LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


LA VIA DEL FASCISMO AL POTERE

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La fine dell’ascesa rivoluzionaria in Italia (“biennio rosso”, 1919-20) coincise con una grave crisi economica che si era già delineata nella seconda metà del 1920 e che si protrasse per due anni. Durante questa crisi l’estrazione dei minerali di ferro diminuì del 50 %, quella del carbone di un terzo, la produzione di energia elettrica di un quinto, la fusione della ghisa di un terzo, mentre la fusione del rame si ridusse quasi a zero. Rispetto al 1920, nel 1922 il numero dei disoccupati era quasi triplicato.

La crisi provocò anche un gran numero di fallimenti, che da 500 del 1919 passarono a 700 nel 1920, a 1.800 nel 1921, fino a raggiungere i 3.600 nel 1922. Nel 1923 le industrie fallite furono 2.100.

Accanto a migliaia di piccole e medie industrie fallirono anche alcuni importanti trust, tra i quali le industrie metalmeccaniche Ilva e Ansaldo, e la Banca di Sconto ad esse collegata. Per salvare i magnati del capitale lo Stato spese ingenti somme: solo due banche, quella di Sconto e il Banco di Roma inghiottirono oltre 4 miliardi di lire.

Nel complesso la crisi stimolò la concentrazione capitalistica e l’ulteriore rafforzamento del predominio monopolistico. La crisi provocò anche uno spostamento di rapporti di forza all’interno del sistema capitalistico: accanto ai giganti della metallurgia e della metalmeccanica, conquistarono formidabili posizioni economiche potenti monopoli chimici (Montecatini e Snia Viscosa) e, soprattutto, i trust elettrici (Edison, Adriatica).

Alla fine del 1920 la borghesia passò al contrattacco contro la classe operaia, facendo largo ricorso ai metodi terroristici per soffocare il movimento rivoluzionario. Questi metodi li trovò al di fuori dello Stato, nel movimento fascista, la forza intenzionata a riportare il proletariato industriale ed agricolo alla condizione di soggezione precedente al “biennio rosso”.

Dal canto suo il governo non si sottrasse al compito di favorire e proteggere in tutti i modi la forza armata extralegale della borghesia. Prefetti, polizia, esercito, magistratura si schierarono apertamente al fianco della violenza fascista. Favorito dal governo che intendeva usarlo in funzione antioperaia, e largamente finanziato dai capitalisti il fascismo si sviluppò rapidamente.

Alla fine del 1920 una ulteriore svolta reazionaria al fascismo fu impressa dai legami che esso strinse con gli agrari, soprattutto della pianura padana. Già in alcune località gli agrari avevano organizzato gruppi di combattimento, le cui tradizioni e l’esempio ebbero una notevole influenza sui fascisti.

I proprietari fondiari, che tradizionalmente rappresentano il ceto più reazionario e conservatore della borghesia, si posero alla testa del movimento antisocialista. Bande armate di fascisti, organizzate e pagate dagli agrari, scorrazzavano nelle campagne aggredendo e uccidendo attivisti operai e contadini, assalendo e devastando le sedi della organizzazioni di classe dei lavoratori, conquistando con la forza i Comuni amministrati dalle sinistre. Le spedizioni punitive divennero il metodo abituale di lotta e di affermazione del fascismo.

I quadri delle “squadre” erano forniti dallo Stato. Alla fine del 1920 il ministro della guerra Ivanoe Bonomi dispose che gli ufficiali in corso di smobilitazione fossero inviati nei centri più importanti con 1’obbligo di aderire ai fasci, ai quali avrebbero dovuto prestare il contributo della loro esperienza militare. A questi ufficiali veniva assicurato un soldo pari ai 4/5 di quella percepito in servizio. Facendo leva sull’appoggio dei capitalisti, del governo, della autorità locali, della magistratura, dei comandi militari e della polizia, i fascisti riuscirono a “conquistare” una provincia dopo l’altra, un Comune dopo l’altro, a distruggere un’organizzazione proletaria dopo l’altra.

I lavoratori, nonostante l’incapacità dei socialisti e il settarismo dominante nel partito comunista, ancora prevalentemente influenzato da Bordiga, opposero ai fascisti una strenua resistenza. Nella primavera del 1921 si costituì un movimento unitario di resistenza, gli “Arditi del popolo”, fondato su gruppi armati, cui aderivano antifascisti di varia provenienza politica, che si proponevano di opporsi con le armi alla violenza fascista. Mentre i socialisti, come scrisse Gramsci, dicevano agli operai “di non lottare, di rassegnarsi, di aspettare tempi migliori, di confidare nelle idee di civiltà e di umanità che nella storia finiscono sempre per trionfare”, i comunisti stabilirono una stretta collaborazione con gli Arditi del popolo, si arruolarono nei gruppi armati di difesa e aiutarono l’organizzazione della lotta contro le bande fasciste.

Giolitti si era appoggiato al fascismo nella speranza di arrecare duri colpi al movimento operaio. Nella primavera del 1921 credette fosse giunto il momento di convocare nuove elezioni che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto indebolire fortemente i partiti di sinistra e il partito popolare, e assicurargli una solida maggioranza parlamentare. La consultazione del 15 maggio deluse però le speranze del vecchio uomo politico. Nonostante il clima di terrore e di violenza in cui si svolsero le elezioni, alle quali partecipò poco più della metà degli elettori, i socialisti ebbero eletti 123 deputati e i comunisti 16 (complessivamente 139 contro i 156 che il partito socialista ancora unito aveva avuto nel 1919). I popolari guadagnarono voti e seggi passando a 110 deputati. I fascisti, che si erano presentati nelle liste del “ Blocco nazionale” borghese, ebbero 35 deputati. La nuova Camera, che vedeva sostanzialmente immutate le posizioni della sinistra, migliorate quelle dei cattolici, e l’ingresso di una consistente pattuglia fascista, era meno governabile della precedente. I risultati elettorali costituirono una grave sconfitta per il vecchio Giolitti, che alla fine di giugno fu costretto a rassegnare le dimissioni.

Alla testa del governo gli subentrò Ivanoe Bonomi, l’uomo che come suo ministro della guerra aveva rifornito i fascisti di armi e munizioni, di camion e di “raccomandazioni” presso le autorità militari. Divenuto presidente del Consiglio, Bonomi sembra però deciso ad opporsi all’illegalismo fascista.

Mussolini, che giocava contemporaneamente la carta parlamentare e quella antiparlamentare, fu quindi ben felice dell’iniziativa del presidente della Camera dei Deputati, Enrico De Nicola, che nel luglio propose un patto di pacificazione “tra fascisti e socialisti”. Il “patto” incontrò una netta opposizione da parte del fascismo agrario, e solo con difficoltà Mussolini riuscì a far accettare il principio delle trattative.

Dopo che i carabinieri ebbero disperso con la forza a Sarzana una colonna di oltre 500 fascisti toscani, infliggendo loro 20 morti e parecchie decine di feriti, Mussolini, terrorizzato, chiese al paese una “tregua” e dopo aver auspicato il 23 luglio alla Camera dei Deputati la formazione di un governo di coalizione con la partecipazione di socialisti, popolari e fascisti, si affrettò a far giungere in porto il “patto di pacificazione”, che venne firmato a Roma il 2 agosto 1921 dai rappresentanti dei partiti e dei gruppi parlamentari fascista e socialista, della Confederazione del lavoro e dal presidente della Camera De Nicola.

Il partito comunista denunziò con vigore la politica di capitolazione dei socialisti e dei dirigenti sindacali e il carattere demagogico di tutti i discorsi sulla “pacificazione”. Anche i fasci dell’Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, dove più forte era il fascismo agrario comandato dai Balbo, Grandi e Farinacci, si pronunciarono contro il patto di pacificazione, costringendo Mussolini a dimettersi dal Comitato esecutivo dei fasci. Il patto venne definitivamente annullato nel corso del Congresso nazionale fascista che si svolse a Roma dal 7 al 10 novembre.

Il congresso confermò Mussolini capo dei fascisti, ma il “duce” fu costretto a sposare le tesi più intransigenti del fascismo agrario. Particolarmente significativa la composizione sociale dei membri del Partito Nazionale Fascista, che venne creato ufficialmente nel corso del Congresso di Roma.

I fascisti erano così suddivisi: 12% proprietari terrieri, 9% commercianti, 2,7% industriali, 6,6% liberi professionisti, 5% funzionari statali e privati, 10% impiegati, 1,4% istitutori, 13,3% studenti, 24% contadini, 16% operai. In complesso il 60% di borghesia agraria e classi medie, e il 40% di salariati (per lo più disoccupati e sottoproletari).

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Il fascismo si era reso colpevole di una tale serie di atti criminosi, che per assicurare l’impunità ai suoi iscritti e specialmente ai complici (questure, guardie regie, carabinieri e magistratura) che occupavano alte posizioni nella gerarchia statale, avrebbe cercato di conquistare con tutti i mezzi il potere dello Stato. Gli stessi funzionari statali sapevano bene che la loro impunità e la loro carriera erano già strettamente legate alle fortune dell’organizzazione fascista, per cui avevano tutto l’interesse a sostenere il fascismo in qualsiasi tentativo volesse fare per consolidare la sua posizione politica. Peraltro i fascisti (organizzati in un sistema gerarchico di tipo militare, con tanto di stato maggiore) già possedevano, disseminati in tutto il territorio nazionale, depositi di armi e munizioni in quantità tale da essere almeno sufficienti per costituire un’armata di mezzo milione di uomini.

Ecco perché dopo il Congresso di Roma l’azione terroristica dei fascisti riprese più violenta che mai, e più decisa si fece la loro azione per giungere alla conquista del potere. La ripresa delle spedizioni punitive fu caratterizzata dall’assassinio a Bari del deputato socialista Di Vagno e a Cremona del vice-presidente della deputazione provinciale Boldori, anche lui socialista.

Nel Consiglio nazionale fascista che si svolse a Firenze il 20 e 21 dicembre 1921, venne scartata la soluzione parlamentare in considerazione dei rapporti di forza esistenti (su 535 deputati 145 erano socialisti, comunisti e repubblicani, 110 popolari e 150 democratici), e venne messa a punto l’organizzazione militare delle squadre d’azione in vista della conquista violenta del potere.

Nel mese di marzo del 1922, poco più di un anno dopo la sua fondazione, il Partito Comunista d’Italia tenne a Roma il suo secondo Congresso nazionale. Costretto a vivere nella semilegalità, oggetto dell’accanita violenza fascista, di persecuzioni e discriminazioni, il partito era tuttavia riuscito a consolidare la sua organizzazione, a fornirsi di quadri preparati e a imporsi una disciplina di ferro. Tuttavia la dominante influenza di Bordiga aveva ristretto l’azione del partito in limiti settari ed estremistici. La linea ufficiale del partito era che non esisteva nessuna differenza fra fascismo e democrazia; pertanto veniva respinta la politica di fronte unico auspicata dalla Internazionale Comunista, anche perché quasi nessuno credeva alla possibilità di un colpo di Stato fascista o militare.

Solo Gramsci era convinto della inevitabilità del colpo di stato reazionario se il proletariato non avesse saputo eliminarlo ed era favorevole al “fronte unico fino alla sua conclusione normale nel governo operaio”. Anche lui però, per timore di fare il gioco della destra di Tasca e Graziadei, accettò di non differenziare pubblicamente le sue posizioni da quelle della maggioranza bordighiana, e al Congresso di Roma si limitò solo a far inserire nelle tesi sulla tattica un accenno alla possibilità di un colpo di stato reazionario.

Nonostante l’indirizzo settario dominante, il partito comunista appoggiò l’Alleanza del lavoro, un tentativo di fronte unico proletario, che venne creata nel febbraio 1922 con la partecipazione della Confederazione Generale del Lavoro, dell'Unione sindacale italiana, dell'Unione italiana del lavoro, del Sindacato ferrovieri italiani e della Federazione nazionale lavoratori dei porti.

L’Alleanza era sorta in funzione antifascista, ma i dirigenti riformisti non si decisero a uscire dai confini del movimento sindacale, anche se la costituzione dell’Alleanza rialzò per un momento le forze depresse della classe lavoratrice e sembrò un valido baluardo contro la conquista del potere.

Tuttavia l’avanzata del fascismo, sempre più apertamente favorita dalla classe dirigente e dal governo, si faceva ogni giorno più travolgente e violenta. A metà luglio del 1922 vi fu l’attacco fascista contro Novara, al fine di minacciare il triangolo industriale Milano-Genova-Torino, dove maggiore era la forza della classe operaia. Ciò fece nascere un tentativo di azione comune delle organizzazioni operaie di queste città, ma i dirigenti sindacali boicottarono lo sforzo e lo sciopero generale si svolse solo in Piemonte. Il tradimento dei leader riformisti fece fallire anche i sollevamenti spontanei che si ebbero in Piemonte, in Lombardia e nelle Marche contro la violenza fascista.

Solo alla fine di luglio, quando molti sforzi locali si erano ormai esauriti, l’Alleanza del lavoro proclamò uno sciopero legalitario antifascista. Lo sciopero ebbe inizio il 1° agosto e vide la partecipazione di larghe masse popolari. In numerose località si ebbero scontri sanguinosi degli scioperanti con la polizia e i fascisti. Intimoriti delle minacce fasciste, i capi riformisti disposero però la cessazione dello sciopero senza che gli obiettivi ch'erano stati posti fossero raggiunti. Lo sciopero legalitario rappresentò l’ultimo sforzo nazionale del movimento operaio italiano per fermare la marcia del fascismo verso il potere.

Durante lo sciopero i fascisti conquistarono anche Milano, cacciandone l’amministrazione comunale socialista, ma subirono sanguinose disfatte a Parma e a Bari. A Parma si erano concentrate colonne fasciste emiliane e lombarde decise a conquistare la città, ma la decisa opposizione delle masse, che insorsero al fianco degli Arditi del popolo guidati da Guido Picelli, li mise in fuga, dopo una battaglia protrattasi per alcuni giorni.

Tuttavia lo sciopero dell’agosto segnò la definitiva disfatta dell’antifascismo. Lo stesso Mussolini riconobbe nel 1927: “Dall’agosto del 1922, sconfitta definitivamente l’Alleanza del lavoro, cioè tutti i partiti antifascisti, sulla scena politica italiana non restavano che due forze: il governo demo-liberale e l’organizzazione armata del fascismo. Con l’agosto del 1922 cessava la lotta con l’antifascismo sovversivo”.

Mentre l’imbelle governo Facta, subentrato a quello Bonomi nel marzo e faticosamente riconfermato nell’agosto 1922, assisteva inerte e passivo alla dissoluzione dello Stato liberale, le forze e i gruppi dominanti dell’Italia diedero via libera alla conquista fascista del potere. Gli industriali appoggiarono e finanziarono il movimento; l’esercito fornì i suoi mezzi e i suoi generali ai fascisti; la regina madre, Margherita di Savoia, diede il suo benestare; il Vaticano sconfessò il partito popolare e trattò coi fascisti il suo appoggio in cambio del salvataggio del Banco di Roma e della soppressione della nominatività dei titoli azionari.

L’azione finale venne decisa a Napoli il 24 ottobre nel Corso di un convegno fascista. L’inizio fu fissato per il 27 ottobre. Colonne di fascisti armati avrebbero dovuto convergere su Roma per costringere il re a dare l’incarico di costituire il nuovo governo a Mussolini. In quasi tutte le province i prefetti cedevano i poteri ai fascisti, ma a Civitavecchia si delineò la resistenza degli Arditi del popolo contro la colonna fascista, mentre a Orte fu l’esercito a preparare la resistenza. Nei Castelli romani ebbe inizio la resistenza armata contro i fascisti.

All’alba del 28 ottobre il governo decretò lo stato d’assedio, ma il re Vittorio Emanuele III rifiutò la sua firma, costrinse il governo a rassegnare le dimissioni, e diede a Mussolini, giunto a Roma in vagone-letto, l’incarico di formare un nuovo gabinetto. Le squadre fasciste poterono così entrare a Roma dove però, nel popolare quartiere di San Lorenzo, incontrarono una dura resistenza da parte degli Arditi del popolo.

Nel nuovo governo entrarono quattro fascisti (Mussolini, De Capitani, De Stefani e Oviglio); il generale Din e l’ammiraglio Thaon di Revel, rappresentanti delle caste militari e della corte; i popolari Tangorra e Cavazzoni; il giolittiano Teofilo Rossi, uomo della Confindustria; i nazionalisti Federzoni e Giuriati; i democratici sociali Carnazza e Colonna di Cesare; e il liberale di destra Giovanni Gentile.

La conquista del potere da parte dei fascisti si accompagnò a una spietata campagna di terrore contro le organizzazioni operaie e soprattutto contro i comunisti. I giornali di opposizione vennero chiusi. Dopo aver devastato l’“Avanti” i fascisti ne autorizzarono di nuovo la pubblicazione come premio per la passività dimostrata durante la marcia su Roma: i socialisti infatti avevano assicurato, per bocca di Pietro Nenni, la neutralità del loro partito di fronte al colpo di stato fascista.

La campagna di terrore scatenata dai fascisti raggiunse il suo culmine a Torino, dove nella notte del 18 dicembre vennero brutalmente assassinate oltre 50 persone, comunisti, anarchici, antifascisti.

Il 17 novembre la Camera dei Deputati, dopo un minaccioso discorso di Mussolini, gli concesse la fiducia con 306 voti contro 116 e 7 astensioni. Il giorno successivo Mussolini ricevette i pieni poteri con 275 voti contro 90. La dittatura fascista era instaurata in Italia: sarebbe durata quasi 21 anni.

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Fin dai suoi primi atti il governo Mussolini si rivelò per quello che era: un governo reazionario che gestiva la società per conto della borghesia contro le masse lavoratrici. Subito dopo l’avvento al potere egli varò una serie di provvedimenti legislativi che favorivano i ceti capitalistici e toglievano ai lavoratori i frutti e le conquiste di tante battaglie: p.es. la soppressione dell’imposta di successione e di quella sugli articoli di lusso; lo scioglimento della commissione per la revisione dei contratti di guerra (la cui creazione era stata una delle rivendicazioni del programma fascista del 1919); l’abbandono della nominatività dei titoli e dei valori industriali e bancari (richiesto dal Vaticano e dai capitalisti); l’aumento del dazio sul grano; l’abrogazione del decreto emanato dal governo Nitti per regolare l’occupazione di terra incolte, e il seppellimento di qualsiasi proposito di introdurre un controllo sull’industria; la riduzione d’autorità del salario nelle aziende di Stato; la libertà delle disdette agrarie; la tassazione degli agrari col 10% del prodotto netto, dei coltivatori diretti col 10% del prodotto lordo; una legislazione demaniale che riduceva gli usi civili, e via dicendo.

Anche sulla scena internazionale si rivelò subito la natura reazionaria a aggressiva della politica fascista. Fin dal suo primo discorso alla Camera dei Deputati come presidente del Consiglio (16 novembre 1922) Mussolini proclamò che il torto fatto all’Italia dagli alleati sarebbe stato riparato “a qualunque costo”, e che la politica estera dell’Italia fascista sarebbe stata retta dal principio “niente per niente”.

Un inatteso incidente dimostrò quale stile il fascismo intendesse introdurre nelle relazioni internazionali. Nell’agosto del 1923 una missione militare italiana, dipendente dalla Conferenza di Parigi degli ambasciatori, fu massacrata in Grecia da banditi epiroti. Appena appresa la notizia, Mussolini presentò al governo greco un minaccioso ultimatum, e poiché l’ultimatum non fu accettato. fece prima bombardare e poi invadere l’isola di Corfù. Il grave episodio si concluse comunque con uno scacco per l’Italia, che fu costretta a ritirare le sue truppe da Corfù senza ottenere soddisfazione alle sue richieste, in quanto della questione fu investita la Conferenza degli ambasciatori e la Grecia accolse le richieste della Conferenza e non l’ultimatum italiano.

Un’altra impresa diplomatica di Mussolini si ebbe a Fiume. Egli aveva fatto approvare dalla Camera dei Deputati il trattato di Rapallo, ma quando i fascisti provocarono una grave crisi nello Stato libero di Fiume, riuscì a farsi riconoscere dal regno serbo-croato-sloveno la sovranità sulla città. Ma anche in questo caso si trattò di un successo solo parziale, in quanto fu costretto ad accettare la spartizione del territorio conteso. Fiume restò all’Italia, ma Sussak e una parte del porto passarono alla Iugoslavia.

Tra il 1922 e il 1939 l’Italia si mise in urto con tutti i principali paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Germania, Austria, Iugoslavia, Grecia, Unione Sovietica), senza però che i paesi presi di mira facessero la più piccola concessione sostanziale. Il prestigio internazionale dell’Italia andò sempre più decadendo e alla fine Mussolini fu costretto ad asservire l’Italia alla politica della Germania hitleriana.

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  • Rosso Europa (pdf di articoli di Wikipedia su "settimana rossa" e "biennio rosso")

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 19/02/2015