LA SCIENZA NEL SEICENTO

L'inizio della fine della natura

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Francesco Bacone

La vita

Francis Bacon (1561-1626) non era destinato agli studi scientifici ma alla carriera politica. Tuttavia, finché visse la regina Elisabetta non poté ottenere una carica veramente importante, nonostante che alcuni aspetti avrebbero potuto favorirlo: era figlio del Lord guardasigilli della stessa regina (sua madre era figlia del precettore di Edoardo VI); aveva fatto studi giuridici presso l'Università di Cambridge, in virtù dei quali trascorse a Parigi un tirocinio presso l'ambasciatore inglese; fruiva dell'appoggio del conte di Essex. Ecco perché cominciò a dedicarsi alla filosofia e alle scienze, pubblicando vari libri in lingua inglese, destinati a un vasto pubblico. Senonché il re Giacomo I Stuart, quando salì al trono (1603), venuto a conoscenza dei suoi libri, lo spinse a riprendere la carriera politica. E così egli, sfruttando l'appoggio del favorito del re, Lord Buckingham, riuscì a ottenere prestigiose cariche. Già eletto nel 1584 alla Camera dei Comuni, diventò avvocato generale nel 1607, procuratore generale nel 1613, Lord Guardasigilli nel 1617 e Lord Cancelliere nel 1618, la più alta carica pubblica. Presiedeva le principali corti di giustizia e rendeva esecutivi i decreti del re. Ottenne anche il titolo di barone e di visconte. Riteneva d'aver bisogno di questi titoli e incarichi prestigiosi, poiché il padre gli era morto quando aveva 18 anni e, secondo il diritto di maggiorasco, tutti i beni di lui erano passati al primogenito.

Avendo anche a cuore la politica culturale, nel 1620 pubblicò la Grande Restaurazione, che conteneva quello che poi sarebbe diventato il suo scritto più famoso e progettuale, il Nuovo Organon (in antitesi all'Organon di Aristotele). L'ambizione era quella di rifondare completamente il sapere fino ad allora conosciuto, rompendo con la tradizione e con la conoscenza puramente teorica, di tipo scolastico-aristotelico, ma anche con quella umanistico-rinascimentale di tipo magico-alchimistico, privilegiando il sapere tecnico-scientifico da porre al servizio della società. A tale scopo voleva servirsi delle istituzioni monarchiche.

Purtroppo per lui, la carriera politica finì quando, nel 1621, Giacomo I dovette convocare il parlamento per chiedere l'imposizione di nuove tasse. In quel frangente molti parlamentari, dopo aver approvata la richiesta del re, chiesero di aprire un'inchiesta sui decreti dei monopoli e nominarono una commissione per indagare sugli abusi delle Corti di giustizia. Fu così che si venne a sapere che Bacone aveva ricevuto doni in denaro nell'esercizio delle sue funzioni, emanando sentenze favorevoli ad alcuni personaggi in vista. Egli si riconobbe colpevole e si rimise alla clemenza dei Lords. Fu condannato a pagare 40.000 sterline di ammenda (poi condonata dal re), all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e all'esilio dalla corte. Rimase in carcere solo pochi giorni, ma non ebbe più alcuna possibilità d'incidere in maniera istituzionale sulla realizzazione dei propri progetti. Ciò tuttavia non gli impedì, una volta ritiratosi a vita privata, di continuare i suoi studi scientifici.

Quindi praticamente, a partire dalla sentenza del Parlamento, egli s'interessò unicamente a come trasformare il sapere scientifico in uno strumento di potere politico ed economico. Bacone è il profeta della moderna società industriale. In lui non solo non trova più alcun senso la teologia, ma neppure la filosofica alchemica e magica diffusasi nel Cinquecento. Egli viene considerato il padre del metodo induttivo, uno dei fondatori del nuovo sapere scientifico (soprattutto di quello enciclopedico) e il primo ad aver fatto un discorso politico generale sulla funzione della scienza nella società moderna industrializzata. Il motto che riassume tutta la sua opera è il seguente: “Sapere è potere”.

Polemica contro autorità e tradizione

Per “sapere tradizionale” si deve intendere un sapere di derivazione aristotelico-scolastica, impostato metafisicamente e privo di una solida filosofia scientifica o scienza della natura. Bacone afferma la concezione della verità relativa, figlia del suo tempo, e ritiene che i tempi siano maturi per un'inversione di rotta in campo culturale.

In particolare contesta la logica aristotelica, coi suoi sillogismi fondati sulla deduzione (dalle premesse generali al caso particolare), che, secondo lui, non arricchisce il sapere né fa capire il processo (inventivo) che porta a formulare determinate premesse generali.

Aristotele aveva capito l'importanza dell'induzione, ma, in effetti, non l'aveva sviluppata. D'altra parte considerava la téchne di molto inferiore all'episteme: questa era fonte di conoscenza scientifica, perché basata sulla ragione e sulle quattro cause dei fenomeni (sostanza, forma, agente e fine); quella invece era frutto di un apprendimento lento, graduale, basato sull'osservazione e sull'esempio altrui. Ecco perché Bacone dichiara di voler puntare sull'esperienza e sull'esperimento, organizzando in maniera rigorosa i dati raccolti, rielaborandoli secondo criteri che ne consentano l'interpretazione oggettiva. Per lui erano state molto più importanti della logica aristotelica, ai fini del progresso della società, l'invenzione della stampa, della polvere da sparo e della bussola. Il sapere pratico andava dunque privilegiato su quello teorico: sotto questo aspetto non gli interessava neppure il sapere filosofico degli umanisti, per lui troppo incentrato sui valori morali.

Nella filosofia di Bacone c'è una notevole differenza rispetto agli scienziati del mondo greco-romano: egli infatti non vuol porre alcun limite all'innovazione tecnologica (cosa ch'era impossibile in quei regimi di tipo schiavistico). La sua scienza non si limita a osservare l'osservabile in maniera naturale, ma vuol porre le premesse metodologiche (che restano, beninteso, nell'ambito di un approccio filosofico) di un utilizzo illimitato di qualunque artificio meccanico per scandagliare le leggi della natura, i suoi più reconditi segreti, al fine di dominarla senza alcuno scrupolo morale.1

Giustamente Bacone smette di concepire la natura come una creazione divina, ma finisce col considerarla come una mera risorsa da sfruttare in tutte le maniere. Di qui la sua idea di dare all'esperimento un'importanza nettamente superiore all'esperienza dei cinque sensi. Vent'anni dopo la sua morte si formò una sorta di “cenacolo scientifico” comprendente un gruppo di ricercatori e intellettuali di prestigio, come p.es. il chimico Robert Boyle, il matematico William Petty, il linguista John Williams, i quali porranno le basi per la nascita, nel 1660, della Royal Society of London for the Improvement of Natural Knowledge, il cui motto era “Nullius in Verba”, cioè “Non accettare nulla sulla parola”, che esprimeva il rifiuto del principio di autorità e di tradizione non sperimentale, e che si basava, come voleva Bacone, sulla circolarità delle conoscenze e dei risultati sperimentali tra gli scienziati.

Paradossalmente egli era convinto che la propria filosofia dovesse avere lo scopo di recuperare l'innocenza adamitica, quella che si era perduta per un peccato di superbia. Adamo non peccò per sete di conoscenza naturale (è lui infatti che dà i nomi alle cose poste al suo servizio), ma per il desiderio ambizioso di possedere quella scienza morale che giudica del bene e del male e che appartiene soltanto a Dio. Bacone quindi poneva le premesse filosofiche per uno sviluppo neutrale, avalutativo dell'attività scientifica. L'unico fine del ricercatore diventava quello di conoscere le cause per produrre i corrispondenti effetti, non quello di chiedersi se il processo della conoscenza in sé sia giusto o sbagliato, né quello di chiedersi se le applicazioni tecnologiche delle scoperte scientifiche siano giuste o sbagliate sul piano etico. L'etica va tenuta completamente separata dalla scienza. In questa pretesa Bacone era convinto che non ci fosse alcuna “presunzione”, ma un diritto naturale legittimo. Se esistono controversie di tipo etico o religioso, queste non devono riguardare lo sviluppo scientifico della conoscenza umana.

Api, formiche e ragni

Per capire il significato della filosofia del metodo scientifico di Bacone è sufficiente utilizzare una sua stessa metafora, quella delle api, delle formiche e dei ragni.

Il ragno, per catturare gli insetti, produce una tela dalla propria saliva, cioè trae conclusioni da ciò ch'egli stesso è in natura, senza trasformare alcunché.

Le formiche invece ammucchiano soltanto cose esterne a loro, cioè prendono dalla natura ciò che a loro serve per vivere e riprodursi, ma non trasformano nulla.

Le api sono completamente diverse, poiché tutto ciò che prendono dalla natura lo trasformano in qualcosa che in natura non esiste: il miele. È dunque questo l'atteggiamento che deve avere lo scienziato.

I ragni son come i razionalisti, il simbolo del sapere deduttivo, quello che parte da verità date per indubitabili nella mente e da cui dedurre nuove verità col procedimento del sillogismo aristotelico-scolastico: un sapere che si sovrappone alla natura e che non arriva a comprenderla sino in fondo.

Le formiche son come gli empiristi: il simbolo del sapere induttivo tradizionale, quello che ricava delle generalizzazioni immediate (non sufficientemente fondate) dai dati naturali percepiti e osservati attraverso i sensi.

Le api invece rappresentano un sapere fondato su una induzione di tipo nuovo, che ha bisogno dell'aiuto di strumenti meccanici o artificiali, costruiti dal ricercatore, coi quali si può aumentare la conoscenza progressivamente, per tappe intermedie, che sono poi quelle che s'interpongono tra l'osservazione del fenomeno e la generalizzazione delle leggi che lo caratterizzano.

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Nella sua ingenuità Bacone non riesce a capire che, mentre il prodotto delle api restava del tutto compatibile con le esigenze riproduttive della natura, quello tecnologico, ottenuto dagli uomini, ne avrebbe minato la fondamentale integrità. Egli aveva posto, sul piano filosofico, le basi metodologiche di uno sviluppo tecnico-scientifico che avrebbe sconvolto il pianeta. Non si sarebbe affatto tornati all'innocenza adamitica, quella che ai suoi tempi si poteva facilmente constatare nelle tribù primitive non sottomesse al colonialismo europeo, ma si sarebbero poste le condizioni materiali per rendere impossibile qualunque ritorno a quello stadio pre-antagonistico della civiltà umana.

L'ingenuità baconiana si basava, tuttavia, su una mistificazione di fondo, ch'egli, senza rendersene conto, esprimeva nella formula: “Non si vince la natura se non obbedendole”. Era una mistificazione perché il riconoscimento della propria dipendenza nei confronti della natura, non può trasformarsi in un'esigenza di dominio. Se e quando ciò avviene, significa che non esiste affatto “obbedienza” ma “prevaricazione”.

La stessa differenza ch'egli pone tra le due forme di “induzione” appare piuttosto sconcertante. Per lui tutta la filosofia, successiva a quella dei materialisti greci, ivi inclusa tutta la teologia scolastica, va superata, proprio in quanto illusoria. Questo perché non è mai possibile dedurre casi particolari da premesse generali astratte, come avviene nei sillogismi. Né è possibile pretendere, da pochi dati di osservazione, di formulare dei princìpi generali, evitando di passare per i princìpi intermedi ottenuti dagli esperimenti.

Si può anche condividere l'idea che la filosofia e la teologia non hanno affatto “interpretato” la natura, ma l'hanno per così dire “inventata”, e anche quando si parla di “esperienze delle cose”, non si fanno mai degli “esperimenti” veri e propri. Si sono soltanto anticipate delle conclusioni, senza averle empiricamente dimostrate. Tuttavia, l'alternativa ch'egli propone è tutta meno che “scientifica”. Forse l'idea più significativa della sua politica culturale è stata quella di dare una dimensione pubblica e collaborativa alle ricerche e alle scoperte scientifiche.

Bacone non vuol partire da un principio generale astratto: p.es. tutti i fiori sono profumati, altrimenti non attirerebbero gli insetti. Scendere nei particolari da astrazioni del genere, individuando p.es. quali sono i fiori più profumati o quali sono i colori dei fiori più profumati – gli appariva troppo banale. Egli anzitutto vuole smontare tutta la conoscenza pregressa, ritenuta viziata da varie forme di pregiudizi. Ha la pretesa di dire che la sua metodologia filosofico-scientifica non è affetta da pregiudizi, pur essendosi formata in una cultura che ne è piena. Cioè non si preoccupa minimamente di analizzare gli interessi sottesi a tali pregiudizi, non fa un preliminare discorso sociale, cercando di far capire chi e perché soffre o giustifica determinati pregiudizi. Ma preferisce fare un discorso astratto, che di scientifico in realtà non ha nulla.

La liberazione dei pregiudizi

Il sapere deve essere pratico-operativo e non tanto speculativo. La scienza va strutturata in forma enciclopedica, fondandola su tre gradi di conoscenza, che poi rispecchiano le tre principali parti dell'intelletto umano: la memoria, l'immaginazione e la ragione.

Memoria vuol dire conoscenza storica, cioè pura raccolta di materiali d'osservazione.

Immaginazione (o fantasia) vuol dire libera costruzione di piacevoli sogni, senza alcun contatto coi dati: di qui la poesia, l'arte, la letteratura...

Ragione (o conoscenza filosofica) vuol dire elaborazione razionale dei dati, comprendenti le scienze cosiddette "esatte" e la costruzione di strumenti utili all'uomo.

Purtroppo la sua Grande Restaurazione rimase allo stato progettuale, per cui bisogna accontentarsi della parte introduttiva, dedicata alla logica. La nuova logica di Bacone si suddivide in due parti: liberazione dall'errore e costruzione del sapere. L'idea guida del suo metodo è espressa dalla formula: “Non si vince la natura se non obbedendole”, cioè la si può dominare solo dopo aver vinto i propri pregiudizi e conosciute le sue leggi.

I pregiudizi sono di quattro tipi, due radicati nella natura umana e altri due indotti dall'esterno.

Gli idoli della tribù (umana). Sono comuni a tutti gli uomini: p.es. la limitatezza e la fallibilità dei sensi, la tendenza della mente a vedere uniformità e regolarità anche dove non esistono (si pensi solo all'idea che le orbite dei pianeti debbano essere perfettamente circolari), il fatto di fermarsi a ciò che è più vicino o a ciò che più colpisce la fantasia, trascurando quel che è lontano o nascosto. Questi limiti sono dovuti al fatto che l'intelletto è influenzato dalla volontà o dai sentimenti, per cui ritiene vero non ciò che è, ma ciò che vorrebbe. I sensi sono utili nelle piccole cose ma certamente non a capire le vere leggi della natura, anche perché tendono ad attribuire alla natura qualità derivanti dall'essere umano.

Gli idoli della spelonca (in riferimento al mito della caverna platonica). Sono specifici della singola persona, in quanto derivano dal suo carattere, dai gusti personali, dall'educazione ricevuta, dai libri letti, dalle amicizie ecc. e condizionano l'intelletto ad accettare frettolosamente ciò che sembra corrispondere a queste caratteristiche.

Gli idoli del foro (cioè dalla piazza). Il linguaggio comune, usato in società, ha un carattere convenzionale, semplicistico, e può generare equivoci, malintesi, pregiudizi, anche perché spesso si usano parole che possono avere significati molto diversi tra loro: questo perché non è la ragione che domina le parole ma il contrario. Un'idea aristotelica come “primo motore immobile” non ha alcun senso scientifico, eppure per secoli la si è ritenuta vera. Il linguaggio invece dovrebbe essere attinente in maniera rigorosa alle cose.

Gli idoli del teatro. Sono quelli che derivano dalle filosofie antiche e medievali e che somigliano a delle favole, coi loro mondi fittizi, mitologici, e che vengono, in un certo senso, “recitate” e “rappresentate” come in un teatro. Sono piene di fascino, perché immaginifiche, ma assai povere di contenuto conoscitivo. Le filosofie da superare sono quelle sofistiche (di cui la maggiore è quella aristotelica, che pensa di fare scienza quando invece fa solo logica astratta), quelle empiriche degli alchimisti e quelle superstiziose che si mescolano alla teologia (come in Pitagora e Platone).

Bacone riteneva questi pregiudizi così radicati che solo con un lavoro collettivo degli scienziati e dei filosofi naturalisti si sarebbero potuti superare. Qual è dunque il suo ragionamento di fondo? Egli semplicemente parte dal presupposto che non ci si può fidare di niente e di nessuno. La chiave della sua filosofia scientifica sta in questo estremo individualismo, e quindi nella pretesa d'imporlo alla società, sfruttando tutte le conoscenze scientifiche prodotte dall'umanità, cui si andranno ad aggiungere quelle dell'epoca moderna. Quindi non si trattava soltanto di raccogliere delle scoperte già fatte nel passato, ma anche d'inventare delle regole metodologiche per organizzare tutto il sapere scientifico. Ciò doveva servire per dimostrare il valore del nuovo metodo induttivo.

In questo modo di fare vi è indubbiamente un certo aristocraticismo latente. La sua ambizione è quella di sostituire i teologi e i filosofi con gli scienziati. Siccome però lui stesso non è un vero scienziato da laboratorio (in quanto non è un fisico o un chimico e neppure un matematico), si accontenta di porre le premesse di fondo (quelle appunto metodologiche, euristiche, epistemologiche) per compiere una rivoluzione epocale.

Il metodo della ricerca scientifica

Una volta liberata la mente dai pregiudizi, occorre impadronirsi di specifiche tecniche di ricerca, capaci di assicurare l'oggettività del risultato teorico e la sua traducibilità pratica. La prima cosa da fare è ricercare le cause dei fenomeni: per “cause” s'intende qualcosa di “meccanico” o comunque di “efficiente”. Il metodo da usare è quello induttivo, cioè:

    1 - Osservazione sistematica di molti dati raccolti, che implica una loro generalizzazione e classificazione, mettendoli a confronto tra loro.

    2 - Formulazione delle prime ipotesi interpretative, procedendo dal semplice riscontro di aspetti comuni (enumerazione) al metodo per esclusione, basato sul fatto che i dati devono essere suddivisi sulla base di tre tavole o tabelle, ove vanno individuate le assenze di relazioni. Le tabelle sono di tre tipi:

    3 - Esperimenti per confermare o smentire le ipotesi di partenza. Si devono eliminare, sulla base degli esperimenti, quelle ipotesi contraddette anche da una sola osservazione, fino a individuare il denominatore comune, costante, dei fenomeni osservati. Gli esperimenti quindi decidono quale di due opposte ipotesi, che paiono ugualmente fondate, è quella giusta.

Si noti che in tutto ciò non vi è nulla di veramente “scientifico” ma solo di “logico”. In questo procedimento astratto, basato su dati empirici, egli si sente nettamente superiore ai maghi, agli alchimisti e agli astrologi, ma restava nettamente inferiore ai fisici e agli astronomi che si servivano della matematica e dei telescopi per comprendere i fenomeni naturali.

La classificazione si basa semplicemente su quelle tabelle, i cui dati vengono posti in relazione tra loro. È lo stesso principio che oggi si utilizza per costruire i data-base. Ai suoi tempi la procedura, al massimo, poteva servire per organizzare, in maniera logica (sistematica), la disposizione negli scaffali dei libri di una biblioteca. Astronomi come Galilei, Keplero, Copernico, Brahe e Newton non avrebbero saputo che farsene di una filosofia scientifica del genere. Semplicemente perché loro stessi, osservando i cieli coi loro strumenti, dovevano per forza aver preso atto ch'era meglio ordinare o classificare i fenomeni secondo certe caratteristiche di regolarità, uniformità, singolarità, eccezionalità..., per poter arrivare, grazie all'uso del calcolo matematico e statistico, a formulare delle leggi scientifiche. Uno scienziato da laboratorio doveva per forza dimostrare d'essere anche un matematico e uno statistico.

Viceversa Bacone, per quanto incredibile a dirsi, era arrivato a comprendere la necessità di tale procedura classificatoria per via deduttiva, cioè esaminando i limiti delle logiche a lui precedenti. Non considerava di alcuna utilità la matematica ai fini della spiegazione dei fenomeni naturali. Dunque qual era la differenza tra la sua logica e quella aristotelica? La differenza stava nell'ateismo. Infatti Bacone accetta, della logica aristotelica, tre delle quattro distinzioni che stabiliscono la causa delle cose naturali: quella materiale, quella formale e quella efficiente. Rifiuta però la causa finale, perché la vede troppo affine a rappresentazioni mistiche della realtà. Anzi, anche le cause efficiente e materiale le giudica superficiali per capire i fenomeni o gli oggetti della natura. Non rimane quindi che la causa formale.

Le forme dei fenomeni

Che cos'è la “forma” per Bacone? Fatti gli esperimenti, occorre individuare gli assiomi, cioè i princìpi generali che definiscono la struttura e la composizione interna di un corpo o di un fenomeno, il suo principio costitutivo, le sue leggi. La “forma” è la struttura di un corpo o l'essenza di un fenomeno, ma anche il nesso che lo lega ad altri oggetti o fenomeni e che ne determina il suo modo di porsi e di svilupparsi, a prescindere da qualunque considerazione metafisica.

Essa è nascosta ai sensi, ed è meccanica e dinamica, in quanto è la totalità delle unità materiali e dei moti che generano un determinato fenomeno o corpo. Senza questa conoscenza è impossibile trasformare o alterare un corpo o un fenomeno.

Trovare le “forme dei fenomeni” consente anche di standardizzare i risultati di una ricerca, rendendoli facilmente comunicabili e, grazie al lavoro di altri scienziati, cumulabili, potendo essi fare ulteriori ricerche.

Deduzione e induzione

Vogliamo qui spendere alcune parole su due precisi termini che in genere si usano per distinguere un atteggiamento “scientifico” da uno “non scientifico”: deduzione e induzione.

Considerando che nella lingua italiana il verbo “indurre” non ha alcun riferimento alla scienza, ma semmai all'etica, in quanto viene facilmente collegato alla parola “tentazione”, forse, piuttosto che vedere le due parole in contrapposizione (come faceva Bacone), sarebbe meglio fare questa distinzione: esistono, da un lato, ragionamenti deduttivi e induttivi, mentre dall'altro ragionamenti tautologici e retorici.

Se io dico, dando per scontato che per ripararmi ho a disposizione solo un ombrello: “Fuori piove, prenderò un ombrello”, che tipo di ragionamento ho fatto? Sono partito da un'evidenza certa e ho concluso in maniera necessaria. È un ragionamento deduttivo o induttivo?

Supponiamo invece che io dica: “Siccome potrebbe piovere, perché il tempo è sempre variabile, meglio prendere un ombrello”. Indubbiamente sono partito da una situazione ipotetica, ma non ho forse concluso in maniera necessaria? La vita non è forse fatta di cose necessarie? In entrambi i casi ho dato per scontato che quando piove mi bagno, se non ho l'ombrello per ripararmi.

Se io dico (o penso): “Piove, mi bagnerò”, che tipo di ragionamento sto facendo? Parto da una premessa certa, che mi sta portando a una conclusione non meno certa. Dovrebbe essere un ragionamento “scientifico” (deduttivo o induttivo non è importante). Invece è un ragionamento tautologico o retorico. Contiene il massimo della verità possibile, che però non è di nessuna utilità pratica. A che serve questo tipo di verità? Una verità è utile quando impedisce di creare situazioni negative: che il ragionamento sia deduttivo o induttivo, anche questa volta, è indifferente.

Ma c'è di più. Qualunque affermazione si faccia parte sempre da una pre-comprensione della realtà. La tabula rasa non esiste. Se io dico: “Piove, prenderò un ombrello”, farò proprio così non tanto perché piove, ma perché so che, se non mi riparo, mi ammalerò. Dunque, qualunque affermazione si faccia, anche la più banale, parte sempre da un vissuto pregresso, un vissuto che ha subìto una nostra interpretazione. Non esiste un modo di fare scienza o di fare logica partendo da zero. Noi siamo storicamente situati, cioè le categorie di spazio e tempo ci determinano in maniera imprescindibile per qualunque cosa si dica o si faccia. Quindi è inutile porsi il problema di distinguere la deduzione dall'induzione. L'unico vero compito che abbiamo è quello di non trarre conclusioni affrettate o forzate, ma di ponderare bene tutti gli aspetti.

Non si può assolutamente porre una differenza tra i ragionamenti deduttivi e induttivi, dicendo che i primi portano sì a conclusioni necessarie ma scontate, mentre i secondi portano a conclusioni più o meno probabili, ma suscettibili di ulteriori approfondimenti. In tal caso sarebbe bastato dire che un qualunque giudizio scientifico deve evitare di porsi in maniera dogmatica, poiché la vita è sempre molto complessa e le cose possono cambiare.

In ogni caso se le conclusioni fossero soltanto probabili, noi rischieremmo di non fare mai nulla, non prenderemmo mai alcuna decisione, anzi, non faremmo neanche alcun ragionamento, se sapessimo in anticipo che ciò non porta a nulla di convincente. Noi agiamo soltanto quando le conclusioni sono più che probabili. Anche in un ragionamento ipotetico pretendiamo che le conclusioni siano necessarie, pur nella loro contingenza e provvisorietà: “Se piove e mi bagno, mi ammalerò”.

Il problema è che se pretendiamo che le conclusioni siano sempre necessarie, anche più del dovuto, noi rischiamo di fare ragionamenti tautologici o retorici, quindi ragionamenti che, sul piano pratico, sono inutili. Questo per dire che non ha alcuna importanza saper distinguere un ragionamento deduttivo da uno induttivo. Non è l'induzione che rende più scientifica la deduzione, solo perché, essendo più legata alla realtà, mutevole per sua natura, preferisce non emettere giudizi apodittici o dogmatici. La scientificità, piuttosto, sta nel rendersi disponibili a non fare delle conclusioni necessarie un dogma. Chiediamocelo in altro modo: qual è il criterio per capire che una conclusione necessaria potrebbe perdere il suo carattere di necessità? Ora, per rispondere a tale domanda, bisogna dire, con chiarezza, che non esiste un criterio teorico univoco. Anzi, sotto questo aspetto, la scrittura non serve a niente. Infatti l'unico criterio possibile è dato dalla relazione sociale. Quanto più ampie e profonde sono tali relazioni, tanto più si è in grado di capire se una conclusione necessaria di un qualunque ragionamento non è più vera. “Anche se fuori piove e mi bagnerò, perché non ho un ombrello, non mi ammalerò”. Come faccio a esserne sicuro? È semplice: ho altre risorse, quelle che troverò sul momento.

La Nuova Atlantide

L'ultimo volume, scritto negli anni 1614-17 e pubblicato postumo, fu La Nuova Atlantide (1626), in cui viene delineata una società utopica dominata dalla scienza, benché sul piano politico essa resti alquanto incompleta. Era passato un secolo dalla magistrale Utopia (1516) di Tommaso Moro, ma mentre quest'ultimo aveva capito che il capitalismo è un neonato che va soffocato nella culla, altrimenti da grande sarà un soggetto assolutamente ingestibile, Bacone invece approfitta del fatto che il bambino era intanto cresciuto e pensa che, per farlo sviluppare nel migliore dei modi, sia necessario dotarlo di tutti gli strumenti tecnici e scientifici coi quali doveva dominare completamente la natura, ricavando da essa tutte le possibili risorse che garantiscono un elevato benessere. I due testi, quindi, nei confronti del capitalismo possono essere considerati all'opposto.

In tal senso si può affermare che la Nuova Atlantide non è che una deforme caricatura dell'Atlantide di Platone, in cui viene stravolto ogni legame di rispetto fra uomo e natura, anche se i marinai che vi approdano restano stupiti dall'armonia esistente tra una natura apparentemente selvaggia e la serenità dell'ambiente urbano. In seguito però vengono a scoprire che la relazione molto stretta tra civiltà e natura dipende dal dominio scientifico della seconda da parte della prima.

Bacone è talmente convinto che la tecnoscienza sia in grado di risolvere qualunque problema del genere umano che sul suo altare è disposto a sacrificare 2000 anni di filosofia occidentale, non ritenendola minimamente utile. Non solo, ma anche anche nei confronti della teologia cristiana si sente autorizzato ad ammettere ch'essa viene vissuta in maniera più coerente là dove la scienza domina la natura. L'atteggiamento religioso naturalistico appare sano ed equilibrato proprio perché regolamentato dalla pratica scientifica. In ciò Bacone, ch'era un puritano, rifletteva l'esigenza di una borghesia protestantica e imprenditoriale di vivere la religione nei limiti della ragione (e, nella fattispecie, non della ragione filosofica, bensì scientifica).

Gli abitanti dell'isola, infatti, non hanno trovato alcuna difficoltà ad accettare il pluralismo religioso, beninteso dell'ambito del cristianesimo e dell'ebraismo. Ciò è stato reso possibile dal fatto che, in ultima istanza, la scienza è più importante della religione. In nome della scienza è possibile superare qualunque contrasto religioso, proprio perché sono gli scienziati (i nuovi “teologi”) a gestire la società. Bacone s'immagina l'isola come abitata da individui che non hanno subìto le conseguenze del peccato originale, i quali non hanno avuto difficoltà ad accettare il meglio dell'ebraismo e del cristianesimo, e che però sono capaci di relativizzare l'importanza della teologia rispetto ai grandi progressi tecnico-scientifici. È sulla base di queste premesse che Bacone offre una descrizione dell'isola del tutto fantascientifica.

Ora, come aveva potuto quella grande civiltà sopravvivere per così tanto tempo e come mai nessun europeo l'aveva mai potuta conoscere? Qui, per spiegarlo, Bacone, con la sua fertile fantasia, si rifà al mito platonico, che identificava Atlantide col continente americano, all'interno del quale vivevano regni potenti e fieri per armi, navigazioni e ricchezze. I loro tentativi di espansione furono puniti dagli dèi attraverso un secondo diluvio, lasciando in vita solo pochi abitanti selvaggi nelle foreste, del tutto incapaci di trasmettere lettere, arti e civiltà ai loro posteri. Rimase soltanto una piccola isola, chiamata Bensalem, il cui re, Salomone, sfruttando la remota collocazione geografica, la fertilità della terra e la ricchezza delle attività economiche, preferì far restare il proprio popolo in disparte, vivendo in una sorta di beata autarchia, priva di scambi col resto del mondo. Da allora tutti gli stranieri venivano guardati con sospetto, ancorché accolti per ragioni umanitarie.

Ma in che cosa consisteva, più precisamente, l'attività scientifica degli isolani? È qui che Bacone – che non è uno scienziato come Galilei, ma al massimo un filosofo della scienza – dà il meglio di sé (naturalmente dal punto di vista borghese), cioè proprio nella descrizione di ciò che si potrebbe fare se solo esistesse uno sviluppo scientifico adeguato alle esigenze degli uomini. Il fine della “Casa di Salomone” è la conoscenza delle cause dei processi naturali, per poterli riprodurre e, per quanto possibile modificare. La scienza serve per ottenere dalla natura quante più informazioni possibili, trasformandola in maniera artificiale.

I mezzi e gli strumenti posseduti dagli isolani servono per riprodurre le sorgenti naturali al fine di ottenere un'acqua utile alla salute, per realizzare nuovi metalli artificiali, per prolungare la vita, per fertilizzare la terra con concimi chimici, diversi per ogni pianta, per riprodurre qualunque condizione ed evento atmosferici, per modificare l'aria a fini terapici, per refrigerare le derrate alimentari, per estrarre l'acqua dolce da quella salata e per ottenere il contrario, per creare qualunque tipo di innesto in agricoltura, inducendo le piante a fruttificare prima o dopo la loro stagione, rendendole anche più grandi di quanto non siano in natura, dotate di frutti più grossi e gustosi e persino utili in medicina. Si praticano anche vari esperimenti sugli animali, al fine di creare nuove specie (anche nane o gigantesche), o per vedere fino a che punto possono vivere, dopo averli mutilati delle loro parti vitali. Le macchine (robot) servono per imitare qualunque tipo di movimento, ivi incluso quello dei volatili, dei pesci e dei serpenti. Fabbricano armi sempre più potenti e micidiali.

In sostanza lo scopo ultimo è rendere la vita umana più sana e sicura, più longeva, non faticosa e priva di preoccupazioni materiali. Per ottenere questo, ogni mezzo e metodo viene considerato legittimo. La natura non va tutelata, conservandola il più possibile integra, ma piegata a tutte le esigenze umane. La scienza garantisce da sola la propria eticità: non ha bisogno della religione. Semmai anzi è la religione che deve trovare le parole giuste per promuovere lo sviluppo scientifico. In ciò, bisogna ammetterlo, Bacone era più spregiudicato di Galilei, che si limitava a porre una distinzione nei campi d'indagine tra le due discipline.

I critici hanno sostenuto che questa visione delle cose rispecchiava l'Inghilterra elisabettiana che, dopo la vittoria sull'Invincibile Armada di Filippo II di Spagna, si avviava a diventare la prima potenza marittima d'Europa e a gettare le basi del suo impero coloniale e della sua potenza mercantile e finanziaria.

In sintesi

Bacone viene considerato un grande filosofo della scienza proprio a motivo di questa spregiudicatezza nel considerare irrilevanti, ai fini della ricerca scientifica, tutte le speculazioni di tipo teologico, nonché quelle filosofiche che sconfinano nel campo della metafisica. La sua vuole essere una filosofia del tutto naturalistica e meccanicistica.

Per il resto egli non fu un pioniere in nessun campo di ricerca, né uno scopritore di alcuna nuova legge della natura, né autore di alcuna grande nuova ipotesi. Persino una delle sue principali affermazioni: “La verità è figlia del tempo”, appare contraddittoria col suo metodo d'indagine, poiché, non essendo egli, di professione, un vero scienziato, è stato costretto ad avvalersi delle conoscenze pregresse, raccogliendo storie naturali e sperimentali, repertori osservativi che avrebbero dovuto garantire una solida base empirica al sapere scientifico. Egli rimproverava ad Aristotele di procedere a delle immediate generalizzazioni sulla base di pochi dati empirici, ma come si poteva fare diversamente, nel V sec. a.C., quando la filosofia stava muovendo i primi passi in direzione di una comprensione scientifica della natura? Semmai era stato Bacone a illudersi di poter ottenere una verità scientifica superiore a quella aristotelica limitandosi a sfruttare il fatto d'essere vissuto duemila anni dopo.

La differenza principale, nel metodo d'indagine dei due filosofi, stava unicamente nel fatto che Bacone disponeva di un bagaglio di osservazioni empiriche di molto superiore a quello di Aristotele, al punto ch'era intenzionato a realizzare una sorte di enciclopedia generale delle scienze. Egli però poteva beneficiare di tale privilegio anche grazie all'atteggiamento scientifico di Aristotele. Semmai era stata la teologia scolastica a servirsi della filosofia aristotelica in maniera non scientifica. Pur con tutte le sue preoccupazioni di conservare il meglio dell'esperienza passata, Bacone aveva buttato via l'acqua sporca col bambino dentro. Senza poi considerare che il suo metodo d'interpretazione dei dati raccolti, oltre che rivelarsi molto macchinoso e dispersivo, peccava di una ingenuità di fondo, quella di credere che proprio in virtù di una sistematica classificazione degli elementi a disposizione si possano formulare delle ipotesi interpretative indipendenti dalle proprie pre-comprensioni e soprattutto dagli interessi extra-scientifici che muovono il processo conoscitivo.

Con questo non si vuol sostenere che Bacone non si fosse accorto quanto un individuo possa essere condizionato da “un potere di seduzione che inganna la mente con spettri vari e illusori”. Si vuol semplicemente dire ch'egli era piuttosto ingenuo a pensare di poter superare tale inconveniente ricorrendo all'aiuto di strategie di supporto per la mente. L'idea stessa ch'egli aveva, secondo cui “sapere è potere”, non avrebbe avuto alcun valore se la conoscenza non fosse stata supportata da precisi interessi economici volti a sviluppare il capitalismo.

Certo, quand'egli diceva che coi sillogismi scolastico-aristotelici non si poteva in alcun modo comprendere le leggi della natura, era impossibile dargli torto, benché Aristotele avesse affrontato anche argomenti scientifici che la Scolastica non prese mai in considerazione. Tuttavia il problema della conoscenza scientifica era da lui impostato male. Egli non fece altro che sostituire una presunzione intellettualistica, quella della logica formale, che non ha alcun vero rapporto con la realtà, in quanto – come afferma nel Nuovo Organo – “costringe all'assenso, non costringe le cose”, con un'altra presunzione intellettualistica, quella di voler dominare la natura conoscendone le leggi. Così scrive: “La natura non si vince se non obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell'operazione ha valore di regola”. Ecco il suo torto: aver avuto la pretesa di “vincere la natura”, di conoscerne le leggi soltanto per sottometterla. Era questa un'esigenza tipicamente borghese, appartenente al mondo imprenditoriale e affaristico.

La natura smette, con la sua filosofia, di diventare qualcosa a cui ci si deve conformare, avendo essa delle leggi che non dipendono dalla volontà umana, e comincia a diventare una semplice risorsa da sfruttare economicamente. L'importante è capirne il funzionamento, fare degli esperimenti in laboratorio per controllare le cose che si ripetono in maniera abbastanza regolare, al fine di poter stabilire delle invarianze, delle cause prevalenti, degli effetti ricorrenti, attorno a cui è possibile stabilire delle regole di comportamento.

Con Bacone (ma anche con tutti gli scienziati del Seicento) la natura appare del tutto esterna ed estranea alla società, a totale disposizione di chi la sa sfruttare. È impossibile non vedere in questo atteggiamento così aggressivo un rifiuto integrale della vita rurale e un condizionamento da parte del capitalismo urbano emergente e del colonialismo ad esso strettamente correlato. Qui non viene soltanto chiesto di superare il Medioevo sotto ogni punto di vista, ma viene anche chiesto di costruire una società basata sull'aggressione, sull'intolleranza, il cui rivestimento esterno di tipo laico non è sufficiente a garantire la democraticità di tale processo. La scienza è sinonimo di potenza: una forza che viene messa a disposizione soltanto di chi ha i mezzi economici per farla fruttare.

Con questi scienziati siamo piombati nell'illusione di credere che ogni problema possa essere risolto secondo i loro criteri scientifici (meramente quantitativi); nell'illusione di credere che la nostra identità umana possa dipendere dalla capacità di calcolare le cose, di sperimentarle in laboratorio, di incasellarle entro determinati schemi. Questo naturalmente non vuol dire che l'uomo non debba conoscere le leggi della materia; semplicemente vuol dire che non deve farlo allo scopo di “dominarla”. Le leggi della natura sono le stesse che caratterizzano l'essere umano. La differenza tra gli esseri naturali e quelli umani sta soltanto nel fatto che l'uomo è l'autoconsapevolezza della natura. L'esigenza di “dominare” la natura può soltanto scaturire da una condizione di vita alienata, in cui l'antagonismo sociale è la regola. Solo là dove la società è divisa in classi contrapposte non si riesce a comprendere che la natura è un ente che va rispettato, soprattutto nelle sue esigenze riproduttive.

Limiti di Bacone

L'apporto della matematica nella sua metodologia è praticamente inesistente. Bacone le riconosceva un valore per la descrizione dei fenomeni, ma non per la loro spiegazione, che doveva restare filosofica. Ecco perché egli non ha l'idea di “legge”, intesa come rapporto matematico tra eventi o tra realtà fisiche, come invece aveva Galilei.

Non ha capito l'importanza delle controversie astronomiche della sua epoca ed è rimasto sostanzialmente ostile a Copernico.

Non ha saputo valorizzare la componente ipotetico-deduttiva della procedura metodica scientifica, che in Cartesio darà grandi risultati.

Nell'interpretazione della realtà preferisce la chimica alla fisica, perché, secondo lui, la fisica si limita a descrivere il funzionamento degli eventi, mentre la chimica permette di modificarli (vedi p.es. la fermentazione dell'uva che produce il vino). Questa preferenza per la chimica favorirà la sua riscoperta nel Settecento, quando si svilupperanno, oltre ad essa, anche la biologia e l'elettrologia.

Il suo metodo resta macchinoso, dispersivo e poco praticabile, e comunque Bacone non fu uno “sperimentatore”: le sue opinioni scientifiche non produssero scoperte significative. Lui stesso si definiva un semplice “ispiratore della scienza”.

Continua a ritenere che ogni corpo possegga uno spirito, che per lui è un'entità reale, studiabile scientificamente.

Pregi di Bacone

Ha capito il senso della collaborazione tra scienziati e della continuità generazionale degli sforzi scientifici per il progresso dell'umanità.

Ha capito la necessità di una guida razionale e metodica in grado di correggere il vano ricorso alla sperimentazione casuale della tradizione alchimistica.

Ha capito la necessità di un'unica scienza universale in grado di mostrare l'unità della natura e di assicurarne il controllo da parte dell'uomo.

Ha capito che la natura è regolata da leggi necessarie e universali.

Ha capito che tutti i corpi possono cambiare la loro natura, cioè le loro qualità.

Ha capito l'importanza di una grande enciclopedia delle scienze e delle tecniche, anticipando quella degli illuministi.

Ha capito l'importanza dell'uso della lingua volgare per divulgare il pensiero scientifico.

Ha favorito la creazione di Accademie (per il nuovo sapere scientifico) in contrapposizione alle Università (col loro vecchio sapere teologico e metafisico).


1Da notare che uno dei suoi discepoli più significativi fu Thomas Hobbes, che trasferirà nella concezione della politica questo cinismo filosofico.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza
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La scienza nel Seicento


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