GIORDANO BRUNO condanna Cristoforo Colombo

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GIORDANO BRUNO condanna Cristoforo Colombo

Giordano Bruno

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Giuseppe Bailone

Nel 1582 esce a Parigi in traduzione francese la Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie di Bartolomé de Las Casas, l’opera che già nel titolo esprime radicale condanna della conquista del Nuovo Mondo. La stampa lo stesso libraio che, nello stesso anno, stampa il Candelaio di Giordano Bruno.

L’opera, presentata a Carlo V nel 1542 e pubblicata a Siviglia nel 1552, arriva in francese a Parigi poco tempo dopo Giordano Bruno, che, se già non la conosceva, ha così modo di prenderne visione.

Il giudizio di Bruno sulla conquista dell’America, brevemente ma chiaramente espresso in due opere del 1584 e probabilmente maturato anche in base al libro di Las Casas, è nettamente negativo.

La cena de le Ceneri si apre con un elogio di Copernico e di Bruno stesso.

Giordano Bruno esalta l’astronomia di Copernico come l’aurora di un nuovo giorno di cui la sua filosofia rappresenta la piena luce solare e paragona se stesso a Tifi, il timoniere degli Argonauti, e a Cristoforo Colombo. Ma il paragone volge subito a netto vantaggio di Giordano Bruno e a condanna di Tifi e di Colombo: il mondo scoperto da Bruno è infinitamente più ampio di quello scoperto da Colombo; la sua scoperta è stata animata solo da spirito di ricerca e da amore della conoscenza, quelle di Tifi, di Colombo e dei loro epigoni sono state animate da spirito di conquista; i frutti della scoperta bruniana sono tutti positivi, quelli invece della scoperta di Tifi e Colombo sono disastrosi: in nome della civiltà gli argonauti antichi e moderni hanno compiuto rapine e violenze e disseminato follie e corruzione.

“Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le regioni, di confondere quel che la provvida natura distinse, per il commerzio radoppiar i diffetti e gionger vizii a vizii de l’una e l’altra generazione, con violenza propagar nuove follie e piantar l’inaudite pazzie dove non sono, conchiudendosi al fin più saggio quel che è più forte; mostrar nuovi studi, instrumenti, et arte de tirannizar e sassinar l’un l’altro: per mercé de quai gesti, tempo verrà ch’avendono quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti di sì perniciose invenzioni”.

Bruno cita i versi 329-339 della Medea di Seneca: “Quella dei nostri padri fu un’età d’innocenza, senza inganni. Ognuno navigava senza stress lungo la propria costa e invecchiava nel proprio campo, ricco del poco, senza aver conosciuto altri beni che quelli del suolo natio. La nave tessala unì in un solo mondo regioni che erano saggiamente disgiunte e costrinse il mare a subire la sferza (dei remi), e il mare lontano divenne parte delle nostre paure.”[1]

La condanna di Giordano Bruno è netta: i nuovi Tifi hanno compiuto imprese piratesche ai danni di popolazioni inermi e, in nome della civiltà, hanno disseminato follie e distrutto antichi equilibri.

Per riparare queste grandi ingiustizie, il parlamento degli dei, nello Spaccio de la bestia trionfante, decide di scacciare dal cielo la “Nave di Argo nella quale sono inchiodate quarantacinque risplendenti stelle”, simbolo dei “primi pirati”, dei primi “solleciti predatori” del mare[2]:

“E non sì tosto ebbe chiusa la bocca la dea di Pafo, che Minerva l’aperse dicendo: «Or a che fine destinate la mia bella manifattura: quel palagio vagabondo, quella stanza mobile, quella bottega e fiera errante, quella vera balena che gli traghiuttiti corpi vivi e sani le va a vomire ne li estremi lidi de le opposte, contrarie e diverse margini del mare?»; «Vada» risposero molti dei, «con l’abominevole Avarizia, con la vile e precipitosa Mercatura, col desperato Piratismo, Predazione, Inganno, Usura, et altre scelerate serve, ministre e circostanti di costoro. Et ivi risieda la Liberalità, la Munificenza, la Nobiltà di spirito, la Comunicazione, Officio, et altri degni ministri e servi loro»; «Bisogna» disse Minerva «che sia conceduta et appropriata a qualch’uno»; «Fa di quella ciò che a te piace», disse Giove; «Or dumque» disse lei, «serva a qualche sollecito Portoghese, o curioso et avaro britannico: acciò con essa vada a discuoprir altre terre et altre regioni verso l’India occidentale, dove il capo aguzzo Genovese non ha discuoperto, e non ha messo i piedi il tenace e stiptico Spagnolo; e cossì successivamente serva per l’avenire al più curioso, sollecito e diligente investigator de nuovi continenti e terre».”[3]

Bruno condanna lo spirito di rapina e la violenza della conquista, ma ne condanna anche lo spirito missionario, l’evangelizzazione tesa a “propagar nuove follie e piantar l’inaudite pazzie dove non sono”.

Se Las Casas cerca in ogni modo di disgiungere il bene dal male della conquista spagnola, l’evangelizzazione dalla rapina, per Bruno la repulsione è totale: l’evangelizzazione, partendo dalla folle presunzione del possesso dell’unica verità, devasta il rapporto con le altre culture e diventa solidale con lo spirito di rapina.

Bruno, ardentemente assetato di sapere, conosce bene la differenza tra l’appassionata ricerca della verità e l’arrogante presunzione del suo possesso, tra la filosofia e il fanatismo dogmatico.

La metafisica degli infiniti mondi, degli infiniti centri dell’universo, non è compatibile col monocentrismo culturale che orienta l’età moderna in Occidente. Bruno ha distrutto il monocentrismo tolemaico e copernicano, aprendo agli infiniti mondi, ha distrutto le mura della prigione del monoculturalismo, del dogmatismo presuntuoso che va alla conquista di nuovi mondi per chiuderli nella propria prigione.

E’ il monocentrismo, la dogmatica convinzione di possedere l’unica verità, il male e l’errore profondo della verità dell’uomo moderno occidentale.

Il prigioniero dell’unica verità vuole fare dell’universo una sola prigione.

L’Inquisizione tiene in galera per otto anni il corpo di Giordano Bruno e poi lo brucia vivo l’ultimo giorno di carnevale del 1600, ma non riesce a imporgli la sua prigione culturale.

Anche Las Casas, in verità, proprio a partire dallo scontro con Sepùlveda, diventa critico nei confronti dell’evangelizzazione, che per tanto tempo ha tentato di separare dalla conquista della quale forniva la maschera di legittimazione. In lui si fa strada l’idea della relatività delle culture: i valori che si esportano nel Nuovo Mondo non sono universali di per sé ma sono ritenuti tali dagli Spagnoli perché sono i loro valori. Anche la barbarie non è assoluta. Ciascuno è il barbaro dell’altro: per esserlo basta parlare una lingua che l’altro non conosce.[4]


Note

[1] Giordano Bruno, La cena de le Ceneri, dialogo primo, in Opere italiane 1, Utet 2002, p. 452.

[2] Opere italiane 2, Utet 2002, p. 225.

[3] Ibidem, pp. 392-3.

[4] Si vedano in proposito le pagine 15-17 dell’introduzione di Cesare Acutis alla Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Oscar Mondadori 1987.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2010-11 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 26-04-2015