ripiego per non aver potuto realizzare nulla come politico.

Nell'ultima parte della sua vita cominciò a pensare che forse sarebbe stato meglio accontentarsi, riponendo le utopie nel cassetto. Infatti nel Politico, dando per scontata la divisione in classi contrapposte, in cui la proprietà gioca un ruolo rilevante, afferma che un buon statista è colui che sa mediare interessi opposti.

Sotto questo aspetto, se lo statista fosse un grande "diplomatico" e venisse accettato da tutti i partiti rivali, non vi sarebbe neppure bisogno di elaborare delle leggi, poiché queste non possono tener conto delle specifiche diversità. Tuttavia, siccome è impossibile in una polis dare prescrizioni precise ad ogni singolo individuo, le leggi non possono non esserci, ma sarà sufficiente che esse diano degli indirizzi generali, da rispettarsi scrupolosamente. Per far funzionare le cose ci vorrebbe quindi un grandissimo culto della personalità e, nel contempo, uno statista che se lo meritasse al 100%.

Nell'ultimo libro, Le leggi, resosi conto di aver detto nel Politico l'ennesima sciocchezza, capovolge completamente la prospettiva: non è necessario avere un grande statista, sono sufficienti delle ottime leggi. A una condizione però: ch'esse vengano accettate dal cittadino praticamente sin dalla nascita. Come dire: se non vogliamo creare un culto assoluto intorno a una persona, facciamolo intorno a ciò che egli produce. Nei vangeli il Cristo dirà la stessa cosa: "se non volete credere a me, credete almeno alle mie opere" (Gv 10,38).

Le leggi non servono solo per indirizzare, regolamentare e punire chi le trasgredisce, ma anche per realizzare un legame molto stretto tra lo Stato e il cittadino, un rapporto che finisce col coinvolgere la stessa libertà di coscienza.

Lo Stato non è semplicemente un ente politico, ma anche etico e ha il diritto d'inculcare i suoi valori persino nei bambini, prima ancora cioè che siano in grado di ragionare e di scegliere. A tale scopo può servirsi di qualunque cosa: coercizione, persuasione, costumi, tradizioni, valorizzazione della famiglia contro il celibato e l'omosessualità, della fedeltà coniugale contro il libertinismo, e soprattutto della sacralizzazione delle leggi per opera della religione, in quanto lo Stato non è solo etico, ma anche confessionale, seppur nella forma della "teologia astrale".

I cittadini devono convincersi d'essere immortali e, in particolare, d'essere protetti dagli dèi, i quali soddisfano ogni loro bisogno e desiderio attraverso lo strumento della "provvidenza", e chi non vi crede, come p.es. l'ateo, va esiliato o, se necessario, addirittura giustiziato. Nei confronti dei trasgressori la pena va inflitta finché essi si rendano conto della sua assoluta giustezza. Idea, questa, che ritroveremo tra gli inquisitori cattolici.

Le leggi sono talmente sacre che su di esse dovrà vigilare un "Grande Fratello", il "Consiglio notturno", una specie di "Corte Costituzionale", nei cui confronti nessuno potrà considerarsi impunibile.

Insomma l'uomo è al servizio delle leggi e non il contrario. Solo così può realizzarsi il bene pubblico e l'uguaglianza sociale. Diventa persino inutile scegliere una forma di governo in luogo di un'altra: è sufficiente un mix di aristocrazia e democrazia.

PLATONE COMUNISTA?

Di comunisti fanatici nell'onnipotenza dello Stato la storia è piena ed è inutile starli ad elencare. Se, rispetto ad oggi, volgiamo lo sguardo verso un lontano passato, li troviamo anche tra gli Egizi, i Mongoli, gli Inca e, sul piano teorico, persino nelle opere politiche di Platone.

Una cosa li univa tutti: l'idea di proprietà statale dei principali mezzi produttivi, fossero essi la terra, il bestiame o le industrie. Correlata a questa era l'idea che i funzionari di Stato, burocrati d'eccezione, dovessero avere un potere enorme, ancorché non di tipo proprietario, bensì fiduciario: il sovrano si fidava di loro e li rendeva onnipotenti.

Nel caso di Platone al vertice della potenza dello Stato vi erano i filosofi, che se non erano in grado di gestire politicamente lo Stato, erano comunque in grado di farlo sul piano amministrativo.

Nei suoi libri sia i politici che i militari erano, in un certo senso, nullatenenti, per quanto non bisognosi di niente. Non si potevano neppure sposare, poiché in eredità non avrebbero potuto lasciare alcunché. Ma anche perché non dovevano farsi distrarre da problemi familiari, essendo il loro unico vero obiettivo da perseguire la sicurezza e l'efficienza dello Stato.

Questi funzionari, particolarmente oppressivi col loro popolo, dovevano mostrare d'essere dei grandi idealisti, superiori a ogni interesse di parte. Certo, potevano avere delle donne, ma solo per scopi sessuali, senza impegni matrimoniali o sentimentali, anche perché se avessero voluto dei figli, questi sarebbero stati allevati ed educati dallo Stato.

Il loro dio era la legge, che dovevano far rispettare a tutti i costi. Affermavano che la legge è uguale per tutti, senza mai rendersi conto che le differenze sociali sono sempre considerevoli nelle società antagonistiche, tali per cui la legge andrebbe messa in rapporto ai diversi bisogni.

L'ultimo Platone, quello delle Leggi (libro rimasto incompiuto), era persino arrivato alla conclusione che non era tanto importante il tipo di governo, quanto che si facessero rispettare le leggi, che andavano inculcate ai cittadini sin dalla loro nascita.

L'ultimo Platone si era così inacidito che arrivò a dire cose a dir poco inquietanti. Anzitutto prevedeva l'uso della religione come instrumentum regni, proprio allo scopo di "santificare le leggi" - lui che non aveva mai messo la religione nel novero delle discipline formative del filosofo.

In secondo luogo aveva teorizzato l'esistenza di una sorta di "provvidenza divina", come toccasana per i problemi sociali - e poi molti si meravigliano quando si dice che il vero fondatore del cristianesimo fu Platone.

In terzo luogo chiedeva la pena di morte per gli atei, se questi rifiutavano spontaneamente l'esilio. Non a caso odiava a morte Democrito e un giorno arrivò a dire che, se fosse dipeso da lui, gli avrebbe bruciato tutti i libri.

Dulcis in fundo, aveva previsto l'istituzione di una sorta di corte costituzionale che, di notte, verificava, come una sorta di "grande fratello", chi rispettava effettivamente le leggi.

Platone era così statalista che finalizzava al bene dello Stato qualunque cosa, anche la scelta del partner. Siccome, secondo lui, sarebbe stato un bene per lo Stato che le persone intellettualmente dotate si sposassero coi loro pari, aveva elaborato uno stratagemma (rimasto per fortuna sulla carta) per far credere che la scelta del partner fosse casuale.

Anche per spiegare la divisione in classi opposte era ricorso a un mito fittizio, in cui diceva ch'essa era del tutto naturale in quanto voluta dagli dèi. Certo uno poteva essere una persona di valore, capace di grandi cose, pur non provenendo dall'aristocrazia, ma, una volta appurate le sue capacità da una commissione di controllo, gli veniva attribuita una classe corrispondente, che non poteva più abbandonare. Il cittadino in sostanza doveva convincersi che quella delle istituzioni era stata la scelta migliore nei suoi confronti.

Insomma chi predica il socialismo di stato è sempre, nel contempo, autoritario e paternalista; avverso democrazia e però timoroso, proprio perché sa che il suo potere può reggersi, in ultima istanza, solo sulla forza.

Ma la cosa più curiosa è che mentre ieri, nelle civiltà schiavistiche, la religione veniva usata come un'ideologia, oggi invece, nelle società dittatoriali, è l'ideologia che viene usata come una religione.

Testi di Platone

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento:13-09-2016