LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


IL FASCISMO DALLA CRISI POLITICA DEL 1924-25 ALLA SUA RISCOSSA

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IL “BLOCCO DELL’AVENTINO” E LA SUA TATTICA

Non appena giunto al potere, il fascismo inasprì lo sfruttamento degli operai. I fascisti contavano in tal modo di accelerate il processo di ripresa dell’industria. In effetti, nel 1925, la produzione industriale del paese superò complessivamente il livello prebellico. In due anni (1924-1925) la produzione dell’acciaio aumentò del 55%, quella dell’energia elettrica del 34%, le esportazioni del 65%. Il numero dei disoccupati, secondo le cifre ufficiali, si abbassò da 240.000 a 100.000.

Tuttavia la febbre inflazionistica (negli stessi anni 1924-1925 il corso della lira cadde del 14%) e il conseguente aumento del costo della vita portarono a una riduzione sistematica del salario reale degli operai e al peggioramento delle condizioni materiali di vita delle masse popolari.

Questi fatti accrebbero il malcontento in diversi strati della popolazione e il regime non osò, nei primi tempi, vietare apertamente le organizzazioni politiche ed economiche del proletariato. Il partito comunista, i due partiti socialisti (riformisti e massimalisti), la Confederazione generale del lavoro e le altre organizzazioni sindacali non vennero vietati, anche se furono sottoposti a continue persecuzioni. I giornali e le riviste comunisti e socialisti, nonostante le repressioni, continuarono a uscire.

D'altra parte il regime non aveva ancora appoggi sicuri nelle gerarchie militari: il vecchio esercito era in questo senso malsicuro, la milizia fascista era stata appena organizzata. Un peso non minore giocavano i forti contrasti in seno alle classi dirigenti. Infatti la politica di Mussolini, dettata dai monopoli, intaccava sensibilmente gli interessi della piccola e media borghesia.

Nell’aprile 1924 si tennero le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati. Nonostante che nel “blocco nazionale” coi fascisti fossero presenti esponenti dei vecchi partiti borghesi, in particolare i capi dell’ala destra e del centro dei liberali (come Salandra e Orlando), l’opposizione antifascista raccolse 2.500.000 voti su 7.200.000 votanti, e portò in parlamento un numero notevole di deputati: 39 del partito popolare, 24 socialisti riformisti, 22 socialisti massimalisti, 19 comunisti. L’esito delle elezioni dimostrò chiaramente la debolezza del regime fascista e favorì una ulteriore ripresa del movimento antifascista.

I fascisti risposero intensificando il terrorismo. Il 10 giugno 1924 un esponente dell’opposizione in parlamento, il socialista Giacomo Matteotti, veniva rapito dai fascisti e barbaramente ucciso. L’efferato delitto, la cui diretta responsabilità ricadeva sullo stesso Mussolini, causò un’ondata di sdegno in tutto il paese. Spaventato dal rapido rafforzarsi del movimento antifascista, il governo sembrò perdere il controllo degli avvenimenti e Mussolini, parlando al Senato, accennò all’eventualità delle sue dimissioni. Gli ambienti fascisti furono presi dal panico e si verificò una nutrita serie di dimissioni dal partito fascista.

Il partito comunista avanzò un vasto programma di lotta per l’abbattimento del regime fascista. Ma i partiti di opposizione borghesi e i due partiti socialisti non seppero agire con la necessaria decisione, timorosi di chiamare le masse all’azione rivoluzionaria contro il governo e di uscire dall’ambito dell’opposizione “costituzionale”, che era di fatto innocua per il fascismo.

Unitisi nel cosiddetto “blocco dell’Aventino” (secondo la leggenda i plebei dell’antica Roma in lotta contro i patrizi si erano ritirati sul colle dell’Aventino) e ritirando i propri rappresentanti dal parlamento, questi partiti si limitarono a svolgere una politica di attesa passiva, facendo nascere nelle masse popolari l’illusione che il regime fascista, dilaniato dai contrasti interni, sarebbe crollato da solo. Una tale politica faceva il gioco del fascismo, poiché disorientava le masse e le distoglieva dalla lotta concreta contro la dittatura terroristica di Mussolini.

Il partito comunista, lasciando il parlamento assieme a tutti i partiti di opposizione, propose fin dall’inizio di costituire un “antiparlamento” e di chiamare i lavoratori allo sciopero generale. Ma il “blocco dell’Aventino”, temendo soprattutto la forza rivoluzionaria delle masse, respinse queste proposte. Il partito comunista ruppe allora con il “blocco dell’Aventino” e sviluppò con le proprie forze una campagna contro il fascismo in tutto il paese.

Alla fine dell’anno, alla vigilia della nuova sessione del parlamento, il partito comunista rinnovò al “blocco dell’Aventino” la proposta di convocare in assemblea tutti i deputati antifascisti e di costituire un “antiparlamento”, quale unico rappresentante legittimo della volontà del popolo italiano. Ma anche questa proposta, che implicava la mobilitazione delle masse per l’azione rivoluzionaria contro il regime fascista, venne respinta dagli “aventiniani”. Allora i deputati comunisti rientrarono in parlamento per smascherare dalla tribuna parlamentare i crimini efferati del fascismo e chiamare il popolo alla lotta contro Mussolini. La pavida e inconseguente tattica del “blocco dell’Aventino” aiutò grandemente Mussolini a soffocare il movimento popolare antifascista, a distruggere l’opposizione e a liquidare i resti delle libertà democratico-borghesi.

IL CONSOLIDAMENTO DELLA DITTATURA FASCISTA

LA POLITICA ECONOMICA DEL FASCISMO

La politica economica del fascismo italiano può essere suddivisa in quattro fasi diverse.

1. La prima va dal 1922 al 1925 e viene definita di tipo liberistico, nel senso che lo Stato interviene il meno possibile nel regolamentare la produzione, anche perché vi era stata la crisi politica del 1924-25, conseguente al delitto Matteotti, e l’approvazione delle leggi che liquidavano gli ultimi resti delle libertà democratico-borghesi. Lo dimostra il fatto che le linee telefoniche e le assicurazioni della vita furono affidate a gestori privati, mentre fu ridotto il personale delle ferrovie statali. Il costo del lavoro fu contenuto, anzi si diminuirono i salari e le imprese poterono beneficiare di un alleggerimento del carico fiscale. Questo comportò un calo sensibile della spesa pubblica e del deficit. Naturalmente l'azione del governo fu favorita dal fatto che a livello mondiale vi era una forte ripresa economica trainata dagli Usa.

2. La seconda fase nasce dall'esigenza di combattere l'inflazione, causata dai costi delle importazioni di materie prime, non compensati dai ricavi dell'export (p.es. nel 1925 il Paese risultava importatore netto di 25 milioni di quintali di frumento, su un consumo totale di 75 milioni di quintali). La lira si stava deprezzando notevolmente nei confronti della sterlina, moneta internazionale, tanto che nel cambio il rapporto era passato da 1:120 a 1:153. Nel 1925 e nel 1926 il corso della lira era stato del 25% inferiore alla sua parità aurea. L’inflazione poteva determinare il completo crac della lira, causando conseguenze catastrofiche per l’intera economia del paese e, in ultima analisi, anche per il regime fascista. Nel 1926 Mussolini decise che il cambio doveva passare a 1:90 lire ("Quota 90"). Ciò sarebbe servito anche per dimostrare la stabilità politica del regime. L'obiettivo venne raggiunto l'anno dopo, grazie però a nuove misure protezionistiche, alla riduzione dei salari, a una forte restrizione del credito bancario (che mandò in crisi le piccole-medie aziende), a un cospicuo prestito da parte delle banche statunitensi, oltre ovviamente al controllo dei prezzi.

In particolare gli Stati Uniti occuparono il primo posto negli investimenti di capitale in Italia. Centinaia di milioni di dollari, investiti dai monopoli americani nell’industria pesante e militare italiana, specie nell’industria elettrica, aiutarono il fascismo a creare la base materiale per preparare le sue guerre d’aggressione. Nel 1925 la Banca Morgan concesse al governo fascista un “prestito di stabilizzazione” di 100 milioni di dollari per attuare la riforma monetaria. Negli anni 1925-1929 i monopoli americani (Banca Morgan, Banco Dillon, Read & C., del gruppo Rockefeller, e altre) fornirono più di mezzo miliardo di dollari, sotto forma di prestiti, al governo fascista, ai municipi e ad aziende private, o d’investimenti di capitale nei diversi settori dell’industria italiana. L’afflusso di dollari americani permise ai monopoli italiani di elevare la produzione industriale. Nel 1929 essa superava del 40% il livello prebellico. La produzione dell’acciaio aumentò in 6 anni (dal 1923 al 1929) dell’84%, quella dell’energia elettrica del 100%. Meno notevole fu l’incremento della produzione nel settore tessile (12%) e in quello alimentare (23%).

Penalizzate furono - come sempre avviene in questi casi - le aziende che puntavano sull'export (tessile, alimentare, automobili). Nel periodo 1926-1929 il salario degli operai e degli impiegati subì una drastica riduzione, si triplicò la disoccupazione (da 100.000 a 300.000 unità), aumentò notevolmente lo sfruttamento del lavoro, vennero inasprite le tasse a carico dei lavoratori. Negli stessi anni il capitale delle società per azioni aumentò di due volte, raggiungendo i 46 miliardi di lire. Chi ci guadagnò da questa politica deflazionistica fu anche la piccola e media borghesia a reddito fisso: impiegati pubblici, proprietari di case, insegnanti..., poiché tutti i titoli di stato furono obbligatoriamente convertiti in un nuovo prestito pluriennale a tassi vantaggiosi. Il ceto medio infatti diventava il principale puntello del regime. Ma ci guadagnarono anche le grandi imprese che lavoravano per il mercato interno e vivevano di finanziamenti pubblici (chimica, cantieristica, elettricità).

Da notare che nel 1925 Mussolini aveva emanato leggi reazionarie sul sistema elettorale, sulla stampa, sui sindacati, sulle amministrazioni locali, e nel novembre 1926 promulgato le “leggi eccezionali”, che instauravano nel paese la dittatura assoluta del partito fascista. Tutti gli altri partiti politici vennero vietati, migliaia di comunisti, di socialisti, di antifascisti attivi, di operai rivoluzionari vennero gettati in carcere, mandati al confino o furono costretti a esiliare. Venne costituito un “tribunale speciale”, con il compito di colpire gli oppositori. Il governo sciolse le organizzazioni sindacali, mentre una legge del 3 aprile 1926 instaurava il monopolio dei sindacati fascisti. Un anno dopo essa veniva completata dalla cosiddetta “Carta del lavoro” (favorevole al capitale monopolistico), che venne demagogicamente presentata dal fascismo come la dimostrazione che il suo Stato sarebbe stato “al di sopra delle classi” e che il fascismo avrebbe difeso gli interessi dell’intero popolo.

La Carta non conteneva una sola parola né sulla giornata lavorativa di 8 ore né sui minimi salariali e soprattutto proibiva gli scioperi. Alcuni dirigenti riformisti del movimento sindacale si affrettarono ad appoggiare le misure del fascismo e decisero l’“autoliquidazione” della Confederazione generale del lavoro. Tuttavia, grazie agli sforzi del partito comunista e degli operai progressisti, la Confederazione venne ricostituita nel febbraio 1927, nella più assoluta clandestinità.

Oltre a ciò Mussolini lanciò un'altra iniziativa denominata "battaglia del grano". Si voleva raggiungere l'autosufficienza alimentare. Poiché le forti importazioni di grano incidevano pesantemente sul deficit della bilancia commerciale, il regime pensò di espandere il più possibile l'area di coltivazione dei cereali o comunque di ottenere una migliore resa per ettaro. L'impresa riuscì, poiché da 10 quintali per ettaro si passò a 14 quintali (alla fine degli anni Trenta la produzione era aumentata del 50%). Tuttavia ci guadagnarono soprattutto le grandi aziende e coloro che possedevano ingenti ettari di terra. Il fatto di puntare tutto sul grano penalizzò le aziende meridionali specializzate in olivi, viti, ortaggi e frutteti, e anche i piccoli contadini, i quali, costretti a produrre grano, avevano dovuto rinunciare alle altre colture che le autorità fasciste ritenevano di minor pregio (p.es. broccoli, cime di rapa, farro, lenticchie, rape). Fu danneggiato anche l'allevamento a causa della riduzione dei pascoli. Questo senza considerare che la dieta degli italiani ebbe un peggioramento, in quanto i cereali (meno costosi di altri generi alimentari più ricchi come carne, latte, grassi, vino ecc.) andarono a coprire una quota più ampia del loro fabbisogno calorico e proteico.

3. La terza fase fu conseguente al crollo borsistico mondiale del 1929, avvenuto a Wall Street. Di fronte all'aumento della disoccupazione e al forte calo dell'export, lo Stato intervenne decisamente a difesa delle imprese e delle banche più in crisi. Nel 1931 infatti creò l'Istituto Mobiliare Italiano, con cui raccoglieva il risparmio pubblico, attraverso l'emissione di obbligazioni decennali, per indirizzarlo ai settori economici in difficoltà (Ansaldo, Ilva, Italgas, Terni ecc.). Addirittura nel 1933 (quando il volume dell'export era più che dimezzato rispetto al 1929) fu creato l'Istituto per la Ricostruzione Industriale, allo scopo di salvare banche e imprese sull'orlo della bancarotta, cioè in sostanza avrebbe dovuto rivendere ai privati le industrie risanate, ma gli imprenditori non avranno mai i capitali sufficienti per riacquistarle. Rilevando i loro pacchetti azionari, lo Stato assunse il controllo della Banca commerciale italiana, del Credito italiano e del Banco di Roma, e siccome queste banche possedevano ingenti partecipazioni nelle maggiori aziende del Paese, l'IRI si trovò a controllare molte imprese industriali in settori d'importanza strategica (siderurgia, meccanica, cantieristica, trasporti) e questo controllo lo eserciterà per un altro mezzo secolo dopo la caduta del regime, controllando fino a 1/3 dell'economia italiana. In pratica lo Stato era diventato un mediatore finanziario e, nel contempo, un imprenditore industriale, favorendo enormemente i maggiori gruppi privati, i cui costi dovuti alla crisi furono pagati dalla collettività: Agnelli (industria automobilistica), Pirelli (gomma), Falck (siderurgia), Volpi (finanza), Cini (cantieristica), Donegani (chimica e miniere). Non a caso fu proprio in questo periodo che si diede vita all'ordinamento corporativo.

La legge che istituì il Consiglio Nazionale delle Corporazioni fu del 1930: esso si avvaleva della suddetta Carta del lavoro. Il numero delle Corporazioni fu fissato a 22, in base ai cicli produttivi e alle branche professionali (p.es. le corporazioni dei cereali, della metallurgia, dell'edilizia ecc.). In teoria avrebbero dovuto essere degli organismi interclassisti, volti a superare la concorrenza tra le imprese e i conflitti sociali tra operai e imprenditori, al fine di creare una sorta di "terza via" tra capitalismo privato e socialismo statale. Di fatto tutte le decisioni venivano prese da organi esterni, contro gli interessi dei lavoratori. Le Corporazioni infatti erano prive di qualunque rappresentatività e alla fin fine si risolsero ad essere una mera burocrazia sovrapposta a quella già esistente. Demagogicamente Mussolini provvide a sostituire la Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni (1939), sancendo la fine di ogni criterio elettivo.

Oltre a ciò la crisi economica degli anni Trenta fu affrontata con una grande campagna di lavori pubblici (strade, ponti, ferrovie...) con cui ridurre la disoccupazione. Il più importante intervento in campo agricolo (non dimentichiamo che qui vi lavorava il 50% di tutti i lavoratori) fu il piano di bonifica integrale varato tra il 1928 e il 1933, che aveva come obiettivo il recupero in tutto il paese di 5 milioni di ettari di terre paludose, al fine di rendere abitabili (senza rischiare la malaria) e coltivabili. La più grande opera di bonifica fu quella dell'Agro Pontino, presso Roma. Qui oltre 65.000 ettari di terra furono bonificati e ripartiti in circa 3.000 poderi, assegnati alle famiglie che vi avevano lavorato, quasi tutte provenienti da Veneto ed Emilia-Romagna. Fra il 1932 e il 1938 vi furono fondate cinque nuove città: Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia. Tuttavia le famiglie contadine non riuscirono affatto a ricavare da quelle terre un reddito sufficiente per campare.

4. La quarta fase fu successiva all'invasione dell'Etiopia nel 1935 e al conseguente embargo economico da parte di alcune potenze occidentali. Si voleva raggiungere la piena autarchia alimentare, già avviata con la "battaglia del grano", sfruttando enormemente il sottosuolo. La scelta autarchica accentuò il protezionismo e il dirigismo dello Stato, chiudendo l'Italia ai mercati esteri e imponendo ai consumatori prodotti nazionali d'alto costo e minore qualità. Il risultato fu che l'Italia non raggiunse mai la piena autosufficienza alimentare; anzi, in virtù dell'autarchia, il regime stava pensando d'entrare in guerra.

LA LOTTA DEL PARTITO COMUNISTA CONTRO IL FASCISMO

Nel 1924, in un momento di ascesa del movimento antifascista di massa, quando occorreva prendere decisioni responsabili, il Partito comunista d’Italia dovette spendere molte delle sue forze per superare le tendenze settarie rappresentate da Amedeo Bordiga. Nel gennaio 1926 si tenne a Lione, in Francia, il III Congresso del partito, che segnò la sconfitta ideologica e politica del bordighismo.

Dal novembre 1926, data in cui andarono in vigore le leggi eccezionali, cominciò un periodo particolarmente difficile per i comunisti italiani. Nel novembre vennero arrestati quasi tutti i dirigenti del partito, compresi Gramsci, Terracini e Scoccimarro. Nel giugno 1928 il tribunale speciale fascista condannò 37 dirigenti comunisti a complessivi 238 anni di carcere. Gramsci, Terracini, Scoccimarro e altri dirigenti del partito ebbero 20 anni di carcere ciascuno. Nel maggio-giugno 1928 il partito comunista subì un nuovo duro colpo: la polizia fascista arrestò quasi al completo il cosiddetto “centro interno” del partito (Li Causi, Amoretti, D’Onofrio). A partire dal 1927 ogni settimana venivano pubblicati comunicati ufficiali sulle condanne emesse dal tribunale speciale fascista. Delle 4.671 persone condannate da questo tribunale, 4.030 erano comunisti, e tra le 10.000 inviate alle isole di confino, i comunisti erano 8.000.

Dopo l’emanazione delle leggi eccezionali, il partito continuò a vivere nella clandestinità, e fu l’unica organizzazione politica antifascista, che, nelle difficili condizioni del terrorismo fascista, non cessò le sua attività tra le masse, costituendo e dirigendo le cellule illegali nelle aziende. Infatti già nel 1927 in diverse località del paese scoppiarono alcuni scioperi. Di grande rilievo fu la lotta delle mondine nell’Italia settentrionale. Nell'organizzazione di questi scioperi notevole fu l’apporto dato dalla Confederazione generale del lavoro, che aveva stretti contatti con il partito comunista.

Nel 1928-29 essa, di comune accordo col Partito comunista d’Italia, prese importanti decisioni per sfruttare tutte le possibilità legali atte a sviluppare la sua attività e in particolare per intensificare la sua opera nei sindacati fascisti, che a quel tempo erano la organizzazione di massa più numerosa del paese.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 14/02/2016