LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


STORIA DEL FASCISMO

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Le origini

Le origini del fascismo sono inscindibilmente connesse alla crisi determinata dalla I guerra mondiale a livello economico, sociale, etico-culturale e politico e al processo d'intensa mobilitazione che ne seguì e che sfiorò la possibilità di una rivoluzione socialcomunista (in Italia la “settimana rossa” del giugno 1914 e il “biennio rosso” del 1919-20). Contro questa possibilità, resa più realistica dopo l'Ottobre bolscevico, si pose il fascismo.

Il fascismo è un movimento politico italiano fondato il 23 marzo 1919, in un’adunata in Piazza S. Sepolcro, da Benito Mussolini. La parola “fascio” deriva dall'emblema dei littori dell’antica Roma, ed è quindi simbolo di un passato glorioso, della forza e dell’unione.

Già nel 1915 Mussolini aveva imposto al movimento interventista la costituzione dei “Fasci d’azione rivoluzionaria”, rinominati, nel 1919, “Fasci di combattimento”. Questi ultimi si trasformeranno in Partito Nazionale Fascista.

Tra le prime reclute di questo movimento troviamo alcune esperienze minoritarie del sovversivismo irregolare pre- e post-bellico: futuristi, arditi, interventisti rivoluzionari, repubblicani e anarcosindacalisti, con un programma di tendenza repubblicana e anticlericale che presentava richieste di democrazia politica e sociale. Sin verso la fine del 1920 questi soggetti vissero di vita grama e furono un fenomeno - essenzialmente urbano - politicamente quasi irrilevante, partecipe di una serie di ambigui e contraddittori caratteri di “destra” e di “sinistra”.

Mussolini, fino al 1914, faceva parte del Partito socialista, da cui venne espulso per aver portato avanti un’accesa campagna interventista a favore della guerra contro l'Austria, in quanto riteneva quest'ultima un’occasione da non perdere per una rivoluzione proletaria.

Ben presto si comprese che il programma dei Fasci era intriso di demagogia, proposto solo per ottenere consensi e arrivare al potere; una delle prime azioni compiute da Fasci di combattimento fu l’assalto e l’incendio della sede milanese dell’”Avanti”, noto giornale socialista. In particolare, per compiere queste azioni intimidatorie contro gli esponenti socialisti, vennero create le squadre d’azione fasciste, composte da giovani studenti, ex combattenti e ufficiali appena congedati. Per compiere le loro azioni, le squadre utilizzavano dei camion per spostarsi durante la notte da un borgo all’altro.

Con la fine del 1920 e con il 1921, il fascismo si sviluppò con ritmo crescente, così da diventare una forza reale: da qui la sua partecipazione ai “blocchi nazionali” in occasione delle elezioni politiche del 1921, il suo ingresso in parlamento (con 35 deputati) e, dopo l’estate 1922, il diffondersi della convinzione che per risolvere la crisi politica italiana fosse necessario che le forze liberal-democratiche lo integrassero nel sistema e gli facessero posto al governo.

Peculiarità di questo sviluppo furono:

- Una sua sempre maggiore presenza nelle zone agricole del centro-sud.
- La costituzione di una forza armata (le “squadre d’azione”) che s'impose con violenza (soprattutto nella pianura padana, in Toscana e in Puglia) sulle organizzazioni socialiste e popolari.
- L’accentuazione – a livello politico ma non psicologico – dei suoi caratteri di “destra” rispetto a quelli di “sinistra”.
- Una sua netta qualificazione (a livello riorganizzativo e del consenso ideologico) in senso piccolo-borghese.

La marcia su Roma

I Fasci di combattimento e il successivo partito nazionale fascista (PNF, novembre 1921) si vennero caratterizzando nel 1921-22 come l’espressione politica della crisi di larghi settori – tradizionali ed emergenti – piccolo e medio borghesi. Una parte di questi strati sociali voleva sfuggire al pericolo della proletarizzazione, difendendo il proprio mondo di valori dalla minaccia che a esso veniva da uno sviluppo della società favorevole solo all'alta borghesia; un’altra parte voleva ottenere quel potere politico, corrispondente al ruolo economico e sociale della propria classe, che non trovava canali adeguati per realizzarsi entro il sistema o contro il sistema.

Da qui la novità che il fascismo costituì rispetto alle altre forze politiche e il carattere “rivoluzionario” (almeno quanto ad aspirazioni) che contraddistinse in questo periodo buona parte della base organizzata. Tuttavia la capacità ch'esso dimostrò di preservare la propria autonomia politica s'andava progressivamente attenuando nel tentativo di cercare una serie di compromessi con larghi settori del modo economico e della classe politico-burocratica tradizionale, i quali credettero, in un primo momento, che, accettando la sua carica eversiva, l'avrebbero “costituzionalizzato”, cioè integrato nel sistema in funzione anti-proletaria.

Le cose però andarono diversamente. Avuto il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo si pone il problema della conquista dello Stato. Mussolini giocò su più tavoli:

- fa trattative con i più autorevoli esponenti liberali per una partecipazione fascista al governo;
- rassicura la monarchia sconfessando simpatie repubblicane;
- si guadagna il favore degli industriali promettendo spazio all’iniziativa privata;
- lascia che l’apparato militare fascista si prepari alla presa del potere con un colpo di Stato.

Prende vita così il progetto della Marcia su Roma: mobilitazione generale di tutte le forze fasciste con l’obiettivo della conquista del potere centrale. Inizia il 27 ottobre.

La marcia non avrebbe avuto possibilità di successo se avesse incontrato la ferma opposizione delle autorità. Le squadre fasciste non erano in grado di affrontare uno scontro con l’esercito regolare. Lo stesso Mussolini considerava la marcia soltanto una forma di pressione.

La Marcia su Roma colpisce lo Stato nel pieno disfacimento dei suoi poteri:

- Facta si dimette il 28 ottobre;
- il Re (che, dopo l’esperienza fiumana, non voleva mettere a repentaglio l’unità dell’esercito) il 28 ottobre rifiuta di firmare lo stato d’assedio e il passaggio dei poteri alle autorità militari. Il rifiuto del re è la vittoria delle camicie nere.

Mussolini non si accontenta più di far parte del governo: lo vuole presiedere, approfittando della crisi dei partiti di sinistra e delle divisioni tra quelli liberal-democratici. Il 30 ottobre senza incontrare resistenza è ricevuto dal Re. La sera stessa è già pronto il Gabinetto, cui partecipano, oltre ai fascisti, anche liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari.

La crisi è risolta in modo ambiguo. Era una rivoluzione o no?

- I moderati si rallegravano che la legalità costituzionale era stata rispettata.
- I rivoluzionari (massimalisti e comunisti) erano soddisfatti perché nulla era cambiato, cioè perché il governo borghese era sempre espressione della dittatura di quella classe e pensavano così di organizzarsi per fare la rivoluzione.
- Il Paese seguì con misto di rassegnazione e speranza in un cambiamento. Ma il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale.

Verso lo Stato autoritario

Assunta la guida del governo, Mussolini cerca subito di alternare una linea morbida (promesse di normalizzazione moderata) e una linea più dura (minacce di una seconda ondata rivoluzionaria).

Usa il tono ricattatorio al momento della fiducia (fa riferimento all’“aula sorda e grigia”).

Due provvedimenti evidenziano l’incompatibilità con i principi dello Stato liberale:

- Dicembre ’22: viene istituito il Gran Consiglio del Fascismo con il compito di indicare le linee della politica fascista e di servire da raccordo tra partito e governo.
- Viene anche istituita la Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale (gennaio ’23), corpo armato di partito per proteggere gli sviluppi della rivoluzione (dà uno sbocco agli squadristi, altrimenti incontrollabili).

Infatti non cessano le violenze illegali contro gli oppositori, anzi si sommano con la repressione legale condotta dalla Magistratura, dagli organi di polizia (sequestro di giornali, scioglimento di amministrazioni comunali, arresti preventivi di militanti). Le vittime sono soprattutto comunisti; i sindacati non fascisti perdono progressivamente consistenza: i salari si riducono, gli scioperi sono sospesi.

La politica liberista veicolata dal Ministro delle Finanze De Stefani si basa su:

- Compressione salariale
- Libertà d’azione e margini di profitto all’industria privata
- Alleggerimento delle tasse alle imprese
- Abolito il monopolio delle assicurazioni sulla vita
- Privatizzazione del servizio telefonico
- Contenimento della spesa pubblica con licenziamenti nel pubblico impiego (20.000)

Grazie a questa dura politica finanziaria il bilancio torna in pareggio e aumenta temporaneamente la produzione.

Un altro sostegno a Mussolini proviene dalla Chiesa:

- Pio XI eletto nel febbraio 1922.
- Vi sono tendenze conservatrici, contente che si sia allontanato il pericolo socialista e che si sia restaurato il principio di autorità.

Mussolini abbandona per ora l’anticlericalismo del primo periodo e appoggia:

- La riforma scolastica che è varata nel ’23 dall’allora ministro dell’istruzione, il filosofo Giovanni Gentile: prevede esami di stato al termine di ogni ciclo di studi, insegnamento della religione alle elementari.

La prima vittima dell’avvicinamento tra Chiesa e Fascisti è il PPI: Don Sturzo è costretto a dimettersi dopo il Congresso di Torino (1923), poi nel 1924 va in esilio.

Mussolini ha il problema di rafforzare la propria maggioranza parlamentare facendo crescere il fascismo. L’ottiene con la nuova legge elettorale maggioritaria (legge Acerbo, luglio 1923) che dava i 2/3 dei seggi alla lista maggioritaria (con almeno il 25% dei voti), il resto era suddiviso con il metodo proporzionale tra le altre liste.

Alle elezioni del aprile 1924 alcuni liberali come Salandra e Orlando si presentano insieme ai fascisti nelle liste nazionali (come nel blocco nazionale del ’21 ma a parti invertite: questa volta infatti dominano i fascisti). Le altre liste sono divise, si presentano ognuna per proprio conto e si condannano a una sconfitta sicura. Infatti alle elezioni del 1924 le liste nazionali unite ottengono più del 65% dei voti e i ¾ dei seggi. Nel Mezzogiorno, dove il fascismo non aveva radici solide, con l’adesione dei nobili a Mussolini, il voto è praticamente unanime. Il Fascismo diventa nel giro di tre anni la più importante forza politica italiana.

La rapida ascesa è frutto della rottura degli equilibri tradizionali che la guerra aveva prodotto:

- Delusione per la vittoria mutilata
- Velleitarismo della minaccia della rivoluzione socialista
- Emergenza di nuovi ceti e nuove aspirazioni piccolo borghesi
- Il pragmatismo, l’opportunismo e l’assenza di etica politica in Mussolini

Delitto Matteotti e l’Aventino

Le elezioni dell’aprile '24 rafforzano Mussolini e indeboliscono le opposizioni che fanno fatica a inserirsi.

Alla fine di maggio Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario, alla Camera aveva fatto una dura requisitoria contro il fascismo denunciandone la violenza e contestando la validità dei risultati elettorali. Il 10 giugno Matteotti è rapito a Roma dagli squadristi, il cadavere verrà ritrovato due mesi dopo. La scomparsa è collegata al clima di violenza, all’impunità degli squadristi: infatti non vi furono dubbi sulla responsabilità delle squadre fasciste.

Il regime che sembrava inattaccabile viene attaccato e si trova isolato. L’opinione pubblica reclama giustizia: è un momento di grave smarrimento. Per i cosiddetti “fiancheggiatori” (esterni e interni al PNF) il fascismo avrebbe dovuto innovare ben poco il sistema: doveva soltanto renderlo più dinamico, non sovvertirlo, rafforzare l’esecutivo e depotenziare le forme di democrazia realizzate negli anni a cavallo della guerra.

Ma l’opposizione, indebolita dalle elezioni, non aveva la forza di mettere in minoranza il governo né era in grado di organizzare la mobilitazione del popolo. Bastò dunque qualche spostamento a livello ministeriale (il nazionalista Federzoni al Ministero dell’Interno) per superare la crisi e normalizzare il clima. Addirittura arrivarono al Duce incoraggiamenti ad essere duro con le opposizioni divise e deboli, di cui quelle cattoliche e liberali non volevano rischiare di compiere un “salto nel buio”.

I comunisti propongono uno sciopero generale, ma la proposta è respinta. L’atto di denuncia più clamoroso è la secessione dell’Aventino: alcuni gruppi parlamentari abbandonano il Parlamento finché non si fosse ristabilita la legalità democratica. Inizialmente c’è qualche risultato per la drammaticità e la novità del gesto, ma poi si dimostrò sterile, senza efficacia pratica. Il dibattere solo la questione morale non influiva sul processo degli eventi. L’assenza dei parlamentari dal Parlamento indebolì l’opposizione. Oltretutto il Re non si sentì in dovere d'intervenire. Nel giro di pochi mesi l’ondata antifascista si spense.

Fu proprio la corrente intransigente del suo partito a salvare Mussolini, quella che aspirava a un proprio ruolo politico e contestava, sia pur confusamente, molti aspetti (anche sociali) del sistema.

Le stesse forze liberal-democratiche (ormai passate all’opposizione) si convinsero a continuare sulla strada del compromesso realizzato nel 1922, ritenendo prioritario il fatto di poter in questo modo salvare le strutture essenziali del sistema e del proprio potere reale, in cambio della rinuncia alla gestione immediatamente politica del governo.

Mussolini dichiarò chiusa la “questione morale” il 3 gennaio 1925, assumendosi la responsabilità storica, politica e morale di quanto avvenuto. Seguì un’ondata di arresti, perquisizioni, sequestri sia a danno dei partiti di opposizione che degli organi di stampa schierati.

A un manifesto degli intellettuali fascisti (G. Gentile) si risponde con un contro-manifesto redatto da Benedetto Croce. S'ingrossa l’emigrazione politica degli antifascisti: Amendola, Gobetti, Ferrari, Sturzo, Donati. La stampa, anche quella indipendente, che aveva preso posizione in occasione del delitto Matteotti, è costretta ad allinearsi per le pressioni sugli editori.

Nell’ottobre 1925 con il Patto di Palazzo Vidoni il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale: la Confindustria s'impegna a riconoscere e a stipulare contratti solo con i sindacati fascisti. Vengono abolite le Commissioni Interne delle fabbriche.

Il Fascismo si avvia ad attuare la dittatura non solo di fatto, ma anche stravolgendo i connotati giuridici dello Stato liberale.

- Viene varata una nuova legislazione che ha il suo maggior artefice in Alfredo Rocco. L’occasione di una serie di attentati falliti al Duce fa accelerare i tempi.

- Vengono emanate leggi fascistissime in cui l’opposizione è messa al bando, sono sciolti i partiti, è instaurata la dittatura poliziesca. Di fatto si attua una riforma costituzionale, che adegua l’ordinamento giuridico alle aspirazioni autoritarie del fascismo e alle esigenze autocratiche di Mussolini.

  • Legge 24.12.1925 sulle attribuzioni e prerogative del capo del Governo. Il Presidente del Consiglio non è più primus inter pares ma diventa superiore gerarchico rispetto agli altri ministri, nominati e revocati dal Re su sua proposta e responsabili verso il Re e il Primo Ministro. Il numero e le attribuzioni dei Ministeri sono stabiliti con Regio Decreto su proposta del Presidente del Consiglio; solo il Re può revocare il Primo Ministro e sono abolite le mozioni di sfiducia; è subordinato il potere legislativo a quello esecutivo, attribuendo al Primo Ministro la determinazione dell’odg delle Camere.
  • Legge 31.1.1926 sulla facoltà del Governo di emanare norme giuridiche. La legge era finalizzata a normalizzare la prassi dei decreti-legge adottati dai Ministeri precedenti in deroga dello Statuto, ma finiva per attribuire vastissime facoltà legislative all’esecutivo. Infatti estendeva al massimo la facoltà di emanare, per semplice decreto reale, le norme giuridiche necessarie per disciplinare l’organizzazione e il funzionamento dell’Amministrazione statale, del personale ecc. Inoltre si estendeva la possibilità del governo di usare il Decreto Legislativo su semplice delega o di ricorrere al decreto legge per necessità con conversione legge entro due anni. Di fatto il controllo parlamentare non aveva più significato. Tanto più che l’assenza degli aventiniani facilitava l’opera legislativa dell’esecutivo e del fascismo. I parlamentari dell’Aventino vennero dichiarati decaduti con un provvedimento illegittimo sul piano costituzionale (che colpiva anche i deputati comunisti che non avevano partecipato all’Aventino).
  • Legge sindacale dell’aprile 1926: ammette solo i sindacati “legalmente riconosciuti” che erano quelli fascisti. Vieta lo sciopero e la serrata. Prevede la Magistratura del lavoro per i conflitti. Nel novembre 1926 sono sciolti i partiti antifascisti e i sindacati socialisti e cattolici; fu reintrodotta la pena di morte per i colpevoli di “reati contro la sicurezza dello Stato”: questi reati saranno giudicati da un Tribunale Speciale composto non da giudici ordinari, ma da ufficiali delle FF.AA. e della Milizia.
  • Legge per la fascistizzazione della Camera (17.5.1928). E’ la nuova legge elettorale che sostituiva la legge Acerbo del 1923. Si affidava la proposta della candidatura, per 1000 nomi, ai sindacati, al partito e alle altre associazioni espresse dal partito o alle organizzazioni collaterali. Poi il Gran Consiglio, senza alcun vincolo, ne sceglieva 400: questi sarebbero stati sottoposti al plebiscito (si o no). Il Gran Consiglio (Legge del 9.12.1928) da organo di partito diventa organo di Stato: costituzionalizzazione del Gran Consiglio, dipendente direttamente dal Capo del Governo che ne sceglieva i componenti, ad eccezione di taluni membri di diritto. E’ la fine dello Stato Liberale.

Il regime fascista fino all’entrata in guerra

Lo Stato fascista era diventato totalitario, ma doveva venire a patti con la Chiesa; inoltre al di sopra di Mussolini c’era, formalmente, il re.

Caratteristica del regime è la sovrapposizione di due strutture e due gerarchie parallele: quella dello Stato monarchico e quella del Partito fascista. Punto di congiunzione è il Gran Consiglio del fascismo, organo che ha anche importanti funzioni costituzionali. Al di sopra di tutto: Mussolini, Capo del Governo e Duce del Fascismo.

Il partito va dilatando sempre più le sue funzioni:

- l’iscrizione diviene una pratica di massa, necessaria per ottenere un posto nell’amministrazione statale.
- Il partito si dota di organizzazioni collaterali per la fascistizzazione: l’Opera nazionale dopolavoro (1925) che si occupa del tempo libero dei lavoratori organizzando per loro gite, gare sportive ecc.; nasce il Coni (1927) per incoraggiare e controllare le attività sportive.
- Nascono le organizzazioni giovanili del partito: fasci giovanili; Guf (giovani universitari fascisti); Onb (1926, opera nazionale Balilla) per i giovani dai 12 ai 18 anni; Figli della Lupa per i giovani al di sotto dei 12 anni.

Il Fascismo dunque nel suo disegno totalitario cerca di riplasmare la società dalle sue fondamenta, con propri riti.

Resta aperto il problema con la Chiesa, per il peso che essa ricopre nella società. Mussolini voleva risolvere lo storico contrasto tra Stato e Chiesa e per questo avvia delle trattative con il Vaticano nell’estate del 1926. Le trattative si concludono l’11 febbraio 1929 con la stipula dei Patti Lateranensi (che presero il nome dai Palazzi del Laterano dove Mussolini incontrò il cardinal Gasparri per la firma). I Patti si articolavano in tre parti:

- Un trattato internazionale con cui la Santa Sede poneva fine alla “questione romana” con il riconoscimento ufficiale dello Stato Italiano e di Roma sua capitale; dal canto suo lo Stato italiano riconosceva la sovranità dello Stato della Città del Vaticano.
- Una convenzione finanziaria in cui l’Italia s'impegnava a pagare un’indennità a titolo di risarcimento per la perdita dello Stato pontificio.
- Un concordato che regolava i rapporti interni fra Chiesa e il Regno d’Italia (in cui tra l’altro sono esonerati i sacerdoti dal servizio militare; si stabiliva che i preti “spretati” fossero esclusi dai pubblici uffici; che il matrimonio religioso avesse effetti civili; che l’insegnamento della religione cattolica fosse “fondamento e coronamento” dell’istruzione pubblica; che le organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica potessero continuare a svolgere le loro attività, purché sotto il controllo della gerarchia ecclesiastica e al di fuori di ogni partito).

I Patti danno un grande successo a Mussolini che diventa “l’uomo della Provvidenza”. Alle elezioni plebiscitarie del marzo 1929 si registra grande afflusso (90%) e larghissimo consenso (98%).

Anche il Vaticano trasse alcuni vantaggi dai Patti: se infatti da una parte era sancita la fine del potere temporale (perso da quasi 60 anni), dall’altra servirono a fargli assumere una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato, nell’istruzione, nella legislazione matrimoniale, con l’Azione Cattolica, strumento con cui fece azione formativa a largo raggio.

Oltre alla Chiesa anche la Monarchia poneva limiti all’ascesa della dittatura del Duce. Il Re restava la più alta carica dello Stato: a lui spettava infatti il comando supremo delle Forze armate, la scelta dei senatori, il diritto di nomina e revoca del Capo dello Stato.

Lo sviluppo dell'Italia fascista

La popolazione dal 1921 al 1939 passò da 38 milioni a 44 milioni. Si va accentuando l’urbanizzazione, cala l’occupazione agricola, mentre aumenta quella industriale. Nonostante questi segni di sviluppo, lo stipendio di un italiano era circa la metà di quello di un francese e 1/3 di quello di un inglese, per cui molto veniva speso in consumi alimentari.

L’arretratezza economica e civile della società italiana era per certi versi funzionale al regime, che infatti accentuò l’esaltazione della vita in campagna (ruralizzazione), scoraggiando l’afflusso in città, mentre nel resto del mondo era già iniziato e procedeva a gran ritmo il fenomeno dell’urbanizzazione.

Il fascismo inoltre, d’accordo con la Chiesa, portò avanti la politica dello sviluppo demografico, incoraggiando l’incremento della popolazione con gli assegni familiari, favorendo l’assunzione dei padri di famiglia, assegnando premi alle coppie prolifiche, mettendo una tassa sui celibi (1927).

Non favorì l’emancipazione femminile, anche se sviluppò organizzazioni femminili: i Fasci femminili, le piccole e giovani italiani, le massaie rurali.

Il fascismo punta a favorire il ceto medio: la piccola e media borghesia attraverso la moltiplicazione degli apparati burocratici, comprimendo i salari degli operai (un calo quasi costante: nel 1939 i salari nell’industria erano inferiori del 20% a quelli del 1921).

Nel 1927 viene varata la Carta del Lavoro: retorica esaltazione del lavoro; doveva servire a dare una patina di socialità al regime.

Attenzione particolare è riservata al mondo della cultura, della scuola, delle comunicazioni di massa:

- 1923. Riforma Gentile ispirata ai principi idealistici: severità degli studi, primato delle discipline umanistiche.
- Si cerca di porre un controllo sugli insegnanti, che si adattano senza troppe resistenze.
- L’Università godeva di più ampia autonomia, ma nel 1931 fu imposto il giuramento di fedeltà al regime (su 1200 solo una dozzina rifiutò, aderirono grossi nomi come Pirandello, Marconi, Mascagni…).

Il regime dunque esercitò il controllo in forma blanda sulle attività culturali che si rivolgevano a un pubblico specialistico, ma diventava diretto e capillare sulla cultura e sui mezzi di comunicazione di massa. Tutta la stampa politica fu sottoposta a controllo severo da parte dello stesso Mussolini prima e del Minculpop poi (Ministero per la cultura popolare). Controllo della radio è affidato dal 1927 a un ente di Stato detto Eiar: la radio, inizialmente poco diffusa, dopo il ’35 diventa il principale mezzo di propaganda (installazione nelle scuole, negli uffici pubblici…). Anche il cinema fu controllato dal regime allo scopo di limitare la massiccia entrata dei film americani nelle sale nazionali (il regime promuoveva i “cinegiornali”, prodotti da un ente statale l’Istituto Luce, raccontavano fatti d’attualità secondo i criteri della propaganda e venivano proiettati nelle sale prima del film).

Fascismo ed economia

Possiamo individuare tre fasi all'interno del processo di sviluppo della politica economica del regime.

La fase liberista

Questa prima fase é collocabile tra il 1922 e il 1925 e venne realizzata grazie all'operato del Ministro delle finanze De Stefani, esponente di una scuola liberale. I provvedimenti di questo ministro da una parte favorirono la libertà di iniziativa economica, riducendo i vincoli e il peso fiscale sulle imprese, dall'altro cercarono di diminuire la spesa pubblica, riducendo il personale statale. Fu dunque una politica di riduzione di salari, di forte pressione fiscale, di contrazione delle spese statali e di largo favore alle imprese. Vennero inoltre favorite le concentrazioni finanziarie e industriali, vale a dire la creazione di grandi e potenti gruppi economici. Furono denazionalizzate le assicurazioni sulla vita, mentre i telefoni, il gas, l'energia elettrica e la radio furono affidate all'iniziativa privata. I risultati furono importanti e portarono, tra il 1923 e il 1925 a una fase d'intenso sviluppo economico; infatti nel 1925 ci fu la chiusura del primo bilancio in attivo dalla fine della guerra, le esportazioni aumentarono notevolmente, e così la produzione e i profitti. Lo Stato lasciava fare al mercato. Tuttavia si verificò anche la crescita dell’inflazione, del deficit nei conti con l’estero e un forte deterioramento della lira (al cambio 1:145). Il ministro De Stefani fu sostituito da Volpi, che inaugurò una politica fondata sul protezionismo, sulla stabilizzazione della moneta, su un intervento statale più accentuato nei confronti dell’economia.

La fase "Quota 90"

Questa seconda parte andò dal 1925 al 1930 e fu caratterizzata da notevoli difficoltà economiche dovute a un rallentamento dell'economia internazionale che colpì le esportazioni, la bilancia dei pagamenti, e la lira.

Primo provvedimento di Volpi: inasprimento del dazio sui cereali e la cosiddetta “battaglia del grano”: scopo della battaglia propagandistica era il raggiungimento dell’autosufficienza nel settore cereali . L’obiettivo fu raggiunto con un aumento del 50% della produttività (con conseguente danno del settore allevamento e delle colture specializzate).

Seconda “battaglia” di Volpi: rivalutazione della lira. Il Duce annunciò nel discorso di Pesaro (agosto 1926) di voler portare la lira a “quota 90” (cioè 90 lire per 1 sterlina) per dare alla finanza internazionale un segnale di forza e stabilità e invogliarla a investire in Italia. L’obiettivo fu raggiunto in poco più di un anno, grazie alla riduzione dei credito e ai prestiti delle banche USA: arrivarono gli effetti positivi (i prezzi diminuirono, la lira recuperò il potere d’acquisto). Ma a goderne non furono i lavoratori dipendenti, che si videro tagliare i salari; furono danneggiate anche le industrie esportatrici, in crisi le piccole e medie aziende. Favorite le grandi imprese e i processi di concentrazione aziendale. Nel 1927 si avviò una vera e propria recessione causata dal crollo delle esportazioni (divenute troppo care per gli acquirenti) e dalla caduta della domanda interna per consumi privati. Le conseguenze di lungo periodo in termini di politica economica si concretizzarono nell'adozione di una condotta protezionistica volta a difendere la produzione, la moneta e più in generale l'economia nazionale.

La fase dirigista

La terza fase, degli anni '30, venne caratterizzata da un forte intervento dello Stato nell'economia, attuato attraverso un vero e proprio dirigismo economico. Questa politica autarchica fu considerata necessaria in quanto anche in Italia le conseguenze della crisi del 1929 furono pesanti e portarono a una riduzione della produzione industriale, agricola e del commercio estero, oltre all'aumento della disoccupazione (da 300.000 a 1.300.000 nel 1933) e ai tagli dei salari.

La risposta del regime alla crisi si attua su due direttrici:
- Sviluppo dei lavori pubblici
- Intervento diretto o indiretto dello Stato nei settori in crisi.

Lavori pubblici: programma di bonifica integrale che mirava al recupero di tutte le aree incolte; il programma fu attuato solo parzialmente. La parte più spettacolare fu la Bonifica dell’Agro Pontino in cui furono recuperati 60.000 ettari di terra. Nascita di nuovi villaggi: Sabaudia e Littoria (Latina). Rappresentò per il regime un grande successo.

Intervento dello Stato: nella forma più incisiva è sul sistema bancario. Le grandi banche miste (Comit e Credito italiano) rischiavano il fallimento. Il governo intervenne istituendo, nel 1931, l’IMI, Istituto di credito pubblico, col compito di sostituire le banche nel sostegno alle aziende in crisi. Dopo due anni istituì l’IRI (Istituto per la riconversione industriale) che divenne azionista di maggioranza di molte banche in crisi e acquistò il controllo su grandi industrie italiane (Ansaldo, Ilva, Terni…). In questo modo lo Stato diventa banchiere e imprenditore. I privati (gli imprenditori che avevano gestito male le imprese ed erano sull’orlo del fallimento per i debiti) guardavano con favore la cosa, visto che Mussolini, così facendo, “socializzava le perdite”, cioè accollava alla collettività i costi della crisi industriale (cioè i debiti e la mala amministrazione degli imprenditori privati). Lo Stato divenne un banchiere-azionista.

Intorno alla metà degli anni ’30 l’Italia era uscita dalla crisi peggiore e Mussolini pensò di lanciarsi nella politica dispendiosa delle imprese militari.

Il corporativismo

Il fascismo ha ereditato l'idea di corporativismo dalla sociologia cattolica e dal pensiero ufficiale della Chiesa (espresso anzitutto nell'enciclica "Rerum Novarum" di papa Leone XIII), per farne, dopo averlo spogliato della sua originaria veste confessionale, la sostanza sociale dello Stato totalitario fascista.

Secondo il Fascismo l’idea corporativa significava gestire direttamente l’economia da parte delle categorie produttive, organizzate in corporazioni distinte per settori di attività che comprendevano sia imprenditori che dipendenti. Quindi in pratica "corporativismo" voleva dire assenza totale di lotta di classe, perdita di autonomia dei sindacati, collaborazione tra le classi in nome degli interessi "nazionali" (in realtà "monopolistici") della produzione e gestione "interclassista" (in realtà "dirigistica") da parte dello Stato.

I sindacati non poterono più stipulare contratti collettivi di lavoro. Questo diritto venne attribuito alle sole Corporazioni, che lo esercitarono a vantaggio del padronato, tant'è che dal 1923 al 1940 il reddito procapite discese in Italia da 100 a 96, la retribuzione media dei dipendenti dell'industria da 100 a 92,4, e il consumo giornaliero di ogni italiano misurato in calorie da 100 a 90,6. La stessa soluzione delle controversie collettive di lavoro era sottratta alla libera azione dei lavoratori, che fin dal 1925 erano stati privati del diritto di sciopero; essa era stata demandata alla cosiddetta "Magistratura del lavoro", la quale, per la sua stessa composizione (magistrati e cittadini scelti da un apposito Albo speciale compilato in base al criterio della più assoluta fedeltà al regime), non offriva garanzia d'imparzialità.

I precedenti governi liberali ritenevano che lo Stato dovesse limitarsi a garantire le libertà individuali con l'ordine, assistendo indifferenti a scioperi e serrate, senza considerare il fatto che, anche se tali lotte interessavano solo singole categorie, tutta la nazione riceveva comunque un danno. Il fascismo partì invece da un principio del tutto opposto. Esso considerava i cittadini non come entità particolari, ma organiche di un tutto che è lo Stato, affermando quindi che il dovere dello Stato era d'intervenire per mantenere non solo l'ordine, ma anche la giustizia e la pace sociale tra le diverse classi. Questo perché riteneva che l'interesse supremo fosse non quello dell'individuo, quanto quello nazionale. A questo proposito tutti i cittadini vennero inquadrati all'interno di sindacati, suddivisi in base alle affinità professionali e giuridicamente riconosciuti come organi dello Stato stesso. I vari sindacati fascisti rappresentavano quindi una determinata categoria di persone, che esercitava una certa attività produttiva e che stipulava contratti collettivi di lavoro, che acquistavano valore per tutta la categoria stessa.

I sindacati si raggrupparono in tre confederazioni separate:
- Confederazione dei Datori di Lavoro (suddivisa in settori di attività: agricoltura, industria, commercio, credito);
- Confederazione dei Lavoratori (suddivisa in settori di attività: agricoltura, industria, commercio, credito);
- Confederazione dei Professionisti e Artisti.

I rappresentanti dei vari sindacati fascisti (sia dei datori che dei lavoratori) si riunivano nelle corporazioni. La legge del 5 febbraio 1934 stabilì 22 corporazioni: all'interno di esse, i sindacati si distribuivano secondo il ciclo produttivo (ogni corporazione comprendeva infatti tutti i sindacati di ogni ramo di produzione, andando a formare tre gruppi:
a) Corporazioni a ciclo produttivo agricolo, industriale e commerciale;
b) Corporazioni a ciclo produttivo industriale e commerciale;
c) Corporazioni per le attività produttrici di servizi.

L'ordinamento corporativo, mentre operava per irreggimentare i lavoratori e metterli alla mercé dei monopoli, attuò una serie di misure di aperto appoggio ai gruppi del grande capitale: dai molteplici salvataggi (che costarono ai contribuenti centinaia di miliardi), ai "consorzi obbligatori" (che accelerarono enormemente il processo di concentrazione monopolistica), alle norme sulla "disciplina degli impianti" (intese a impedire che sorgessero nuove iniziative industriali capaci di dare ombra ai monopoli), alle varie disposizioni per la "difesa del prodotto nazionale" (volte a mettere i suddetti monopoli al riparo da ogni concorrenza straniera), alla istituzione degli "Albi degli esportatori" e dei premi di esportazione, alla "battaglia del grano" e alla politica autarchica (che mirò in sostanza a creare più ampi margini d'iniziativa alle grandi imprese e ad assicurare loro l'incontrastato dominio del mercato interno), ai grandi lavori pubblici di prestigio e infine alle commesse belliche (che fecero dello Stato il maggiore e più sicuro cliente dei monopoli).

Non solo, ma le corporazioni fasciste vennero assumendo progressivamente la funzione di uno strumento di preparazione alla guerra. Infatti nel 1934 venne ad esse attribuito il compito di provvedere al contingentamento e all'assegnazione delle materie prime alle varie imprese, in base al criterio della preferenza assoluta per quelle che venivano definite d'interesse pubblico ai fini della difesa nazionale; nel febbraio del 1935 furono creati dei comitati a base corporativa preposti ai contingenti e alle licenze d'importazione, con analogo criterio; nell'ottobre del 1937 infine il Comitato corporativo centrale si trasformò in Commissione suprema per l'autarchia.

L’imperialismo fascista e l’impresa etiopica

Una componente imperialista fu sempre presente nel fascismo, paladino della riscossa nazionale. Fino ai primi anni ’30 tali aspirazioni imperiali rimasero vaghe: era più una propaganda ricorrente contro le democrazie plutocratiche (con cui si accordò a Stresa, aprile 1935) per tamponare il riarmo tedesco, mentre nel frattempo Mussolini preparava l’aggressione all’Etiopia.

Con la guerra d’Etiopia Mussolini intendeva dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo e vendicare lo scacco del 1896 (sconfitta di Adua). Mussolini voleva riuscire laddove i liberali avevano fallito. Era una occasione di mobilitazione popolare: inoltre anche i governi francese e inglese sembravano in qualche modo disponibili.

Ma quando nell’ottobre 1935 l’Italia invade l’Etiopia senza una dichiarazione di guerra, i governi francese e inglese portano la questione al Consiglio della Società delle Nazioni, fanno votare sanzioni, che furono approvate, anche se sortirono effetti limitati.

Il fatto che le grandi potenze plutocratiche volessero impedire “il posto al sole” per gli italiani, fece breccia nell’opinione pubblica (milioni di coppie donarono la fede nuziale).

Mussolini con un atto fortemente demagogico tentò di dare alla guerra uno scopo umanitario, presentandola come una crociata per liberare gli etiopi dal regime schiavista e corrotto.

Le operazioni belliche non durano molto: 5 maggio 1936 truppe italiane comandate da Badoglio entrano ad Addis Abeba: il 9 maggio Mussolini annuncia al popolo “il ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma”.

L’Etiopia era un paese molto povero; l’operazione non ha risvolti economici positivi ma sul piano politico fu un grande successo. Dette la sensazione che l’Italia fosse diventata una grande potenza.

Sull’onda di tale entusiasmo, nell’ottobre 1936 Mussolini firma il patto di amicizia con la Germania, l’Asse Roma-Berlino. Nello stesso anno proclama l’Impero, altro chiaro segno del suo avvicinamento alla Germania.

Questo allineamento si rafforzò con l’intervento italo–germanico nella guerra civile spagnola, dove i due alleati diedero aiuto a Franco, capo degli insorti contro la Repubblica.

Nell’autunno ’37 aderisce al Patto anti-Comintern con cui al fianco di Germania e Giappone s'impegnava a lottare contro il comunismo internazionale. L’Asse assume la forma di una vera alleanza militare.

Nel 1938 Hitler occupò Vienna ma Mussolini non si mosse. Il fascismo diventò dipendente dal nazismo.

Nel maggio 1939 Mussolini firma il Patto d’acciaio con la Germania, che legava le sorti dell’Italia a quelle dello Stato nazista.

L’Italia antifascista

A partire dalla metà degli anni ’20 inizia l’esilio o la clandestinità di tanti oppositori al regime. Molti si appartano in volontario silenzio e cercano di sfruttare gli spazi di autonomia che il regime lascia, senza però assumere una dimensione politica: così ex popolari, cattolici, liberali, anche socialisti. Invece i comunisti organizzano una struttura clandestina: molti vengono arrestati, spediti al confino, sottoposti a condanne del Tribunale Speciale.

Molti degli emigrati all’estero, in Francia (Gobetti, Turati, Treves, Nenni, Saragat, i fratelli Rosselli), soprattutto in Inghilterra e Usa (Sturzo, Salvemini), mantengono viva l’opposizione al regime.

Nel 1927 questi gruppi si costituirono in una organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista (collegata all’esperienza dell’Aventino). La Concentrazione svolse un’importante attività di testimonianza, di propaganda antifascista, stampando giornali, mantenendo i contatti con gli esiliati, organizzando dibattiti politici. Interessante fu il dibattito autocritico che portò al congresso di Parigi (1930) in cui il Psi ricompattò i due tronconi in cui si era scisso nel ’22.

Qualche impulso maggiore all’antifascismo arriva dall’attività di Emilio Lussu e Carlo Rosselli che fondano il movimento Giustizia e Libertà (estate 1929) che si proponeva come punto di raccordo fra socialisti, repubblicani e liberali secondo lo spirito del Socialismo liberale. Carlo Rosselli fu assassinato insieme al fratello Nello nel giugno ’37.

I Comunisti furono polemici verso la Concentrazione antifascista e verso Giustizia e Libertà. Fino al 1934-35 i comunisti erano fermi su un atteggiamento di orgoglioso isolamento, prendevano le direttive da Mosca dove Togliatti era segretario della III Internazionale (Comintern).

A metà degli anni ’30 nasce però una fase nuova nell’emigrazione antifascista con la politica dei Fronti popolari; nel 1934 i comunisti stringono un patto di unità d’azione coi socialisti. Questo renderà possibile il sorgere dopo il ’43 della resistenza armata al nazifascismo.

Apogeo e declino del regime fascista

La vittoriosa campagna in Etiopia fu per il fascismo l’apogeo del successo e della popolarità.

Svanito l’entusiasmo, il consenso cominciò a incrinarsi soprattutto per la politica economica ispirata al prestigio, condizionata dalle spese militari. Alla fine del ’35, dopo le sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni, Mussolini rilancia la politica dell’autarchia: ricerca una maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo delle materie prime e dei prodotti indispensabili in caso di guerra. Ciò si traduce in una stretta protezionistica, in un più intenso sfruttamento del sottosuolo, nell’incoraggiamento alla ricerca nel campo delle fibre e dei combustibili sintetici. Alcune industrie riescono a trarne vantaggio, ma in generale i risultati non sono brillanti: crescono i prezzi, si rallenta la produzione e peggiora il tenore di vita.

Politica Estera: attuata da Mussolini e dal genero Galeazzo Ciano. L’opinione pubblica non vedeva di buon grado l’amicizia con la Germania nazista. Le aspirazioni alla pace contrastavano con i programmi di Mussolini, che auspicava per l’Italia un futuro di conquiste e di confronti militari e che gli italiani si trasformassero in un popolo di guerrieri.

Poco prima della guerra avviene l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni con abolizione della Camera dei deputati (1939), composta da gerarchi fascisti e da dirigenti delle corporazioni, non eletti ma designati dall'alto, i quali erano espressione diretta dei grandi trust dell'industria, della banca e della finanza.

Il primo effetto dell’influenza hitleriana fu l’introduzione, nel 1938, della legislazione razziale: la convivenza con i 70.000 ebrei italiani che c’era stata fino ad allora veniva improvvisamente troncata. Dopo che sedicenti scienziati cominciarono a promuovere l’idea della “pura razza italiana”, furono promulgate leggi discriminatorie verso gli ebrei: non si potevano più sposare con gli italiani di razza “ariana”, non potevano svolgere il servizio militare e ricoprire cariche pubbliche, ne venivano limitate le attività economiche e le libere professioni; furono fatte anche persecuzioni violente contro di loro. Tutte misure ripugnanti che non fecero guadagnare al Duce il desiderato sentimento di orgoglio italiano e che aprirono invece un serio contrasto con la Chiesa, che, anche se aveva appoggiato le guerre in Etiopia e in Spagna, non poteva accettare il razzismo ideologico.

Questa situazione si aggravò con la stipulazione, a Berlino, del Patto d’Acciaio con la Germania, nel maggio 1939. Questo patto era, però, basato su una menzogna tedesca verso l’Italia: infatti Hitler promise che non avrebbe avuto intenzioni belliche verso la Polonia, e che tanto meno avrebbe occupato Danzica.

L’intervento nel conflitto mondiale e il crollo del regime

Mussolini perse ulteriormente il consenso dell’opinione pubblica schierandosi, il 10 giugno del 1940, accanto all’alleato tedesco nel conflitto, convinto che la Germania sarebbe stata vincitrice di una guerra–lampo.

Le sconfitte invece furono sempre più dure e l’antifascismo si consolidava sia in Italia che all’estero. Gli alleati (statunitensi e inglesi) ebbero così la possibilità di realizzare, per quanto riguarda l’Italia, uno sbarco in Sicilia, che venne realizzato il 10 luglio 1943. Per il nostro paese, la situazione si fece veramente critica per l’impossibilità del governo Mussolini di realizzare un’efficace difesa del territorio nazionale, le cui ripercussioni si riflettevano anche sul piano interno, con l'aumento, p. es., degli scioperi.

Di fronte a questa situazione, in alcuni settori della gerarchia fascista e nella monarchia maturò l’idea di destituire Mussolini. Questo avvenne il 25 luglio 1943, quando il duce venne messo in minoranza nel Gran Consiglio del fascismo su iniziativa di un gruppo di gerarchi. Immediatamente il re lo destituì e lo fece arrestare conducendolo sul Gran Sasso. Il fascismo era finito e il regime era crollato. Il nuovo Governo venne affidato al generale Badoglio che l’8 settembre 1943 firmò l’armistizio con gli anglo–americani.

La situazione, però, era ancora difficile da controllare: mentre il re e il governo fuggirono a Brindisi, creando il Regno del Sud sotto il controllo degli alleati, l’esercito venne abbandonato a se stesso, massacrato sotto i colpi dell’avanzata tedesca nella parte centro–settentrionale del paese. Proprio in questa parte del paese, ormai controllata dai tedeschi, il 12 settembre Mussolini, ch'era stato prigioniero a Campo Imperatore, ed era stato liberato da una squadra di paracadutisti tedeschi, ricostituì il Partito Fascista Repubblicano (cioè quello delle origini), dando vita alla Repubblica Sociale Italiana (o Repubblica di Salò, dal nome della capitale), sostenuta e subordinata alle truppe naziste, che imposero uno Stato poliziesco. Il vecchio fascismo rivoluzionario e intransigente s'illuse di tornare alla ribalta riallacciandosi al programma sociale del 1919 e naturalmente cercò di vendicarsi dei suoi nemici “fiancheggiatori”.

Nonostante la dura repressione nazista, anche nel centro–nord si svilupparono i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), che portarono avanti la loro lotta, passando da una posizione attendista a un totale appoggio verso gli Alleati, giungendo insieme, con il passare dei mesi, alla liberazione di città come Bologna, Genova e Milano.

Il fascismo repubblicano crollò definitivamente il 25 aprile 1945, e il 28 Mussolini fu fucilato. Buona parte del vecchio regime, toltasi la camicia nera, cercò, e in parte vi riuscì, di scaricare le proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue vittime.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 19/02/2015