LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


LA DOTTRINA DEL FASCISMO

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Al fascismo non interessava darsi una propria ideologia. Mussolini, profondamente opportunista, amava ripetere: “La nostra dottrina sono i fatti”; aspettò fin quasi al 1930 per indicare i princìpi ispiratori della sua azione, i cui tratti essenziali possono essere i seguenti:

- Sconfitta della ragione e primato dell'istinto. Il fascismo era fondamentalmente irrazionale, faceva appello non all’intelletto, ma a forze oscure considerate come “naturali”: istinto, razza, sangue, tradizione romana. Cercava di risvegliare sentimenti primari come l’entusiasmo delle folle, la collera dei vinti, l’indignazione delle vittime, il disprezzo per le nazioni plutocratiche, il rifiuto della diversità; voleva che tutto il popolo vibrasse di un medesimo slancio e, per spingervelo, gridava il ricordo del glorioso passato dell’Impero romano, organizzava grandiose cerimonie scandite dal passo delle parate militari, da canti guerreschi, fra fasci di luce nel cielo notturno, sfilate di fiaccole e discorsi esaltanti. Agli sconfitti e alle vittime delle crisi pretendeva fatti concreti: gli esercizi fisici, la sana vita all’aria aperta, l’avventura, il pericolo e infine la guerra, che rivelava l‘uomo a se stesso. Il suo nazionalismo era aggressivo; dileggiava il pacifismo delle istituzioni internazionali, a cominciare dalla Società delle Nazioni. Mussolini esclamava: “Non è a caso che ho scelto a motto della mia vita: vivere pericolosamente”. Questa violenza di accenti conferì al fascismo, a detta dei suoi apologeti, un tono di forte virilità e insieme di poesia selvaggia, una dimensione esaltante e mobilizzatrice delle coscienze.

- L’esaltazione dell’élite. Il fascismo accettava come un fatto naturale l’esistenza delle élite, senza porsi alcun interrogativo sulle loro origini e sulle giustificazioni della loro funzione storica; del resto era necessario che alcuni uomini fossero venuti al mondo per comandare, altri per obbedire. La massa, ignorante per natura, accecata dalla soddisfazione dei soli bisogni materiali, incapace di discernere dove siano i suoi veri interessi, doveva piegarsi alle scelte operate dai migliori, pena la sconfitta dello Stato. Il concetto di gerarchia rivestiva un carattere politico nel pensiero del Duce, mentre pareva eminentemente razziale in quello di Hitler. L’idea di una disuguaglianza naturale e feconda sfociò nella condanna formale delle dottrine ugualitarie, della democrazia, del suffragio universale, che diedero il potere al numero, alla massa incompetente e cieca. L’individuo, secondo uno degli slogan preferiti nell’Italia mussoliniana e soprattutto dalla sua propaganda, dove solo “credere, obbedire, combattere”.

- Il totalitarismo. Il fascismo era totalitario e faceva dello Stato l’assoluto che domina e soverchia l’individuo: “Tutto nello stato, nulla contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato”, proclamava Mussolini in un discorso del 26 maggio 1926. Era un totalitarismo prima di tutto politico, che nel ribadire l’onnipotenza e l’unità dello Stato, rinnegava la separazione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, e quindi condannava il sistema parlamentare, la pluralità dei partiti, dei sindacati, le organizzazioni sociali e volontaristiche, considerate alla stregua di un passato ormai tramontato. Lo Stato aveva bisogno di un solo partito, organizzato su un modello più o meno militare, che necessitava di disciplina, di uniformi, di insegne, di gente che sfili a passo cadenzato sotto le bandiere. Il totalitarismo vantava anche una sua dimensione per così dire intellettuale: la verità promanava esclusivamente dalle più alte autorità statuali; “Mussolini ha sempre ragione”, ripetevano molti italiani. Attraverso la stampa, la radio, il cinema e manifesti e pubblicità d’ogni genere, la propaganda di regime era onnipresente; non meno intensa era la formazione ideologica della gioventù per mezzo di organizzazioni appositamente create. Il sistema doveva funzionare anche nel sociale. Per il fascismo l’individuo non contava nulla, essendo totalmente subordinato alla collettività, ai cui interessi poteva essere chiamato a sacrificarsi; la singola esistenza acquistava un senso solo attraverso la partecipazione a un gruppo: era l’esaltazione della mistica della comunità e dell’adesione a ideali e comportamenti uniformi, della disciplina, del canto corale... Qualunque forma di libertà d’associazione, di insegnamento, d’autonoma gestione comunale o provinciale poteva portare alla disgregazione sociale o attentare alla stabilità dello Stato.

Lo Stato totalitario intervenne infine nella vita privata, familiare, religiosa, sanzionando chi vedeva come deviante, indesiderabile, inutile come i celibi che non procreano per il bene della nazione, gli omosessuali, perturbatori della morale, i malati mentali che costano caro all’erario, gli appartenenti ad alcuni gruppi etnico-religiosi evidentemente nocivi.

- L’autorità del capo. Lo Stato onnipotente s'incarnava in un capo carismatico e infallibile, provvidenziale guida della nazione e titolare dell’autorità assoluta. Il Duce aveva nelle sue mani tutti i meccanismi del potere e strinse con il popolo un rapporto quasi personale, si potrebbe dire di tipo mistico e religioso; le sue apparizioni, in occasione delle grandiose cerimonie come quella di Piazza Venezia a Roma, suscitavano una sorta di estasi mistica o di isteria collettiva. Il dittatore sembrava credere per davvero alla propria soprannaturale missione per il bene della nazione.

- Una facciata ingannevole. Artefice dell’instaurazione di una dittatura totalitaria, il fascismo teneva tuttavia a darsi un aspetto democratico e progressista; ad es., nonostante la costante critica del suffragio universale e del parlamentarismo, almeno in apparenza non rinunciò del tutto alle elezioni e al sistema rappresentativo. Il Parlamento italiano sopravvisse, anche se non contava più nulla; le elezioni erano sorvegliate con estrema attenzione e, ad evitare sorprese, si svolgevano su liste uniche. Il fascismo fece anche ricorso al plebiscito, destinato però a sanzionare l’accordo fondamentale fra il popolo e il suo capo. Esso ribadiva che il popolo delegasse liberamente il potere al capo, ciò che gli conferiva ogni legittimità.

Il regime si giustificava inoltre proclamando di difendere i veri interessi della nazione con l’instaurazione di una società più giusta, facendo anche ricorso a un vocabolario rivoluzionario e socialista. I programmi ufficiali parlavano di uguaglianza, di misure anticapitalistiche, di sindacati e di interventi sociali, ma nei fatti s'incoraggiava la concentrazione delle imprese e le nuove istituzioni annunciate in favore dei lavoratori servivano solo a irregimentarli e controllarli più da vicino.

Il socialismo di cui si ammantava il fascismo si definiva “nazionale”, cioè liberato dal marxismo, il cui materialismo venne sostituito dall’idealismo e la lotta di classe dalla cooperazione o corporativismo. Non fu prevista alcuna forma di collettivizzazione; tale socialismo, in pratica, si limitava a sottomettere i grandi interessi al fine comune, a imporre alla produzione una certa pianificazione, a dare più spazio ai quadri tecnici, a decretare un buon numero di leggi sociali che migliorassero le condizioni materiali dei lavoratori. La mano di vernice progressista era dunque molto sottile, ma conferì al fascismo quell’apparenza di dinamismo, quell’apertura al progresso e alla modernità, quella vistosa dimensione popolare che mancavano alle dittature reazionarie.

- Razzismo e antisemitismo non trovarono spazio nel fascismo italiano degli inizi: vi erano ebrei perfino all’interno del partito nazionale fascista. Con molto ritardo, Mussolini, nel 1938, per opportunismo politico e per compiacere all’alleato nazista, introdusse in Italia una legislazione antisemita, che tuttavia, per quanto odiosa, non assunse mai l’implacabile e violento rigore di quella tedesca (anche perché gli ebrei erano solo 70.000). Le differenze sulla questione razziale fecero dei due imperialismi, italiano e tedesco, due cose diverse. La volontà di grandezza e di espansione orchestrata da Mussolini rivestiva una dimensione essenzialmente storica e politica. Gli italiani si rifacevano all’orgoglioso ricordo della Roma antica e imperiale: all’interno della penisola riportarono alla luce, e restaurarono, i monumentali reperti archeologici; all’esterno rammentarono il genio civilizzatore e universale della loro patria e, quali eredi di un passato tanto grandiosi, sognarono di poter ricostruire l’impero dei loro antenati (a partire soprattutto dalla conquista dell'Etiopia).

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 19/02/2015