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Sviluppo sostenibile e fonti energetiche Come si è visto, per tutta l’era preindustriale le società umane hanno usato, e ancora oggi usano nelle zone più povere del pianeta, per compiere lavoro prevalentemente energia biologica: quella del proprio corpo, o quella del corpo di un animale da tiro, alimentati, l’uno e l’altro dal cibo.
Lo sfruttamento dell’energia contenuta nei combustibili fossili (carbone prima, petrolio poi, e infine gas naturale) ha invece contraddistinto, a partire dalla seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale, il modo i produrre delle società occidentali. Ai combustibili fossili si è poi aggiunto, a partire dagli anni 50 del Novecento, l’uranio, l’energia atomica. Bassi sono rimasti invece gli usi dell’energia solare, eolica e geotermica, non tanto per problemi tecnici, quanto piuttosto per scelte economiche e politiche. Ne è conseguito che, con la crescita economica, lo sfruttamento dei fossili, e più in particolare del petrolio, è fortemente aumentato negli ultimi decenni. E questo non solo nei paesi industrializzati, ma anche in alcuni di quelli in via di sviluppo, e cioè in quelli che hanno avviato in epoca relativamente recente processi di industrializzazione. Il risultato di tale aumento di sfruttamento dei fossili, e, ripeto, soprattutto del petrolio, è quello di aver portato le società che hanno basato il loro sviluppo sui fossili a una specie di empasse, ossia all’impossibilità di sopperire al fabbisogno energetico crescente (sia per i paesi industrializzati, sia per i paesi in via di sviluppo) senza causare forti ingiustizie e tensioni sociali, e senza recare danni all’ambiente. In altri termini, l’attuale quadro energetico confligge con l’idea di sviluppo sostenibile, sia per quanto riguarda il perseguimento dello sviluppo (che richiede un incremento di energia, e i fossili non sono rinnovabili: in particolare il petrolio, il più usato, come vedremo non è previsto durare a lungo), sia dal punto di vista del perseguimento della giustizia sociale (sono le economie sviluppate di mercato di gran lunga le maggiori consumatrici di combustibili fossili: pur costituendo la loro popolazione meno del 20% di quella mondiale, esse consumano il 70% dell’energia; un forte divario dunque, che è in aumento: a riguardo, richiamo l’attenzione sul fatto che all’origine del debito dei paesi terzi, e più in particolare di quelli che non possiedono risorse energetiche e sono costretti a importarle, è stato proprio il petrolio, ai tempi dello shock degli anni 70 del Novecento). E infine l’attuale sistema energetico confligge con l’idea di sviluppo sostenibile anche dal punto di vista del perseguimento, attraverso la tutela dell’ambiente, dell’obiettivo di non impoverire di risorse le generazioni future. Si potrebbe quasi dire (e forse senza quasi, o senza forse) che il quadro energetico basato sui fossili è arrivato al paradosso di porsi come ostacolo al perseguimento dello sviluppo sostenibile, ossia di uno sviluppo (1) che esista per tutti (industrializzati e non) nel presente (2) e che possa continuare in futuro per tutti, attraverso la salvaguardia delle risorse (3). Dunque, in pratica, occorre provare a uscire, almeno in parte, da questo sistema energetico al fine di poter avviare il tentativo di integrare economia (attraverso il perseguimento dell’obiettivo sviluppo), giustizia sociale (attraverso il perseguimento dell’obiettivo per tutti), e ambiente (attraverso il perseguimento dell’obiettivo di uno sviluppo che continui in futuro). Adesso vorrei provare a riflettere sul sistema energetico attuale e sulla possibilità di costruire un sistema energetico alternativo con l’aiuto di qualche dato. Partiamo dal petrolio. Dei tre combustibili fossili è più utilizzato perché, a differenza del carbone e del gas naturale, è facilmente trasportabile su terra (oleodotti) e su mare (petroliere), facilmente immagazzinabile e polivalente (da esso si può estrarre una vasta gamma di prodotti rispondenti a vari impieghi: benzina e altri carburanti, materie plastiche, filati, detergenti, ecc…). Ma entro la fine del secolo non ce ne sarà più. E’ evidente che il petrolio non può concorrere a uno sviluppo sostenibile. Si tenga conto a riguardo che i primi giacimenti a esaurirsi saranno quelli più difficilmente sfruttabili (il petrolio degli Stati Uniti, la cui estrazione è già problematica da tempo, tanto che gli investimenti nella ricerca in questo settore sono in forte diminuzione a partire dagli anni 70; il petrolio del Mar del Nord, che ha già raggiunto il tetto produttivo ed è destinato a calare nel giro di poche decenni). Si prevede pertanto che la produzione petrolifera mondiale si concentrerà nell’area del Golfo Persico, dove si trovano i giacimenti sfruttabili fino all’ultimo. Il petrolio del Golfo è dunque destinato a diventare sempre più prezioso, soprattutto per i paesi in via di sviluppo. La situazione che si prospetta lungo tale via è quella di una sempre più forte competizione internazionale per il controllo diretto o indiretto di questi giacimenti; e di conseguenza la possibilità che essi divengano sempre più oggetto di confronti e scontri militari. Di fronte a tali pericoli si potrebbe intervenire con la progressiva diminuzione del peso del petrolio, pur non uscendo dall’attuale del sistema energetico. Ci si potrebbe rivolgere al carbone. La lunga durata potrebbe far pensare alla possibilità di favorire uno sviluppo sostenibile. In realtà però non è così. Il carbone non consente infatti la riduzione del divario energetico tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, 1) perché è concentrato per oltre il 70% nelle attuali regioni più sviluppate e, tra quelle meno sviluppate, solo in Cina e in poche altre (vedere quali); 2) a tale situazione difficilmente può sopperire il trasporto, che è molto costoso; 3) non dà una garanzia di possibilità duratura e continuativa, essendo il combustibile fossile più inquinante. Il carbone dunque confligge con uno sviluppo che possa continuare anche in futuro. Resterebbe il nucleare. L’energia nucleare è di due tipi: di fissione e di fusione. L’energia di fusione, che sarebbe sicura e inesauribile non è disponibile in maniera economicamente vantaggiosa, mentre quella di fissione lo è, ma comporta i seguenti problemi: alti costi, sicurezza, scorie, timore di un legame tra nucleare civile e militare. In Europa, ad esclusione della Francia, la costruzione di centrali è cessata. In Italia sono state chiuse alla fine degli anni 80. Si può allora provare, sempre restando nel sistema energetico attuale, a migliorare l’efficienza energetica: evitare la dispersione, sostituire ai trasporti su strada quelli su rotaia, costruire edifici che fanno risparmiare energia. I mezzi tecnici che permettono di accrescere l’efficienza energetica riducendo i consumi esistono già. Il risparmio energetico però non dipende semplicemente da fattori tecnici, ma da tutta una serie di fattori economici, politici, sociali e culturali. Occorre, in altri termini, una politica che incentivi non solo lo sviluppo produttivo, ma la riduzione dei consumi energetici, attraverso una educazione alla cultura del risparmio: un esempio sono i comportamenti intesi a favorire il riciclaggio, piuttosto che l’uso della ferrovia e dei mezzi pubblici invece dell’automobile, ecc. Questa, del risparmio, dunque è una strada percorribile e utile. Però non è sufficiente. Al miglioramento dell’efficienza energetica, ossia al risparmio di energia, va affiancato un nuovo modo di produrre energia. In altri termini va avviata, quanto meno parzialmente, la costruzione di un nuovo sistema energetico, basato sull’uso di fonti non inquinanti, rinnovabili e largamente disponibili: energia idrica, eolica, geotermica, biomassa ed energia solare diretta. Oggi solo il 10% dell’energia consumata annualmente su scala mondiale viene fornita da fonti rinnovabili. Si tratta di una parte minima del potenziale, che può essere usato molto di più e molto più efficacemente. Oltre all’acqua attualmente già utilizzata per la produzione di energia elettrica, piuttosto promettente sembra essere l’energia eolica, sfruttabile anch’essa per la produzione di energia elettrica attraverso aerogeneratori (una moderna versione degli antichi mulini a vento) in California e Nord Europa. Il costo dell’energia elettrica di fonte eolica è già attualmente inferiore a quello di fonte nucleare e si avvicina ad essere competitivo con quello dell’elettricità prodotta dalle centrali a carbone. Non priva di rilievo è anche l’energia geotermica (generata dal calore di magmi che a 150-300 metri sotto terra trasformano l’acqua in vapore, in Italia a Larderello) che viene utilizzata per la produzione di elettricità e che però può essere anche utilizzata per il riscaldamento di edifici, serre, ecc. Il costo degli impianti per ora è alto. All’acqua e ai magmi sotterranei possiamo aggiungere la biomassa, che ha un alto potenziale energetico, e che però viene per ora scarsamente e malamente sfruttata. Particolarmente vantaggioso è l’utilizzo 1) di alcune piante della famiglia delle euforbiacee; 2) dei rifiuti organici delle città e dei residui della lavorazione di alcune piante (riso in particolare). Infine abbiamo l’energia solare diretta. Il sole, un gigantesco reattore nucleare a fusione, ha un immenso potenziale, ancora pochissimo sfruttato, che con le moderne tecnologie può essere oggi efficacemente utilizzato per produrre energia elettrica. Esistono molte tecnologie per lo sfruttamento delle radiazioni solari per la produzione di elettricità. Un sistema energetico basato sull’energia solare e sulle altre fonti di cui si è detto (acqua, vento, biomassa) sembra dunque non confliggere con il traguardo dello sviluppo sostenibile. Si tratta infatti di un sistema basato su fonti rinnovabili, e inoltre decentrato, ossia tale da consentire la produzione energetica nei luoghi stessi in cui l’energia prodotta viene utilizzata, contribuendo così a non produrre divario tra i paesi. Dunque lo sviluppo sostenibile può essere ragionevolmente perseguito, sia per quanto riguarda le fonti, sia per quanto riguarda le tecnologie. Resta però il fattore decisivo, quello delle scelte di politica energetica. Attualmente le scelte continuano, come sappiamo, ad essere fortemente influenzate dagli interessi collegati all’uso dei combustibili fossili. Mentre occorrerebbe: 1) destinare maggiori fondi alla ricerca nel settore delle tecnologie che permettono l’uso delle fonti rinnovabili e non inquinanti; 2) stabilire norme anti-inquinamento unite a tassazioni per gli impianti inquinanti e a detassazioni per quelli non inquinanti. In tali direzioni cominciano a muoversi alcuni paesi, tra i quali all’avanguardia è la Svizzera. Insisto sul fattore politico, portando ancora una riflessione, prima di chiudere. Occorre infatti avere ben presente che la tecnologia può rivelarsi strumento di dominio e non di liberazione, se non viene utilizzata all’interno di forme di controllo democratiche. Ricordo a riguardo che negli anni 70 molte speranze erano state riposte nella rivoluzione verde. Con questo termine si intende quel progetto, realizzatosi appunto intorno agli anni 70, consistente nella produzione di cereali cosiddetti ad alta resa (cereali ottenuti attraverso una tecnologia basata su incroci effettuati in laboratorio tra diverse varietà di cereali con lo scopo di ottenere varietà finali più nutrienti). Una volta ottenute in laboratorio, tali varietà furono diffuse in alcuni paesi in via di sviluppo: il caso forse più noto è quello del riso IR6 nelle Filippine. Si riteneva che tali cereali avrebbero colmato il divario tra incremento demografico e produzione di beni alimentari. Ma il successo fu ridotto dalla maggior suscettibilità dei cereali ad alta resa agli attacchi e alle malattie, e dalla conseguente necessità di utilizzare insetticidi costosi e tossici: prodotti tecnologici, questi pesticidi, che hanno costretto i paesi che avevano adottato il programma di produzione di cereali ad alta resa a stringere la loro dipendenza economica dai paesi industrializzati. E in fondo si trattava di produrre energia (alimentare) da fonti rinnovabili (i cereali). Insomma la tecnologia da sola, e gli esempi potrebbero continuare, è condizione necessaria, ma non sufficiente per l’avvio di uno sviluppo sostenibile, che sottende invece un attento e costante intervento politico. |
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