SCOPERTA E CONQUISTA DELL'AMERICA

Dall'avventura di Colombo alla nascita del colonialismo


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LA FAME D'ORO DELLA SPAGNA

Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona (incisione del XVI sec.)
Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona (incisione del XVI sec.)

Il Paese che ebbe il destino di svolgere il ruolo di «precursore» del capitalismo, e cioè la Spagna, fu anche quello che nel XVI sec. si trovava nelle peggiori condizioni per uno sviluppo capitalistico. Semplicemente perché con la «Riconquista» cattolica del territorio nazionale, che si concluderà nel 1492, i sovrani spagnoli eliminarono la borghesia come classe sociale, essendo essa prevalentemente rappresentata da ebrei e mori.

Le fasi della Riconquista

La «Riconquista», iniziata nei secoli VIII-IX, vide come protagoniste attive tutte le classi sociali della società feudale, ma soprattutto i contadini, i quali, potendo occupare le terre arabe, devastate dalle continue guerre, miravano ad affrancarsi dalla servitù della gleba. I mercanti e gli artigiani di religione cattolica vi parteciparono perché sapevano che il meridione era economicamente più sviluppato. Fu proprio in seguito a questo processo che si costituirono i grandi Stati della Spagna medievale, come la Castiglia, l’Aragona e la Catalogna.

Con lo svolgersi della «Riconquista» inizia a svilupparsi il sistema feudale vero e proprio, in ritardo rispetto agli altri paesi europei. Nella Castiglia la classe dominante era composta da latifondisti laici ed ecclesiastici. L’alta aristocrazia poteva fare guerre senza tener conto della volontà del re e annettersi vasti territori. Essa era esente dal pagamento delle imposte e possedeva diritti di immunità, per cui i funzionari statali non potevano entrare nelle sue proprietà. Catalogna e Valencia erano regioni costiere legate al commercio mediterraneo. L’Aragona invece era molto arretrata, anche se, in virtù delle sue imprese politico-militari nel Mediterraneo, era riuscita ad occupare Sicilia, Sardegna e Regno di Napoli. La corona comunque non sarà in grado di contrastare le forze particolaristiche (città e nobiltà) che miravano a consolidare i loro privilegi.

La «Riconquista» riprese con grande vigore verso la metà dell’XI sec., dopo che il califfato di Cordoba si era frazionato in una serie di emirati arabo-berberi, continuamente in lotta tra loro. Gran parte della penisola iberica, nella seconda metà del XIII sec., era occupata da due Stati: Castiglia e Aragona. A occidente invece vi era il Portogallo. Ai mori restava un piccolo territorio attorno a Granada.

Il momento più significativo dell’unificazione nazionale fu quando Ferdinando, erede al trono d’Aragona, sposò nel 1469, Isabella, erede al trono di Castiglia. Lo Stato che si formerà da questo matrimonio sarà di notevoli dimensioni, perché comprenderà anche le isole Baleari, la Sicilia, la Sardegna e l’Italia meridionale. Naturalmente non si può qui parlare di «unità politico-nazionale» o di uno Stato «assoluto» (come ad es. quello ad esso contemporaneo dell’inglese Enrico VII). L’unione di Castiglia e Aragona (avvenuta nel 1479) era più che altro «personale»: molti atti di governo erano decisi e attuati in comune, ma in molti casi vigeva ancora una separazione giurisdizionale e uno squilibrio in favore della Castiglia. Inoltre la formazione dell’unità nazionale incontrava, sul suo cammino, tre seri ostacoli: a) i grandi feudatari, che volevano conservare il frazionamento politico del Paese, durante la «Riconquista» avevano ampliato notevolmente i loro possedimenti; b) lo strato superiore del patriziato cittadino, favorevole all’unificazione, godeva di molti privilegi medievali e sosteneva il potere regio solo a condizione di non perderli; c) la piccola e media nobiltà sosteneva il re più che altro allo scopo di garantirsi le rendite pagate dai contadini, i quali si opponevano sempre più spesso al servaggio.

In ogni caso, con l’appoggio dei piccoli nobili e della borghesia cittadina, la monarchia lottò con successo contro i grandi feudatari. In particolare, l’alleanza con la borghesia consentì alla corona di assicurarsi regolari risorse finanziarie, un esercito non feudale e un severo controllo dell’ordine pubblico. Una volta sottomessa l’alta aristocrazia, la monarchia intraprese la guerra contro l’emirato di Granada, che cadde dopo 10 anni, pochi mesi prima che Colombo «scoprì» l’America. Poi la monarchia, a sorpresa, cominciò a limitare i diritti delle città all’autogoverno, facendole controllare da propri funzionari permanenti, che godevano di ampie facoltà giudiziarie, politiche, amministrative e finanziarie. In tal modo impedì alla borghesia di rivendicare un potere politico. Lo stesso potere delle Cortes (Parlamento) venne notevolmente ridimensionato. In un Paese arretrato come la Spagna, difficilmente l’assolutismo avrebbe potuto avere con la borghesia un rapporto che andasse al di là di un uso strumentale contro l’anarchia feudale. Ciò che ai Re Cattolici premeva di ottenere, attraverso l’aiuto della borghesia, era unicamente l’estromissione di una buona parte dell’aristocrazia dagli affari politici. Per il resto, sul piano economico, potevano continuare a dominare i metodi tradizionali della società medievale.1

La politica estera seguì le direttive tradizionali antifrancesi e di salvaguardia del predominio nel Mediterraneo, contro veneziani e musulmani. Il diretto dominio del regno di Napoli e l’occupazione di Tripoli (1511) allontanarono definitivamente, grazie anche alla sottomissione di Algeri e Tunisi, la minaccia islamica e imposero il dominio spagnolo sulle coste africane.

Adeguandosi, seppure in ritardo, alla politica generale della cristianità occidentale (che sin dal XIII sec. aveva inaugurato, in concomitanza con le crociate, una strategia persecutoria o quanto meno discriminatoria contro gli ebrei), la monarchia spagnola, per la quale la creazione di uno Stato moderno implicava l’unità della fede religiosa, introduce nel 1480 l’Inquisizione ed emana un editto di segregazione generale degli ebrei. L’antisemitismo raggiunge l’apice allorquando si fonde con la lotta contro i mori e gli eretici.

Prima dell’editto reale di espulsione del marzo 1492, vi erano in Spagna da 200 a 300.000 ebrei (sefarditi): dopo l’editto ne emigrarono da 150 a 200.000; ne rimasero in Spagna, disposti a farsi battezzare, circa 50.000. Di quelli emigrati, circa 120.000 riparò in Portogallo, dove già ne esistevano 75.000. Dall’inizio delle persecuzioni almeno 2.000 ebrei vennero messi sul rogo. Il grande benessere raggiunto sotto la dominazione araba era finito per sempre. Gli ebrei torneranno in Spagna solo verso la metà del XX secolo.

I mori invece, al tempo dei Re Cattolici, erano circa un milione, di cui 300.000 furono espulsi. Nel 1502 furono dichiarati del tutto «illegali» e quindi costretti alla definitiva espulsione.2 Lo Stato e la nobiltà s’impadronirono delle loro ricchezze (inquisitori e delatori ricevevano 1/3 dei beni dei condannati, il resto andava alla corona), ma, non sapendole convertire in capitali, non fecero che favorire i capitalisti stranieri, che poterono così trovare un enorme spazio a loro disposizione.

Mentre nei grandi Stati euroccidentali la monarchia assoluta rappresentava il centro dell’unificazione sociale e nazionale, grazie soprattutto all’aiuto della borghesia, viceversa nella Spagna l’assolutismo e l’accentramento monarchico avvennero contro gli interessi della borghesia, a esclusivo vantaggio di quelli aristocratici, in stretta sintonia col potere ecclesiastico.

L’espulsione degli ebrei e dei mori fu, allo stesso tempo, causa ed effetto della debolezza della borghesia spagnola. Fu il frutto dell’offensiva delle classi nobiliari ed ecclesiastiche contro i settori che minacciavano di costituirsi in borghesia nazionale. A ciò tuttavia va aggiunta la considerazione che se l’espulsione fu possibile, molto dipese anche dal fatto che la borghesia ebraica e musulmana non erano riuscite a integrarsi con quella cattolica o con la popolazione di religione cattolica (che era prevalentemente contadina). D’altra parte l’integrazione non sarebbe mai potuta avvenire finché le parti in causa avessero continuato a considerare le differenze religiose come un ostacolo insormontabile. Non dobbiamo inoltre dimenticare che il cattolicesimo spagnolo mal sopportava di coinvolgersi con lo stile di vita borghese. È vero che gli ebrei parteciparono alla «Riconquista», mostrando lealtà nei confronti della monarchia, ma è anche vero che se non l’avessero fatto, la loro espulsione sarebbe stata anticipata (l’antisemitismo in Spagna era stato già molto forte alla fine del XIV sec.). Gli ebrei avevano bisogno di «mostrare» il loro patriottismo, onde evitare l’accusa di non sapersi integrare nel contesto sociale. Non a caso la loro espulsione fu appoggiata attivamente dagli strati popolari, poiché sugli ebrei le autorità scaricavano i motivi della crisi socio-economica (furono persino accusati di aver provocato la peste nera del 1348).

Economia e classi sociali

Il settore agricolo più importante, nella maggior parte delle regioni spagnole del XVI sec., era, soprattutto nella Castiglia, l’allevamento ovino, a causa del grande sviluppo dell’industria tessile nell’Europa nord-occidentale (Fiandre, Francia, ecc.). I tentativi dei contadini di recintare le proprie terre per salvarle dalla rovina provocata dai greggi di passaggio, incontravano sempre forti resistenze da parte degli allevatori, che erano protetti dalla corona per motivi fiscali. La corona anzi fece in modo che gli allevatori potessero accaparrarsi quante più terre possibili. I contadini furono rovinati al punto che tutta la Spagna settentrionale doveva ricorrere al grano d’importazione. In pratica, lo sviluppo dei rapporti mercantili-monetari non favorì nelle campagne spagnole il decollo del sistema capitalistico di produzione, ma, al contrario, la conservazione dei rapporti feudali e la decadenza dell’agricoltura.

La produzione artigianale e industriale era concentrata nelle città, soprattutto a Siviglia, Toledo, Granada, ecc. I maggiori successi furono raggiunti nella produzione del panno e della seta, soprattutto dopo la conquista dell’America (i conquistadores avevano bisogno di vestiario, armi, ecc., in cambio di oro e argento), ma anche perché molti contadini, fuggiti dalle campagne, affluivano nelle città in cerca di lavoro. Ciononostante, a confronto con la produzione dei Paesi più avanzati d’Europa, le dimensioni dell’industria spagnola erano modeste, anche a causa del fatto che gli ex-regni spagnoli (Leòn, Valencia, Catalogna...), trasformatisi alla fine del XV sec. in province dello Stato unificato, mantenevano le particolarità del loro sviluppo storico, restando economicamente isolate, chiuse nei propri privilegi feudali (di signori e di città): privilegi che ovviamente creavano ostacoli allo sviluppo dei rapporti commerciali con le regioni vicine (ad es. esistevano ancora numerose dogane).

La classe spagnola più rigidamente strutturata era quella nobiliare, suddivisa in: a) Grandi, cioè i ricchi proprietari, a più diretto contatto con la monarchia, dalla quale ottenevano privilegi in cambio di lealtà e di lotta al decentramento dei poteri. Erano i più parassiti; b) Dignitari, non direttamente vincolati alla corona, poiché il loro potere derivava anzitutto dal possesso delle terre. Ogni Grande è un Dignitario, ma il contrario non è sempre vero. Spesso lo Stato deve combattere contro questa nobiltà che pretende ampia autonomia; c) Cavalieri, organizzati in «ordini», con propri regolamenti e rituali rigidissimi, in relazione con la purezza della fede e del ceto. La loro ricchezza dipende dal militarismo. Erano i più monarchici, i più razzisti della nobiltà, poiché dipendevano totalmente dallo Stato; d) Hidalgos, cioè i nobili decaduti (i 9/10 della nobiltà nel suo complesso): l’unica cosa che avevano era il lignaggio, di cui naturalmente si vantavano. Disprezzavano il lavoro. Spesso erano un modello che i più poveri volevano imitare (per avere le «apparenze da gran signore»). Sono loro che nel periodo del capitalismo mercantile disprezzano il lavoro e il denaro in nome di valori pre-borghesi (onore, indipendenza di pensiero, senso eroico della vita). In realtà volevano la ricchezza, ma guadagnata nell’avventura, e non per accumulare ma per consumare. Il basso clero spesso assomigliava agli hidalgos.

Il vero conquistatore sarà l’hidalgo che dalla «Riconquista» non aveva ottenuto particolari vantaggi materiali. Questo giovane celibe, militare a tempo pieno, cadetto di famiglia nobile ma decaduta, nelle «Indie» si emanciperà economicamente dalla propria soggezione nei confronti della grande nobiltà e della borghesia. I mezzi per ottenere questo non saranno più quelli tradizionali: coraggio militare, lignaggio, onore, ma quelli moderni: massacri, sfruttamento, espropriazione di risorse, ecc. La sua rapida ascesa sociale sarà il frutto non di una «lotta di classe» ma di una «scoperta geografica». De Sepùlveda racconterà nella sua Cronica Indiana, che Hernàn Cortés si sentiva autorizzato da Dio a combattere gli indios pagani, così come un crociato fa la sua «guerra santa» per un fine superiore, nobilitato dalla religione; ma, nello stesso tempo, afferma, con altrettanta sicurezza, che i conquistadores erano lì per rubare e saccheggiare. Il Dio della fede andava trasformato in «oro» e l’oro diventava il nuovo «dio».

Nasce il colonialismo

Nella primavera del 1492 gli spagnoli avevano conquistato Granada, ultimo baluardo dei mori nella penisola iberica. Nell’agosto dello stesso anno partirono le tre caravelle di Colombo, al fine di scoprire la via occidentale verso le Indie e l’Asia orientale. Colombo venne nominato «ammiraglio e viceré» di tutte le terre che avrebbe scoperto, con il diritto di tenere per sé 1/10 di tutti i guadagni che ne sarebbero derivati. Colombo si era rivolto alla Spagna quando vide che il navigatore Diaz era tornato trionfalmente in patria dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza, dimostrando così che la via orientale per le Indie era concretamente percorribile. Ora la via oceanica per la Spagna era l’unica possibile, poiché il Portogallo, avendo occupato le isole atlantiche e alcune posizioni marocchine, l’aveva tagliata fuori dalla rotta africana.

Il 12 ottobre 1492, dopo 69 giorni di navigazione, le caravelle raggiunsero Guanahani (S. Salvador), una delle isole Bahamas. Dopo questa spedizione, Colombo ne fece altre tre, scoprendo ed esplorando Cuba, Haiti (che divenne il centro della colonizzazione), Giamaica e altre isole caraibiche, nonché il litorale orientale dell’America centrale e la costa del Venezuela. Il motivo fondamentale di queste esplorazioni era la ricerca dell’oro e delle spezie. Colombo, siccome non ne trovò quanto avrebbe voluto, propose ai suoi monarchi di trasportare in Spagna degli schiavi. Gli indigeni delle colonie, trasformati in schiavi, non riuscivano a sopportare il peso delle fatiche, per cui, quando cominciarono a soccombere a decine di migliaia (anche per malattie contratte dal contatto con gli europei) gli spagnoli importarono schiavi africani in massa per sostituirli. La prima importazione iniziò nel 1501 e verso il 1518 era già diventata una delle attività coloniali più redditizie.

Nel 1501 si vietò in maniera formale a qualsiasi straniero l’accesso alle cosiddette Indie. Nel 1503 venne fondata la Casa de contrataciòn di Siviglia, sul modello del sistema monopolistico-commerciale portoghese, al fine di regolare e controllare il traffico di passeggeri e merci con le «Indie». Si trattava di una corporazione di commercianti, cui fu concessa autorità sufficiente per impedire che si violassero i privilegi dei commercianti spagnoli che avevano rapporti con le colonie. Per esercitare il controllo tutte le navi dovevano salpare e attraccare a Siviglia. Col tempo, la «Casa» divenne un’istituzione governativa, con compiti politici, amministrativi e giudiziari (i suoi funzionari non potevano partecipare direttamente ai traffici). Essa perse la sua autonomia con la creazione nel 1524 del «Consiglio delle Indie», e si trasformò in uno strumento di potere al servizio dei gruppi finanziari di Siviglia, mentre le facoltà governative, giudiziarie e anche militari vennero trasferite dalla corona al suddetto «Consiglio», i cui compiti erano di proporre al re i nomi di tutte le alte cariche (laiche e religiose) per le Indie; assicurare la censura dei libri e il permesso di pubblicazione; fungere da corte di appello per le sentenze dei tribunali delle colonie, ecc. Il «Consiglio» agiva nel più rigoroso segreto.

Nel 1524 l’imperatore Carlo V, sempre più consapevole della necessità di capitali stranieri per sostenere le imprese coloniali, e messo alle strette dai banchieri tedeschi, consentì che mercanti stranieri commerciassero con le Indie, anche se confermò il divieto ad una loro installazione nel Nuovo Mondo. Ma già nel 1525-26 sudditi provenienti da quasi tutti i suoi domini, ottennero il permesso di recarsi in America, e nel 1529 la corona concesse a dieci porti castigliani di commerciare col Nuovo Mondo. Nel 1538, a causa delle proteste dei mercanti spagnoli, che non volevano la concorrenza straniera, si vietò di nuovo a tutti gli stranieri l’accesso alle terre americane. Siviglia riuscirà a conservare il proprio monopolio fino al 1680, allorché dovrà cederlo a Cadice. Tuttavia gli stranieri, facendosi naturalizzare come castigliani oppure ottenendo permessi speciali, continuarono ad approdare sul nuovo continente.

Dal sec. XVI al sec. XIX (fine del traffico e della schiavitù), circa 9.500.000 negri furono deportati dall’Africa (la loro condizione giuridica era inferiore a quella dell’indio, al punto che i Codici delle Indie vietavano ai negri di accoppiarsi con le indias). Il 38% fu portato in Brasile, il 6% negli Stati Uniti, più del 50% nelle Antille britanniche, nelle colonie francesi dei Caraibi e in quelle spagnole. Cuba, da sola, ne accolse 702.000, più di qualsiasi altra colonia spagnola.

A differenza della schiavitù indios, quella negra aveva già dei precedenti in Spagna: alla fine del XV sec. c’erano in Andalusia numerosi schiavi importati direttamente dalla Guinea (dopo il trattato di pace di Alcaçovas, nel 1497, col Portogallo, saranno i mercanti lusitani a rifornire di schiavi la Spagna, anche se quest’ultima, con la Casa de contrataciòn, cercherà di realizzare un proprio monopolio schiavista).

Il requerimiento

A seguito delle denunce dei religiosi contro il sistema schiavistico, cioè contro l’equivoco della non-appartenenza dell’indio alla specie umana, e anche per limitare l’autonomia degli encomenderos, si promulgheranno nel 1512 le Leggi di Burgos, che toglievano legittimità all’asservimento degli indios pacifici, alle conversioni forzate, all’encomienda repressiva (vedi più avanti), consentendo però il lavoro forzato e l’intervento punitivo nei confronti dei ribelli.

Tali Leggi furono un tentativo di rendere più efficace la predicazione della fede cristiana, impedendo che i conquistatori decimassero le popolazioni indigene. Il papato volle cioè far capire alla Spagna che il privilegio della conquista le era stato concesso anche per la conversione degli indios.

Il requerimiento («ingiunzione») nacque, nel 1514, proprio in applicazione alle Leggi di Burgos. Questa dichiarazione di sovranità letta in lingua spagnola (senza interpreti) dai conquistadores, in presenza di un funzionario regio, agli indigeni del Nuovo Mondo, altro non voleva essere che uno strumento per regolamentare, in maniera «legale», le conquiste fino ad allora caotiche: non esprimeva il desiderio della corona spagnola d’impedire guerre ingiustificate, concedendo alcuni diritti agli indiani, ma piuttosto la preoccupazione della stessa corona di tenere sotto controllo i conquistadores e gli encomenderos. Alcune testimonianze rivelano che la procedura non era quasi mai rispettata, in quanto gli indigeni venivano prima imprigionati e successivamente veniva letta loro la dichiarazione.

D’impronta fortemente cattolico-imperialista, il requerimiento comincia con una breve storia dell’umanità, culminante con la nascita di Gesù, definito «capo della stirpe umana», che avrebbe trasmesso il suo potere a san Pietro e questi ai papi suoi successori (ai quali si riconosceva la superiorità del potere spirituale e temporale,e quindi una responsabilità per la salvezza anche delle anime degli indigeni), l’ultimo dei quali, all’epoca papa Alessandro VI, avrebbe poi fatto dono del continente americano agli spagnoli (e in parte ai portoghesi), col Trattato di Tordesillas. Agli indigeni si richiedeva totale sottomissione al papa come signore del mondo e, in sua vece, al re di Castiglia per diritto di donazione: in caso di rifiuto o assenza di risposta, il requerimiento diventava una vera e propria dichiarazione di guerra, che poteva arrivare alla schiavizzazione forzata, o, nel peggiore dei casi, allo sterminio.

A causa di questo suo carattere così scandalosamente ipocrita, il requerimiento, usato per la prima volta da Pedrarias Dávila a Panama, già nel 1525 non veniva più applicato. In seguito saranno le Leggi Nuove del 1542 a stabilire formalmente che il monarca spagnolo era sovrano anche degli indios, al fine di sottrarre quest’ultimi al totale arbitrio dei conquistatori.

Un altro pretesto con cui si cercò di legittimare la schiavitù fu cercato nel fatto che talune civiltà (ad es. quella azteca), la praticavano ancor prima d’incontrare gli spagnoli. Las Casas però preciserà che, generalmente, tra gli indios la schiavitù era una pena inflitta per determinati delitti, aveva carattere transitorio e non portava alla morte. Inoltre si trattava di una punizione personale e non collettiva, come invece fu quella imposta dai conquistatori, i quali non si limitavano a usare lo schiavo per il lavoro, ma lo usavano anche come merce di scambio.

Dopo Colombo

La notizia della scoperta di Colombo suscitò un grande allarme in Portogallo, che si sentiva defraudato dei propri possedimenti asiatici. La contesa tra le due nazioni venne inizialmente risolta dal papato.3

Tuttavia, dopo il successo del portoghese Vasco de Gama, che per primo era riuscito ad arrivare fino in India doppiando il Capo di Buona Speranza nel 1498, Colombo cominciò ad essere definito un impostore, tanto che i re spagnoli lo privarono non solo del diritto di effettuare altri viaggi verso Occidente, ma anche dei redditi ottenuti dalle terre scoperte. Colombo, in breve tempo, venne privato di tutti i suoi beni, che servirono per pagare i debiti dei suoi creditori. Abbandonato da tutti, morirà nel 1506. Persino il continente da lui scoperto, prenderà il nome dell’italiano Amerigo Vespucci, che negli anni 1499-1504 partecipò ad una spedizione nelle coste del Sudamerica: le sue lettere suscitarono grande interesse in Europa.4

Dopo Colombo, altri conquistadores continuarono ad allargare i possessi coloniali spagnoli in America (Istmo di Panama, Yucatan, Messico...). Furono soprattutto intrapresi dei tentativi per trovare uno stretto che collegasse l’Atlantico al Pacifico. Il progetto di una grande spedizione per ricercare la via sud-occidentale verso il Pacifico e arrivare all’Asia per la via occidentale, fu proposto al re spagnolo da Ferdinando Magellano. Il suo obiettivo economico era quello di raggiungere le isole Molucche, che si sapevano ricche di spezie.

Magellano partì dalla Spagna nel 1519, arrivò nello stretto che ancora oggi porta il suo nome e puntò verso le rive dell’Asia, attraversando il «Mare del Sud», che ribattezzò «Oceano Pacifico», essendogli apparso molto calmo. Nel 1521, dopo tre anni di navigazione, raggiunse quelle che oggi vengono chiamate le Filippine (che saranno definitivamente conquistate nel 1567). Qui cercò di conquistare le terre da lui scoperte, ma venne ucciso in uno scontro con gli indigeni. Alle isole Molucche giunsero solo due navi delle cinque ch’erano partite, e solo una fu in grado di tornare in Spagna col carico di spezie. Dell’intero equipaggio: 265 uomini, solo 18 erano sopravvissuti. Tuttavia la vendita del carico di spezie fu in grado di coprire abbondantemente le spese della spedizione. Magellano aveva praticamente portato a termine l’opera iniziata da Colombo, anche se la nuova rotta dall’Europa all’Asia non avrà una grande importanza pratica, data la lunga distanza e la difficoltà della navigazione.

Cortés e Pizarro

Negli anni 1519-21 ben più importante fu la spedizione militare dei 600 conquistatori castigliani comandati dall’hidalgo F. Cortés, che fornito di 16 cavalli e armato di 13 cannoni, era partito da Cuba verso le zone interne del Messico, alla conquista dello Stato degli aztechi, le cui ricchezze non erano inferiori a quelle dell’India. Cortés aveva organizzato la spedizione con i guadagni ottenuti da una piantagione di Cuba. Le vittorie abbastanza facili dei suoi reparti militari dipesero sostanzialmente da tre fattori:

a) la lunga esperienza politico-militare acquisita dai mercenari durante la «Riconquista»: proprio in virtù di quel processo di unificazione nazionale, iniziato nella penisola iberica nell’800 e «terminato» nelle Americhe intorno al 1600, si poterono trasferire nelle colonie (adattandole) quelle strutture di dominio che in parte erano già state collaudate nella madrepatria lottando contro i mori;

b) l’impiego di armi da fuoco, corazze d’acciaio e cavalli (mai visti prima in America). Sia nel XV che nel XVI sec. i navigatori, esploratori e conquistatori euroccidentali erano convinti, non meno dei crociati dei secoli precedenti, di appartenere alla parte civilmente e religiosamente avanzata dell’umanità, ma mentre nel Medioevo lo scontro armato contro l’«infedele» era alla pari, ora la superiorità tecnologica degli europei era netta. Questo spiega anche perché i 200.000 europei che alla fine del ’500 si trovavano oltreoceano erano in grado di controllare popolazioni indigene da 50 a 100 volte più numerose;

c) le discordie intestine fra gli aztechi e le tribù loro soggette. In un primo momento gli aztechi accettarono la cattura, con l’inganno, del loro re Montezuma e che gli spagnoli governassero a nome suo il Paese. Ben presto però scoppiò una grande insurrezione contro gli avidi e spietati conquistatori (ad es. tutti gli oggetti d’oro venivano fusi in lingotti e distribuiti fra i componenti della spedizione). Cortés assediò la capitale Tenochtitlan (l’odierna Città del Messico) con un esercito di 10.000 uomini (in gran parte indigeni anti-aztechi): dei 300.000 abitanti che la città aveva ne morirono ben 240.000. I vincitori s’impadronirono di 600 kg d’oro. Nel 1521 il Messico divenne una colonia spagnola: l’oro, le pietre preziose e le terre vennero suddivise tra i colonizzatori.

Successivamente gli spagnoli occuparono il Guatemala e l’Honduras. Nel 1546 sottomisero i Maya nello Yucatan. Essi rivolgevano tutta la loro attenzione verso le zone montagnose dell’America meridionale, ricche di oro e argento. Negli anni 1531-33 il conquistatore Francisco Pizarro intraprese la conquista dello Stato degli inca, nel Perù-Bolivia. Con un reparto di 180 uomini e con 37 cavalli, Pizarro penetrò in questo Stato approfittando della lotta di due fratelli «eredi» al trono. Egli fece prigioniero uno dei due pretendenti, Atahualpa, governando il Paese a suo nome. Per la liberazione di Atahualpa venne preteso un riscatto di 5,5 tonnellate d’oro e 11,8 tonnellate d’argento (cioè in sostanza il valore equivalente a quello di mezzo secolo di produzione europea). Anche questo bottino, d’inestimabile valore artistico, venne fuso in lingotti e diviso tra i conquistatori. Non solo, ma ottenuto il riscatto, essi uccisero a tradimento Atahualpa, occuparono la capitale (impadronendosi di altre 1,1 tonnellate di oro e di 15 tonnellate d’argento) e posero sul trono un indigeno di fiducia.

A Potosì (Bolivia) s’impadronirono di ricchissimi giacimenti d’argento. La sola quinta parte di questo argento, dovuta alla corona spagnola, forniva 1/7 della produzione mondiale. Non dimentichiamo che l’estrazione mondiale di argento supererà per valore quella dell’oro sino agli anni ‘30 del XIX sec. Questo perché né i portoghesi né gli spagnoli furono in grado di scoprire grandi giacimenti di minerale aurifero. Colombo, Cortèz e Pizarro dovevano necessariamente esagerare le ricchezze americane per poter assoldare gli eserciti, per garantirsi la protezione dei monarchi, per trovare il denaro presso i banchieri e i mercanti che organizzavano le loro spedizioni. Questo, anche se nel XVI sec. l’America fornirà oltre 1/3 dell’oro mondiale, nel XVII sec. oltre la metà e nel secolo successivo i 2/3. Dal 1493 al 1529 nelle «Indie occidentali» vennero estratte circa 22 tonnellate di oro, che comporteranno la morte di almeno 2 milioni di indios.

Un altro calcolo vuole che dal 1503 al 1660, circa 16 milioni di chili d’argento giunsero a Siviglia (triplicando l’argento esistente allora in Europa), mentre furono 185.000 i chili d’oro portati dall’America (che aumentò di 1/5 la disponibilità d’oro dell’Europa). Non dobbiamo dimenticare che solo il 40% circa del metallo imbarcato in America giungeva a Siviglia: neanche 20 anni dopo la conquista dell’America, le navi spagnole che trasportavano l’oro verso l’Europa cominciarono ad essere assalite dai pirati, inclusi quelli olandesi, inglesi e francesi. Infatti, proprio i rischi e le difficoltà inerenti allo sfruttamento delle miniere, indurranno la corona spagnola a rinunciare al proprio monopolio assoluto e a cedere le miniere in usufrutto, e ad affidarle a privati in cambio di una percentuale (5%) del metallo estratto.

Per evitare che oro e argento finissero in mano agli stranieri, la corona proibiva alle colonie qualunque importazione da altri Paesi, ed anche l’impianto di industrie straniere veniva ostacolato. Alle colonie dunque non restava che ricorrere al contrabbando, essendo la madrepatria incapace di soddisfare le loro esigenze, che non riguardavano soltanto armi, vestiti, cavalli, grano e vino, ma anche prodotti di lusso, tessuti, libri, alimenti del Vecchio Mondo, cui si sentivano nostalgicamente attaccati. Con ciò naturalmente non si vuole affermare che nelle colonie esistesse un maggior «spirito capitalistico». Le ricchezze che restavano in America, dedotta la maggior parte destinata al processo di accumulazione europeo, non venivano impiegate in un processo di sviluppo, ma investite nella costruzione di palazzi e chiese lussuose, nell’acquisto di gioielli e articoli di lusso o di nuove terre da parte dei proprietari di miniere e grossi latifondisti.

All’inizio degli anni ’40 del XVI sec. gli spagnoli occuparono il Cile, mentre nella seconda metà del secolo conquistarono l’Argentina. Lo sviluppo autonomo di tutti i popoli del continente americano venne definitivamente bloccato. La colonizzazione da parte dell’Occidente cristiano sopportava meno di quella islamica che, là dove fosse riuscita ad insediarsi, le civiltà dei vinti potessero continuare a seguire relativamente indisturbate il loro corso. E così nei primi due decenni della conquista perirono (soprattutto di malattie) circa 40 milioni d’indigeni. Alla fine del ’500 da 80 milioni circa che erano, essi si trovarono ridotti a 12 milioni. Nel 1650 la cifra era scesa a 3,5 milioni: oltre il 90% di perdite. Solo nel Messico centrale la popolazione si ridusse nel 1605 a 1.075.000 unità dei 25 milioni che era prima dell’arrivo di Cortés. La storia dell’umanità non ha mai conosciuto una catastrofe demografica di queste proporzioni. Ancora oggi l’America Latina è l’unico dei tre continenti colonizzati dall’Europa nel quale mai nessun popolo indigeno ha potuto riprendersi il potere.

L’encomienda

La monarchia spagnola, a differenza di quella portoghese, riservava ai conquistatori, attraverso un rapporto d’investitura personale, l’esclusiva dei monopoli e dello sfruttamento delle terre d’oltremare. Il moltiplicarsi delle concessioni ridusse, almeno relativamente, le prerogative dei vari conquistatori, portando all’istituzione dell’encomienda (che entrò nel diritto pubblico spagnolo sin dal 1503). L’encomienda (tutela) consisteva nella delega ad un imprenditore dei diritti signorili su un repartimiento (dominio) e sugli indigeni che lo abitavano.

I repartimientos altro non rappresentavano che la schiavitù «de facto», l’encomienda invece rappresentò la schiavitù «de jure». Con il primo sistema i conquistatori schiavizzavano gli indios in modo del tutto arbitrario; con il secondo sistema li schiavizzavano in modo conforme alla volontà del re. L’encomienda non era che un contratto medievale per il quale il re concedeva degli indios in usufrutto (non in proprietà) e per un tempo limitato al conquistatore, il quale aveva l’onere di organizzare la loro vita, di istruirli e di cristianizzarli (gli indios, se si convertivano, non potevano essere considerati «schiavi», ma «servi della gleba»).

I repartimientos, inizialmente, furono autorizzati dalla corona con l’obiettivo di soddisfare pubbliche necessità (sfruttamento dei giacimenti, carico delle merci, costruzione di città e di opere urbanistiche, ecc.), ma in pratica i coloni si servivano della popolazione indigena per ogni tipo di lavoro. I più grandi saccheggi delle Indie furono causati più dai repartimientos che dall’encomienda. Gli indios repartidos non erano proprietà di nessuno e, allo stesso tempo, appartenevano a tutti e tutti potevano fare di loro quello che volevano.

In questo senso, l’encomienda rappresentò il passaggio dalla fase in cui l’indios veniva «negato» come tale, alla fase in cui, dopo averlo riconosciuto come «essere umano», si iniziava ad «assimilarlo», rendendolo accettabile alla cultura europea. La denuncia più famosa contro questo sistema fu lanciata, come noto, dal padre domenicano Bartolomé de Las Casas: la sua Brevissima relazione della distruzione delle Indie è del 1552. Las Casas contestò i seguenti aspetti della colonizzazione: a) l’istituto giuridico del requerimiento; b) la cristianizzazione forzata; c) l’encomienda e le guerre di conquista. E in alternativa chiese: a) l’affermazione del fondamento «naturale» del diritto di ogni popolo all’autodeterminazione; b) la limitazione della sovranità del re, al fine di non sopprimere gli ordini locali preesistenti; c) il risarcimento dei danni provocati dal saccheggio delle risorse naturali. Las Casas fu però favorevole, nel 1516, all’utilizzo degli schiavi neri per alleviare la sorte degli indios, anche se alla fine della sua vita ammise l’errore.

L’encomienda serviva anche a uno scopo socio-militare: siccome il pagamento «in indios» costituiva parte delle retribuzioni che il conquistatore riceveva dal re per i suoi servizi militari, la corona vedeva in questo rapporto uno strumento per stabilire un controllo sul conquistatore, che era tenuto, in forza appunto dell’encomienda, a determinati doveri nei riguardi del re. La corona inoltre sperava che l’encomendero si sentisse integrato nella società coloniale nascente ed evitasse di abbandonarla dopo averla sfruttata al massimo. La corona, d’altra parte, non era in condizioni di finanziare eserciti professionali per l’immenso continente scoperto. Naturalmente per i conquistatori gli obblighi militari venivano intesi nel senso di poter realizzare guerre di espansione per catturare più indios.

Tutte le controversie tra la corona e i conquistatori verteranno proprio sull’interpretazione della natura dell’encomienda: istituzione di carattere pubblico, per la monarchia; di carattere privato (cioè inalienabile ed ereditaria), per i conquistatori. La lotta cioè sarà tra l’istituzione feudale della monarchia, che voleva rapportarsi solo con «vassalli» e «servi della gleba», e i conquistatori, che volevano trasformarsi in imprenditori schiavisti. Dall’encomienda comunque non sorgerà alcun vero «vassallo», alcuna élite militare, caratterizzata da un sentimento eroico e cristiano della vita, ma piuttosto una classe economica assetata di ricchezze (soprattutto quando si formerà la seconda generazione di encomenderos).

Da notare che dall’unione tra indios e spagnoli nascerà una nuova razza e classe sociale che sarà altamente redditizia per gli obiettivi dell’accumulazione pre-capitalistica: il meticcio. Sebbene formalmente vassalli del re, i meticci non erano né spagnoli né indios: non venivano encomendados, ma sfruttati col pagamento di un salario, per cui i coloni si liberavano da ogni responsabilità di tutela.

In molte di queste encomienda s’impose, almeno nelle fasi iniziali della conquista, una vera e propria «anarchia sessuale», nel senso cioè che al patriarcalismo di tipo cattolico-monogamico si sostituirà quello di tipo musulmano, rendendo l’harem un’istituzione semi-ufficiale, che la chiesa spagnola cercherà sempre di ostacolare. Non dobbiamo infatti dimenticare che i rapimenti di donne indigene costituirono le prime forme di schiavitù, che dureranno per tutto il periodo coloniale. A differenza di quella maschile, la schiavitù femminile sembra essere tollerata dalla legislazione delle «Indie», tant’è che non si trovano leggi che vietino tali pratiche. Esistevano peraltro specifici repartimientos di donne per il servizio domestico (cameriere, nutrici, cuoche...) e quelli realizzati con il matrimonio tra un’india e un conquistatore, per facilitare a quest’ultimo l’accesso alla proprietà terriera e quindi per ottenere un’encomienda.

I precedenti dell’encomienda risalgono a quando Colombo impose agli abitanti maggiori di 14 anni, di alcune province delle Antille, un tributo consistente in una certa quantità di oro ogni tre mesi (gli indios lontani dalle miniere dovevano consegnare 11,5 kg di cotone a persona). La differenza tra repartimientos ed encomienda stava anche in questo, che il tributo riscosso nella prima forma di organizzazione del lavoro, diverrà legittimo, dal punto di vista della corona, solo nella seconda forma di organizzazione produttiva. Le prerogative dell’encomienda vennero limitate nel 1530, 1542 e 1549, ma esse sopravvivranno sino al XVIII sec. (alle Filippine furono estese nel 1565).

Il boomerang della conquista

Le conseguenze della conquista dell’America sulla Spagna feudale furono catastrofiche, anche se in un primo momento contribuirono ad accentuare l’assolutismo della monarchia. Verso la metà del ’500 le contraddizioni economiche del Paese erano già enormi: persino al tempo della sua massima floridezza economica (inizio XVI sec.), l’import era superiore all’export, in tutte le merci più significative. Questo perché la corona non difese mai la propria industria dalla concorrenza straniera, né per la produzione interna né per l’esportazione.

L’assenza di una borghesia che fosse capace di trasformare l’oro e l’argento in uno strumento per la produzione capitalistica, determinò tre conseguenze fatali per il Paese: a) la dipendenza dalle nazioni europee più avanzate; b) il consolidamento delle classi parassitarie; c) il peso assoluto dello Stato nella società.

Già nel 1528 i genovesi erano padroni della maggior parte delle imprese commerciali spagnole: verso la metà del XVI sec. essi dominavano le industrie del sapone, il commercio dei cereali, della seta, della lana, dell’acciaio e di altri articoli ancora. La corona era ipotecata con banche e case di credito europee (ad es. i Fugger).

Il motivo di questa crisi è facilmente comprensibile. L’America produceva oro e argento; se la Spagna li voleva, doveva dare qualcosa in cambio, e se non aveva gli articoli richiesti dalle province d’oltremare, era costretta ad acquistare questi articoli in altri Paesi d’Europa ed esportarli in America per proprio conto. Con che cosa poteva pagare gli articoli comprati in Europa? Soltanto con l’oro e l’argento americani, poiché il Paese non conosceva una vera e propria rivoluzione industriale, avendo eliminato la borghesia come classe sociale.

Anche quando la corona di Spagna, per motivi di parentela, si troverà legata a quella dell’Impero, sotto il nome di Carlo V (1530-56), unendo territori vastissimi (Spagna, Italia meridionale con le isole, Paesi Bassi, Impero, Franca Contea e colonie americane), la situazione economica non migliorerà. Carlo V, nato nei Paesi Bassi, con la sede del suo impero in Germania, coi consiglieri tutti fiamminghi, era convinto che nel ’500 si potesse ancora costruire una «monarchia cristiana universale», contro soprattutto le rivendicazioni borghesi e protestanti.

Tuttavia la sua politica assolutistica e vetero-feudale incontrò subito grandi resistenze: i principi feudali tedeschi, di religione protestante, lo costrinsero a rinunciare all’idea di «sacro romano impero»; la Francia si oppose efficacemente al suo tentativo di egemonizzare l’intera Europa; i turchi minacciavano la parte sud-orientale dell’Europa centrale; i pirati algerini minacciavano le coste spagnole...

Solo in Spagna l’assolutismo di Carlo V ebbe la meglio, con la repressione della rivolta dei «comuneros», cioè dei Comuni liberi della Castiglia, i quali chiedevano: presenza della sede regale in Spagna, conferimento delle cariche pubbliche solo agli spagnoli, convocazione triennale delle Cortes (Parlamento), indipendenza dei deputati dalla corona, divieto di esportazione di oro e argento americani... La rivolta, cui inizialmente aderirono tutte le classi sociali, fallì perché a queste richieste la borghesia ne aggiunse altre dirette contro gli interessi della nobiltà (redistribuzione delle terre, pagamento delle imposte anche per i nobili, cariche amministrative elettive...). I nobili si staccarono dal movimento e la borghesia non ebbe la capacità di dirigerlo.

Carlo V abdicò nel 1556, dividendo l’impero in due parti. Re di Spagna diventò il figlio Filippo II (1556-98), che ereditò Franca Contea, Paesi Bassi, possessi in Italia e nelle colonie. Filippo II perseguì fanaticamente un solo scopo: il trionfo del cattolicesimo a livello europeo e lo sterminio degli eretici. Un censimento effettuato durante il suo regno attesta che, fra sacerdoti, chierici con gli ordini minori e frati, il clero costituiva il 25% della popolazione adulta. Instaurò in Spagna un regime di terrore, adottando l’Inquisizione. In 18 anni d’Inquisizione, sotto la direzione di Torquemada, furono processate 100.000 persone, di cui bruciate, in effigie, da 6 a 7000, e 9000 in carne ed ossa. Egli occupò il Portogallo nel 1581. Poi pensò di cattolicizzare l’intera Europa. Gli ostacoli maggiori che incontrò e che segnarono la fine della potenza spagnola, furono: l’Inghilterra, che distrusse nel 1588 metà flotta navale dell’«Invincibile Armada»; la Francia, che dopo un’aspra guerra riuscì a concludere una pace vantaggiosa; i Paesi Bassi, che dopo una vasta ribellione, si resero indipendenti...

La rivoluzione dei prezzi

La crisi economica interna diede alla Spagna di Filippo II il colpo di grazia. Il problema fondamentale era rappresentato dal rincaro delle materie prime, dei prodotti agricoli e delle merci industriali e artigianali, collegato al fatto che la massiccia importazione di oro e argento dalle colonie, provocando l’inevitabile «rivoluzione dei prezzi», invece di arricchire il Paese, ancora sostanzialmente feudale, lo impoveriva sempre di più (al punto che i tessuti fabbricati nei Paesi Bassi con lana spagnola, costavano meno dei tessuti prodotti nella stessa Spagna).

La rivoluzione dei prezzi fu un fenomeno di portata europea. Verso la metà del XVI sec. nelle colonie americane si estraevano oro e argento in quantità cinque volte maggiore rispetto a quanto se ne otteneva in Europa prima del 1492 (nella seconda metà del ’500 la quantità sul mercato europeo era aumentata di 16 volte rispetto alla prima metà). Questo afflusso massiccio e a buon mercato (perché ottenuto con il lavoro sottopagato dei servi della gleba e schiavi indios) portò in Europa alla svalutazione della moneta (la cui circolazione dopo la conquista era comunque aumentata di quattro volte) e quindi del suo potere d’acquisto e al rincaro del costo della vita. L’aumento dei prezzi per tutte le merci, sia agricole che industriali, in media andava dalle due alle tre volte (però, ad es., verso la fine del ’500 il prezzo del pane era cresciuto di 16 volte rispetto agli inizi del secolo). Il processo si fece chiaramente inflazionistico a partire dalla metà del sec. XVI, soprattutto per quanto riguarda i prezzi agricoli. Naturalmente per i tempi di allora anche un semplice tasso inflazionistico del 2 o 3% annuo risultava molto preoccupante.

L’aumento dei prezzi favorì i Paesi in via d’industrializzazione, come Inghilterra, Olanda e Francia, ovvero le classi a reddito mobile, e colpì i Paesi che avevano larghi crediti, come ad es. Genova, e le classi a reddito fisso. Fra le classi a reddito mobile vanno annoverate la borghesia, i contadini ricchi che potevano vendere una parte della loro produzione e la nobiltà che impiegava lavoro salariato nelle proprie terre, i proprietari terrieri che affittavano a breve termine, ma ci guadagnavano anche i contadini che avevano contratti d’affitto a lungo termine, per i quali pagavano un rendita monetaria fissa.

S’impoverivano invece i signori feudali che avevano concesso le terre in affitto a lungo termine, anche se cercavano di riparare alle perdite inasprendo lo sfruttamento dei contadini, elevando la rendita monetaria, passando in certi casi dal tributo in denaro a quello in natura, oppure cacciando i contadini dalla terra, ovvero introducendo nelle campagne dei meccanismi di sfruttamento capitalistici. Naturalmente chi soffrì di più dell’inflazione furono i contadini poveri e tutti i salariati. Il livello dei salari non si elevò affatto in modo proporzionato, sia per la lentezza con la quale reagirono gli organismi corporativi, sia per l’abbondanza di manodopera e per l’esistenza di disoccupati.

Le costose merci spagnole, inferiori per qualità a quelle dei paesi nord-europei, non potevano sostenere la concorrenza dei prodotti stranieri e cominciavano a perdere tutti i mercati di sbocco. Esprimendo gli interessi della nobiltà, la quale riceveva ingenti redditi anche dalle miniere d’argento e dai campi auriferi d’America, la monarchia non favoriva in alcun modo l’industria, ma solo gli allevamenti ovini per l’esportazione della lana greggia. Soprattutto nella prima metà del ’500.

Ma nella seconda metà del secolo si ricominciò a coltivare grano, in seguito alla caduta della domanda laniera da parte delle manifatture olandesi. Per reagire al rialzo eccezionale dei cereali, lo Stato ne fissò i prezzi massimi alla produzione: ma ciò andò a vantaggio dei grossisti, che li rivendevano poi a molto di più. Il commercio del grano era già per 1/4 in mano ai Fugger (grande compagnia commerciale e usuraia tedesca, la quale disponeva anche dei maggiori giacimenti di mercurio e zinco della Spagna). Il Paese fu praticamente invaso dai mercanti stranieri, che lo trasformarono in una «colonia europea». L’oro americano finiva all’estero, per il pagamento degli interessi ai banchieri genovesi e tedeschi sugli enormi prestiti concessi alla corona, oppure per finanziare le guerre e le controriforme della casa d’Asburgo.

Benché la corona si fosse riservata il 20% di tutta le quantità di metallo prezioso fatto giungere a Siviglia, essa fu la prima a proclamare la loro insufficienza. Il governo non era in grado di pagare i propri debiti. Nel 1557 cercò di trasformarli in obbligazioni di Stato, offrendo la garanzia che in caso di bancarotta essi non sarebbero stati annullati. Filippo II però, dovette dichiarare bancarotta per ben sei volte, determinando così una serie di fallimenti a catena. Era infatti divenuto abituale che, in attesa dell’arrivo delle flotte dall’America e per rendere continuo il flusso dei pagamenti, oltre che per effettuarli sulle piazze e sui teatri d’operazione più diversi, i finanzieri europei anticipassero, con un forte interesse, le somme di cui la monarchia spagnola aveva bisogno. Già nel 1557 si ebbero delle bancarotte nei Paesi Bassi, a Milano e a Napoli, oltre che in Francia. Naturalmente le maggiori vittime del terremoto bancario erano i piccoli risparmiatori. A causa di questa grande incertezza finanziaria il credito si estese tramite il sempre più abituale impiego della lettera di cambio. E comunque alla fine del ’500 l’argento in Spagna sparì dalle monete, facendo posto al rame.

Per concludere

In definitiva, lo Stato assoluto spagnolo conservava una somiglianza soltanto esteriore con le monarchie assolute del resto d’Europa. All’inizio del XVII sec. immense ricchezze erano concentrate nelle mani dei Grandi nobili e del clero (quest’ultimo aveva 1/4 di tutte le terre). Si cacciarono persino, nel 1609, gli ultimi 500.000 moriscos rimasti nel Paese (mori convertiti), per confiscarne tutti i beni. Un secolo dopo, un altro censimento relativo alle categorie sociali, segnalava, fra l’altro, che i nobili erano circa 723.000, i loro domestici circa 277.000, i burocrati 70.000 e i mendicanti circa 2 milioni.

Alcuni storici però hanno osservato che se l’America fosse stata «scoperta» da imprese come quella dei Fugger o dei Welsser, il genocidio degli indios sarebbe stato assai più grave (come avvenne ad es. in Venezuela). Per un mercante di religione protestante, la conquista non avrebbe avuto altra giustificazione che il guadagno. Persino Enrico VII d’Inghilterra, cattolico non meno ortodosso dei sovrani di Spagna e Portogallo, quando nel 1496 incaricò G. Caboto di «conquistare, occupare e prendere possesso delle terre dei pagani e degli infedeli», evitò ogni accenno alla morale e all’opera di conversione. Da notare che Spagna e Portogallo per tre secoli tennero strettamente legate alla madrepatria le colonie americane abitate da europei, ignorando la distanza e i fattori ambientali che potevano favorire il distacco e mantenendole assai vicine al modello della civiltà iberica. Questa impresa non fu uguagliata da nessun altro Paese coloniale europeo.

Naturalmente, nonostante i trattati di Tordesillas e di Saragozza, che dovevano assicurare a Spagna e Portogallo la spartizione delle terre scoperte, i governi di altri Paesi europei cominciarono a rivolgersi verso le parti inesplorate della Terra alla ricerca di guadagni e ricchezze. Giovanni Caboto, a nome dell’Inghilterra, raggiunse nel 1497 la costa orientale del Canada, mentre suo figlio l’anno dopo esplorò la costa nord-orientale degli attuali Stati Uniti. Gli olandesi scoprirono l’Australia nel XVII sec. Anche i russi rivolsero una particolare attenzione alle scoperte geografiche, spinti dallo sviluppo dei rapporti mercantili-monetari e dal processo di formazione di un unico mercato interno. Partendo dalla loro base originaria sul Dnepr, essi si lanciarono, attraverso l’ovest, sull’Europa slava e balcanica dominata dagli ottomani; attraverso l’est e il nord, sul grande mondo eurasiatico delle razzie tartaro-mongoliche, ampliando le loro frontiere sino alla Cina e appropriandosi di un tratto dell’America: l’Alaska. Fu nel 1648 che scoprirono lo stretto che divide l’America dall’Asia (chiamato più tardi di Bering) e quindi la via marittima attorno all’Asia nord-orientale, costeggiando la Siberia.


1) Anche per la designazione dei vescovi, la corona spagnola poneva al papato condizioni ad essa ampiamente favorevoli.

2) Da notare che allora la Spagna aveva circa 10 milioni di abitanti.

3) In seguito la Spagna si servirà spesso dei riconoscimenti ufficiali della Chiesa romana al proprio esclusivo dominio nel «Nuovo Mondo», in quanto altre nazioni - soprattutto quelle di religione protestante - pretenderanno una spartizione delle colonie.

4) Furono gli autori di un’importante Introduzione alla Cosmografia, pubblicata nel 1507, che, valutando i meriti del Vespucci, decisero di dare il suo nome al «Nuovo Mondo», che lui stesso peraltro definì così.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Moderna
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Scoperta e conquista dell'America

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